È sabato. Non è successo niente tutta la mattina. Si sono formati ghiaccioli sulla doccia delle grondaie, sopra la finestra a sud, e gocciolano alla luce del sole con un rumore regolare come quello di un rubinetto. Mia madre è in cucina a preparare il pranzo, mio padre e mio fratello sono altrove: io sto facendo la colazione da sola, intanto guardo i ghiaccioli.
La colazione è composta da cracker, formaggio fuso arancione, un bicchiere di latte e una scodella di zuppa con le lettere dell’alfabeto. Mia madre pensa che per i bambini queste lettere dell’alfabeto siano un divertente richiamo. Nella zuppa galleggiano le lettere dell’alfabeto, lettere bianche, maiuscole, le A e le O, le S e le R, qualche X e qualche Z. Quand’ero più piccola pescavo queste lettere e componevo parole sul bordo del piatto, oppure mangiavo il mio nome lettera dopo lettera. Ora mangio semplicemente la zuppa, senza un particolare interesse. La zuppa, di un rosso arancione, è saporita, ma le lettere non hanno nessun sapore.
Squilla il telefono. È Grace. «Vuoi uscire a giocare?» mi domanda con il suo tono di voce neutrale, che è al tempo stesso distaccato e ruvido come carta vetrata. So che Cordelia è lì accanto a lei. Se dico di no, verrò accusata di qualcosa. Se dico di sì, dovrò andare. Dico di sì.
«Veniamo a prenderti» dice Grace.
Sento lo stomaco chiuso e pesante, come se fosse pieno di terra. Indosso la tuta da neve e gli stivali, il berretto di maglia e i guanti. Dico a mia madre che esco a giocare. «Non prendere freddo» si raccomanda.
Il sole sulla neve è accecante. Una crosta di ghiaccio si è formata sui cumuli di neve, dove i primi strati si sono sciolti e poi gelati, e su questa crosta i miei stivali lasciano nitide impronte. Intorno non c’è nessuno. Cammino attraverso questo bianco riverbero verso la casa di Grace. L’aria è ondulata, piena di luce, troppo piena, sento la pressione sugli occhi. Mi sento trasparente, come una mano sopra una torcia elettrica o come quelle fotografie di meduse che ho trovato sulle riviste, quando galleggiano in mare come acquosi palloni di carne.
In fondo alla strada le avvisto tutte e tre, molto scure, che camminano verso di me. l loro cappotti sembrano quasi neri, e quando sono più vicine, anche le loro facce sembrano molto scure, come se fossero in ombra.
Cordelia mi dice: «Abbiamo detto che venivamo a prenderti. Non ti abbiamo detto che potevi venire qui».
Non dico niente.
Grace soggiunge: «Dovrebbe rispondere quando le parliamo».
E Cordelia: «Che cosa c’è, sei diventata sorda?».
Le loro voci mi suonano distanti. Mi volto e vomito su un cumulo di neve. Non ne avevo intenzione, non sapevo nemmeno che stavo per vomitare. Ho mal di stomaco tutte le mattine, ci sono abituata, ma questa volta succede sul serio, è la zuppa con le lettere dell’alfabeto mescolata a pezzi di formaggio masticato, straordinariamente rossi e arancioni sul bianco della neve, con qualche lettera spezzata qua e là.
Cordelia non dice niente. Grace dice: «È meglio che tu vada a casa».
Carol, dietro a loro, sembra che stia per piangere, poi dice: «Si vede dalla faccia». Ritorno verso casa mia, con l’odore del vomito sulla tuta, il suo sapore nel naso e nella gola; mi ricorda dei pezzetti di carota.
Mi distendo a letto col secchio della spazzatura vicino, galleggiando lievemente sulle onde della febbre. Vomito parecchie volte, finché non esce altro che saliva verdastra. «Temo che ce la prenderemo tutti» dice mia madre. E ha ragione. Nella notte sento rumori di passi affrettati, conati di vomito, lo sciacquone del gabinetto. Mi sento sicura, piccola, avvolta nella mia malattia come nella bambagia.
Comincio a sentirmi male più spesso. A volte mia madre mi guarda nella bocca con una pila, mi tasta la fronte, mi prova la temperatura e poi mi manda a scuola; altre volte ho il permesso di rimanere a casa. In quei giorni mi sento sollevata, come se avessi corso a lungo e avessi raggiunto un posto in cui posso riposare, non per sempre ma per un po’. La febbre è qualcosa di piacevole, un vuoto. Mi piace la freschezza delle cose, l’insipido ginger ale che mi viene dato da bere e la delicatezza del suo sapore.
Distesa a letto, sorretta dai cuscini, con un bicchiere d’acqua sulla sedia accanto, ascolto i lontani rumori che fa mia madre: il frullatore delle uova, l’aspirapolvere, la musica della radio e il rumore, simile a quello del lago sulla riva, della lucidatrice. La luce del sole invernale entra di sbieco attraverso la finestra, tra le tendine tirate a metà. Ora ho le tendine. Guardo la plafoniera sul soffitto, il vetro opaco e giallastro con le ombre di due o tre mosche morte che trapelano all’interno, come in mezzo a una nebbia gelatinosa. Oppure guardo la maniglia della porta.
Qualche volta ritaglio figure dalle riviste e le incollo su un album con la colla liquida LePage, nella sua bottiglietta che assomiglia a un alfiere degli scacchi. Ritaglio figure di donne da ‘Good Housekeeping’, da ‘The Ladies’ Home Journal’ e da ‘Chatelaine’. Se non mi piace la faccia taglio via la testa e ne incollo altre. Queste donne sono vestite con maniche a sbuffo e gonne lunghe o con grembiuli bianchi legati stretti alla vita. Spruzzano insetticidi sugli insetti e nelle tazze del bagno, puliscono i vetri delle finestre oppure si detergono il viso con saponette, si lavano con lo shampoo i capelli grassi, si liberano di odori indesiderati, si strofinano con lozioni le mani ruvide e grinzose, si massaggiano le guance con rotoli di carta.
Altre fotografie mostrano donne che fanno cose che non dovrebbero fare. Alcune sono troppo pettegole, altre trasandate, altre ancora autoritarie. Alcune lavorano troppo a maglia. ‘Quando cammina, in auto, in piedi o seduta, ovunque vada, lì c’è il suo lavoro a maglia’ dice una didascalia. La fotografia mostra una donna che lavora a maglia su un tram, con le punte dei ferri che punzecchiano le persone accanto a lei e il gomitolo di lana che si srotola in mezzo al corridoio. Alcune donne hanno accanto un ‘uccello da guardia’, un uccello rosso e nero come quelli disegnati dai bambini, con grandi occhi e zampe a stecco. ‘Questo è un uccello da guardia per gli importuni’ dice la didascalia. ‘È un uccello da guardia che bada a te.’
Capisco che non ci sarà mai fine all’imperfezione, ai modi sbagliati di fare le cose. Anche quando si è adulti, per quanto ci si sforzi, qualsiasi cosa si faccia, ci sarà sempre qualche altra macchia in faccia o qualche stupidaggine, e qualcuno che aggrotterà la fronte. Ma in un certo senso mi fa piacere ritagliare tutte queste donne imperfette, con le rughe sulla fronte, che mostrano quanto sono preoccupate; mi piace incollarle sul mio album.
A mezzogiorno c’è alla radio l’Allegra Banda che bussa alla porta:
Toc, toc, toc.
Chi è?
È l’Allegra Banda!
Bene, entrate!
State allegri, come l’Allegra Banda,
State sani, sperate di star bene,
perché se siete allegri e sani,
che importa essere ricchi?
E allora state allegri con l’Allegra Banda!
L’Allegra Banda mi dà un senso di ansia. Che cosa succede se non si è allegri e in buona salute? Questo non lo dicono. In quanto a loro sono sempre allegri, così almeno dicono, ma non riesco a credere che qualcuno possa essere sempre allegro. E allora qualche volta devono pur mentire. Ma quando? Quante delle loro risate simulate sono realmente simulate?
Poco dopo c’è il Segnale orario ufficiale dell’Osservatorio del Dominion; una serie di ‘bip’ extraterrestri, seguiti da un silenzio e poi da un tratto lungo, che significa l’una. Il tempo trascorre e nel silenzio che precede il tratto lungo, il futuro prende forma. Volto la testa sul cuscino, non voglio sentirlo.