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Nel sotterraneo di Simpsons una volta vendevano strumenti vari e abiti a poco prezzo. Ora è uno splendore: piramidi di cioccolato d’importazione, un banco di gelateria, corsie e corsie di lussuose confezioni di biscotti e scatole di raffinatezze gastronomiche che scandiscono il tempo, come piccoli orologi, verso la data di scadenza stampata sulla confezione. C’è perfino un banco del caffè espresso. È tutto molto di classe qui, dove quando frequentavo le superiori acquistavo camicie da notte a buon prezzo, con i miei pochi soldi per i vestiti, sempre quelli in svendita e di una misura troppo grandi. Sono affascinata da tutto quel cioccolato: solo a guardarlo mi viene in mente il Natale e il senso di nausea di quando se ne mangia troppo, le scorpacciate e le indigestioni.

Vado a sedere al banco del caffè e ordino un cappuccino, per vincere quel senso di inerzia che mi ha preso alla vista di tanta zuccherosa intemperanza. Il banco del caffè espresso è in marmo verde scuro, vero o falso che sia, e coperto da un grazioso tendone, secondo l’idea che qualcuno si è fatto dell’Italia, con piccoli sgabelli girevoli. Da qui si vede il banco delle riparazioni delle scarpe, che non è altrettanto di classe ma mi dà un senso di sicurezza. La gente si fa ancora riparare le scarpe, nonostante tutto questo cioccolato, dunque non le butta via al primo segno di usura.

Penso alle scarpe della mia infanzia, alle Oxford marroni consumate in punta, risuolate e con i tacchi nuovi, alle scalcagnate e sudicie scarpe bianche da ginnastica, ai sandali marroni con due fibbie che si portavano con le calze. Quasi tutte le scarpe erano marroni. Sono associate nel ricordo al brasato cotto nella pentola a pressione insieme a flaccide carote, patate, e cipolle con i loro viscidi involucri. La pentola a pressione aveva in cima qualcosa di simile a un fischietto. Se non si faceva attenzione, il coperchio poteva esplodere come una bomba, e carote e patate venivano scaraventate sul soffitto, dove rimanevano appiccicate come una poltiglia. Una volta è successo a mia madre, ma per fortuna in quel momento non era in cucina e non si era scottata. Quando ha visto ciò che era successo non ha imprecato, ma ha riso e commentato così: «Si meriterebbe il primo premio per la decorazione».

Era mia madre che faceva quasi sempre da mangiare, ma non era questa la sua attività preferita. In generale non le piacevano i lavori di casa. Nel baule in cantina, insieme a una sottana da sera di velluto degli anni Venti e a un paio di pantaloni alla cavallerizza, c’erano parecchie cose in argento, saliere e pepiere decorate, mollette per lo zucchero a forma di zampa di gallina, vasi ridondanti di decorazioni floreali d’argento. Se ne stavano là sotto, avvolti in carta velina a diventare neri, perché altrimenti avremmo dovuto lucidarli. Coltelli, forchette e cucchiai invece dovevano essere lucidati, usando un vecchio spazzolino da denti per le parti decorate. Le gambe scolpite del tavolo da pranzo erano depositi di polvere, e così i vari altri oggetti, cianfrusaglie le chiamava mia madre, che le altre persone tenevano sulla mensola del caminetto. A lei piaceva invece cucinare dolci, anche se questa forse è soltanto una cosa che mi piace pensare.

Come mi sarei comportata al posto di mia madre? Doveva aver capito che cosa mi stava succedendo, o che qualcosa stava succedendo. Già all’inizio doveva essersi accorta dei miei silenzi, delle mie dita scarnificate, delle croste nere sulle labbra, dei punti dove strappavo lembi di pelle. Se succedesse adesso a uno dei miei figli, saprei cosa fare. Ma allora? Allora le possibilità erano minori e si parlava molto meno.

 

Una volta ho realizzato una serie di dipinti su mia madre. Erano sei immagini, sei pannelli, una specie di doppio trittico, una striscia di fumetti disposta in due gruppi, tre sopra e tre sotto. La prima immagine rappresentava mia madre nella sua cucina di città, vestita anni Quaranta. Aveva un grembiule con la pettorina a fiori azzurri, con fregi marinareschi, che perfino lei indossava di quando in quando. La seconda rappresentava la stessa figura in un collage composto con le illustrazioni di vecchi numeri di ‘Ladies’s Home Journal’ e di ‘Chatelaine’, non le foto ma i disegni, con quei verdi rancidi, gli azzurri sbiaditi, i rosa sporchi. La terza era la stessa figura, in bianco su bianco, con le parti in rilievo formate da scovolini per la pipa, contornati fianco a fianco e incollati su un fondo di tela bianca. Leggendo da sinistra a destra, si aveva l’impressione che mia madre stesse lentamente dissolvendosi, dalla vita reale nell’ombra di un bassorilievo babilonese.

La serie sottostante di immagini andava nell’altro senso: prima gli scovolini, poi la stessa immagine in collage e infine quella definitiva, resa realisticamente con tutti i colori. Qui, però, mia madre compariva in pantaloni e stivali, con la sua casacca da uomo, a cuocere gelatina di amarene sul fuoco all’aperto. Poteva essere vista come una materializzazione dallo sfondo nebbioso degli scovolini bianchi alla vivida luce del giorno.

Ho intitolato l’intera serie Pentola a pressione. Per via del periodo in cui è stata dipinta e di ciò che avveniva in quegli anni, alcuni hanno pensato che rappresentasse una Dea della Terra; tale interpretazione mi è sembrata ridicola, pensando all’antipatia che mia madre aveva per i lavori di casa. Altri hanno pensato che rappresentasse la condizione di schiavitù della donna, altri ancora che fosse uno stereotipo delle donne nei loro negativi e futili ruoli domestici. Ma era soltanto mia madre che cucinava, nei modi e nei luoghi in cui era solita cucinare, alla fine degli anni Quaranta.

Ho fatto questa composizione dopo che è morta. Immagino che volessi riportarla in vita. Immagino che volessi vederla senza tempo, ma non esiste nulla di simile sulla terra. Queste immagini di lei, al pari di ogni altra cosa, sono immerse nel tempo.

 

Finisco di bere il cappuccino, lo pago e lascio la mancia per il finto cameriere italiano che me l’ha servito. So già che non acquisterò niente da mangiare in questo reparto alimentari, ne sono troppo intimidita. Normalmente, oppure se mi trovassi in qualche altra città, non sarebbe così: sono una persona adulta e abituata a fare compere. Ma come potrei trovare quaggiù qualcosa che desidero, in questo momento? Mi fermerò in qualche bottega all’angolo, al ritorno, in uno di quei posti in cui vendono latte fino a mezzanotte e fette di pane bianco un po’ raffermo. Queste botteghe adesso sono gestite da persone che hanno il colore della pelle del signor Banerji, o da tmesi. Non sono necessariamente più cordiali dei pallidi bianchi che le gestivano prima, ma il contenuto generale della loro disapprovazione è più facile da intuire, anche se non nei particolari.

 

Risalgo su con l’ascensore, nell’aria viziata e profumata del piano terra. Qui l’aria è cattiva, c’è troppo odore di muschio, l’opprimente lezzo del denaro. Esco all’aria aperta e mi dirigo verso ovest, oltre i lugubri manichini nelle vetrine, oltre il municipio bivalve.

Davanti a me vedo un corpo disteso sul marciapiede. La gente lo aggira, abbassa lo sguardo, guarda altrove, continua a camminare. Vedo le facce che vengono verso di me, mostrando quel prudente riassestamento dell’espressione che vuole dire: ‘Non sono affari miei’.

Quando arrivo lì vicino, vedo che si tratta di una donna. È distesa sul dorso e guarda proprio me. «Signora» dice. «Signora, signora.»

È diventata una parola antiquata, ormai. Nobile signora, Signora in nero, Una vera signora, Merletti di vecchie signore, Mi ascolti, signora, Ehi, signora, guardi dove va, Gabinetto per signore: una parola caduta in disuso come il rossetto e sostituita da ‘donna’. Ma nei casi estremi è una parola che si usa ancora. Se qualcuno desidera davvero qualcosa non dice ‘Donna, donna’, dice ‘Signora, Signora’. Ed è quello che dice lei adesso.

‘E se le fosse venuto un attacco di cuore?’ penso. La guardo: ha la fronte sporca di sangue; non molto, è soltanto un taglio. Deve aver battuto la testa cadendo. Nessuno si ferma e lei è distesa lì sul dorso, una donna corpulenta sulla cinquantina con un misero cappotto verde di gabardine, scarpe malconce, tutte screpolate, le braccia distese. La pelle intorno agli occhi marroni, che sembra abbronzata, è rossa e gonfia, i lunghi capelli neri e grigiastri sparsi sul marciapiede.

«Signora» mi dice, o qualcosa di simile; è un mormorio, ma intanto mi ha fermata.

Mi volto per vedere se qualcun altro può intervenire, ma nessuno è disposto. Mi inginocchio e le chiedo: «Sta bene?». Che domanda stupida, è evidente che non sta bene. Tutt’intorno è pieno di vomito e di alcol. Immagino di portarla a bere un caffè; e poi? Non riuscirei a liberarmi di lei, mi seguirebbe nello studio, vomiterebbe nel bagno, si addormenterebbe sul futon. Riescono sempre ad accalappiarmi, sanno riconoscermi quando arrivo, mi scelgono in mezzo alla folla anche se aggrotto la fronte. Sono ballerini di rap da marciapiede, arancioni, giovanotti con la chitarra che mi chiedono qualcosa per la metropolitana. Nella morsa di chi è impotente, sono impotente anch’io.

«È soltanto ubriaca» dice un uomo che passa. Che cosa vuol dire ‘soltanto’? È già più che sufficiente.

«Su» le dico, «la aiuto ad alzarsi.» Stupida, mi dico. Ti chiederà dei soldi, tu glieli darai e lei li spenderà per comperarsi altro vino da quattro soldi. Intanto sono riuscita a sollevarla in piedi, e lei si affloscia contro di me. Se riesco a trascinarla verso il muro più vicino posso appoggiarla lì, spolverarla un po’, pensare a come squagliarmela.

«Ecco» le dico. Ma lei non si appoggia al muro, si appoggia a me. Ha un alito che puzza come un accidente. Sta piangendo, adesso, un pianto dirotto e spudorato da bambina. Le sue dita mi stringono la manica.

«Non mi lasci» mi prega. «Oh Dio, non mi lasci sola.» Ha gli occhi chiusi, la sua voce esprime soltanto bisogno, è un lamento puro. Colpisce la parte più debole e più dolente di me, ma io sono soltanto un surrogato per chissà quale perdita o mancanza. Non c’è niente che possa fare.

«Ecco» le dico. Frugo nella borsa, trovo una banconota da dieci dollari, gliel’accartoccio nella mano, la pago. Sono un’ingenua, un cuore tenero. Ho nel cuore una ferita dalla quale sanguinano soldi.

«Sia benedetta» mi dice. La testa le ciondola da una parte e dall’altra, poi indietro contro il muro. «Dio la benedica, signora, la nostra Signora la benedica.» È una benedizione farfugliata, ma chissà che non ne abbia bisogno? Dev’essere cattolica. Potrei cercare una chiesa, lasciarla dietro la porta come un pacco. Appartiene a loro, se la vedano loro con lei.

«Devo andare adesso» le dico. «Andrà tutto bene.» Sto mentendo senza pudore. Lei sgrana gli occhi, sforzandosi di mettermi a fuoco. La sua espressione si distende.

«Io so chi è lei» mi dice. «Lei è la nostra Signora, e non mi ama.»

Follia alcolica in piena regola, e con la persona assolutamente sbagliata. Ritraggo la mano dalla sua, come se fosse una tasca vivente. «No» le dico. Ha ragione, non la amo. I suoi occhi non sono castani, ma verdi. Come quelli di Cordelia.

Mi allontano da lei con un senso di colpa e mi assolvo: sono una brava persona, avrebbe potuto morire e nessun altro si è fermato.

Sono sciocca a confondere tutto ciò con la bontà. Io non sono buona.

Sono troppo esperta per essere buona. Mi conosco.

So che sono vendicativa, avida, subdola e astuta.