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La signorina Stuart ama l’arte. Ci ha fatto portare da casa vecchie camicie dei nostri genitori così possiamo pasticciare senza sporcarci i vestiti. Mentre sforbiciamo, dipingiamo e incolliamo, lei cammina tra i banchi con la sua mascherina da infermiera e guarda alle nostre spalle. Ma se qualcuno, uno dei ragazzi, fa apposta a disegnare qualcosa di stupido, lei mostra la pagina fingendosi scandalizzata. «Questo ragazzo qui pensa di essere furbo. Dovresti avere qualcosa di più tra le orecchie.» E con il pollice e il medio gli dà una strizzatina all’orecchio.

Facciamo per lei i soliti oggetti di carta, zucche e campanelle di Natale, ma ci fa comporre anche altre cose. Disegnamo complicati schemi floreali col compasso, incolliamo sul cartone cose disparate: piume, lustrini, spaghetti colorati con tinte sgargianti, cannucce di paglia per bere. Facciamo disegni di gruppo sulla lavagna o su grandi rotoli di carta da pacchi. Disegnamo immagini di paesi stranieri: il Messico con i cactus e uomini con cappelli enormi, la Cina con cappelli a cono e le case galleggianti, l’India con figure che dovrebbero rappresentare donne aggraziate, vestite di seta, con vasi di rame in equilibrio sulla testa e gioielli sulla fronte.

Mi piacciono questi disegni esotici perché posso crederci. Ho un disperato bisogno di credere che in qualche altro posto esistano queste persone diverse, straniere. Non importa che alla scuola domenicale mi abbiano detto che queste persone muoiono di fame, o che sono pagane, o ambedue le cose. Non importa che il mio obolo settimanale sia destinato a convertirle, a sfamarle, a istruirle. La signorina Lumley le considerava persone astute, dedite a mangiare cibi stravaganti o disgustosi e a compiere atti di tradimento contro gli inglesi, ma io preferisco la versione della signorina Stuart, secondo la quale il sole sopra alle loro teste è allegramente giallo, i palmizi sono di un vivido color verde, il loro abbigliamento è floreale, i loro canti popolari gioiosi. Le donne chiacchierano tra loro in un linguaggio rapido e incomprensibile e ridono mostrando denti perfetti, bianchissimi. Se queste persone esistono, un giorno potrò vederle. Non devo rimanere sempre qui.

 

Oggi, dice la signorina Stuart, disegneremo ciò che facciamo dopo la scuola.

Gli altri sono chini sui loro banchi. So già che cosa disegneranno: corde per saltare, pupazzi di neve, ascoltare la radio, giocare con un cane. Io guardo il mio foglio che rimane bianco. E infine disegno il mio letto e me sdraiata sopra. Il mio letto ha una testiera di legno scuro con arabeschi scolpiti. Disegno la finestra, la cassettiera. Coloro la notte. La mia mano che impugna la matita nera preme sempre più forte, finché il disegno diventa quasi interamente nero e rimane visibile soltanto la vaga ombra del letto e della mia testa sul cuscino.

Guardo questo disegno. Non è quello che intendevo disegnare, è diverso dai disegni di tutti gli altri, è sbagliato. La signorina Stuart sarà delusa da me, dirà che devo avere qualcosa di più tra le orecchie. Posso sentire la sua presenza alle mie spalle, mentre guarda dall’alto. Posso sentire l’odore della sua lozione per le mani e l’altro odore che non è quello del tè. Si sposta in modo che possa vederla, e i suoi vividi occhi azzurri e grinzosi mi guardano dall’alto della sua mascherina da infermiera.

Per un attimo non dice niente, poi con tono non aspro mi domanda: «Perché il tuo disegno è così scuro, cara?».

«Perché è notte» rispondo. È una risposta idiota, lo capisco non appena le parole mi escono di bocca. La mia voce è quasi impercettibile, anche per me.

«Capisco» mi dice. Non dice che ho fatto un disegno sbagliato, né che sicuramente farò pure qualcos’altro dopo la scuola, oltre ad andare a letto. Mi tocca sulla spalla, lievemente, prima di proseguire oltre fra i banchi. Il suo tocco manda un breve riverbero, come un fiammifero che si spegne

 

Sulle finestre dell’aula stanno fiorendo i cuori di carta. Confezioniamo un’enorme cassetta della posta per il giorno di san Valentino, con una scatola di cartone coperta con carta crespata rosa e cuoricini rossi con i bordi merlettati. Nella fessura in cima infiliamo i nostri auguri di san Valentino, ritagliati dagli album che si possono acquistare da Woolworth, e biglietti speciali, dedicati alle persone che ci sono particolarmente simpatiche.

Il giorno di san Valentino, tutto il pomeriggio è dedicato a una festa. La signorina Stuart ama le feste. Ha portato decine di biscotti di pasta frolla a forma di cuore che ha preparato lei stessa, con glassa rosa e palline d’argento, e minuscoli cuori di cannella e di pastella con messaggi scritti che provengono da qualche epoca precedente la nostra: ‘Hubba Hubba’ c’è scritto. ‘È lei la mia bimba’, ‘Ehi, ragazzino!’.

La signorina Stuart è seduta alla cattedra e controlla, mentre alcune ragazze aprono la scatola e consegnano i biglietti di san Valentino. Sul mio banco i biglietti si ammucchiano. Per la maggior parte arrivano da ragazzi, lo capisco per via della grafia trasandata e perché molti non sono firmati. Altri hanno soltanto le iniziali o la scritta ‘Indovina chi sono?’, oppure le lettere X e O. I biglietti delle ragazze sono tutti firmati chiaramente, con il nome per esteso, così che non possano esserci equivoci sulla loro provenienza.

Quando ritorniamo a casa Carol ridacchia e mostra i biglietti che ha ricevuto dai ragazzi. Io ne ho ricevuti più di Carol dai ragazzi, più di quanti ne hanno ricevuti Cordelia e Grace nella loro classe. Soltanto io lo so. Ho nascosto i biglietti nel mio banco, in modo che non li vedano sulla via di casa. Quando mi chiedono qualcosa, rispondo che non ne ho ricevuti molti. Mi tengo stretto il mio segreto; una novità, ma non mi sorprende: i ragazzi sono miei segreti alleati.

 

Carol ha soltanto dieci anni e tre quarti, ma le sta già crescendo il seno. Non è molto grande ma i capezzoli non sono più piatti, sono appuntiti, e dietro c’è un rigonfiamento. È facile vederlo perché Carol sporge in fuori il petto e indossa golfini che tira in giù, in modo che si vedano i seni. Di quando in quando si lamenta di questi seni, dice che le fanno male e che dovrà portare il reggipetto. Cordelia le dice: «Oh, smettila con queste stupide tettine». Lei è più grande, ma il seno non ce l’ha ancora.

Carol si pizzica le labbra e le guance per farle diventare rosse. Ha trovato un rossetto consumato di sua madre, nel cestino dei rifiuti, l’ha nascosto e se lo porta a scuola in tasca. Con la punta del mignolo se ne strofina un po’ sulle labbra dopo la scuola, poi se lo toglie con un fazzoletto di carta prima di entrare in casa ma non lo cancella abbastanza bene.

Giochiamo in camera sua al piano di sopra. Quando scendiamo per bere un bicchiere di latte, sua madre le dice: «Che cos’hai in faccia, signorina?». E lì davanti a noi strofina la faccia di Carol con l’asciugapiatti sporco. «Non farti pescare un’altra volta con quella robaccia! Alla tua età, pensa un po’!» Carol si dimena, piange e strilla, perde il controllo. Noi guardiamo, sgomente ed emozionate. «Aspetta che torni a casa tuo padre» le dice sua madre con voce gelidamente furiosa. «Dai proprio un bello spettacolo», come se fosse un male il solo fatto di essere guardata. Poi si ricorda che noi siamo ancora lì. «E voi andatevene!»

Due giorni dopo Carol dice che suo padre gliele ha suonate con la cintura, dalla parte della fibbia, proprio sul sedere nudo. Dice che non riesce quasi a sedersi. Sembra esserne orgogliosa. Dopo la scuola, in camera sua, ci fa vedere: solleva la gonna, cala le mutandine e allora si vedono i segni; quasi simili a graffi, non molto rossi, ma ci sono.

È difficile conciliare questa dimostrazione col padre di Carol, il gentile signor Campbell, che ha un bel paio di baffi e chiama Grace ‘begli occhi castani’ e Cordelia ‘signorina Lobelia’. È strano immaginarlo mentre picchia qualcuno con la cintura. Ma i padri e i loro comportamenti sono misteriosi. Per esempio io so, anche se non mi è stato detto, che il signor Smeath vive una sua vita segreta di treni e fughe della mente. Il padre di Cordelia è simpatico con noi, nelle rare occasioni in cui si fa vedere; le sue battute sono divertenti e ha un sorriso come quelli dei cartelloni pubblicitari, ma perché Cordelia ha paura di lui? Ne ha davvero paura. Tutti i padri, tranne il mio, sono invisibili durante il giorno; il giorno è dominato dalle madri. I padri, invece, appaiono di notte. Il buio porta a casa i padri, col loro reale e indicibile potere. In loro c’è qualcosa di più di ciò che vedono gli occhi. E così crediamo alla storia della cintura.

 

Carol dice di aver visto una macchia bagnata sul lenzuolo del letto di sua madre, il mattino, prima che fosse rifatto il letto. Entriamo in punta di piedi nella camera da letto dei suoi genitori. Il letto, con la sopracoperta di ciniglia infiocchettata, è così ben fatto che abbiamo paura di alzare le coperte per guardare. Carol apre il cassetto del comodino di sua madre e guardiamo dentro. C’è una cosa di gomma che sembra la cima di un fungo e un tubetto di dentifricio che non è dentifricio. Carol dice che queste cose servono per non avere bambini. Nessuna di noi ridacchia o fa battute: leggiamo invece l’etichetta. In qualche modo, i segni rossi sul sedere di Carol le hanno dato una credibilità che non aveva prima.

Carol si distende sul suo letto, che ha una sopracoperta bianca increspata intonata alle tendine. Finge di essere malata, di una malattia non meglio specificata. Abbiamo inumidito un asciugamano e gliel’abbiamo posato sulla fronte, le abbiamo portato un bicchiere d’acqua. La malattia è diventata un gioco adesso.

«Oh, come sto male, come sto male» geme Carol, contorcendosi sul letto. «Infermiera, faccia qualcosa!»

«Dobbiamo auscultarle il cuore» dice Cordelia. Le solleva il golfino, poi la maglia. Siamo state tutte dal medico, e conosciamo i loro modi bruschi e umilianti. «Questo non fa male.» I seni hanno un aspetto gonfio, con i capezzoli bluastri, simili a vene sulla fronte. «Sentile il cuore» mi dice Cordelia.

Non voglio farlo, non voglio toccare quella carne gonfia, innaturale. «Su, dài» insiste Cordelia. «Fai quello che ti è stato detto.»

«È disobbediente» commenta Grace.

Tendo una mano, la poso sul seno sinistro. Sembra un pallone quasi pieno d’acqua, o un porridge d’avena tiepido. Carol ridacchia. «Oh, hai la mano fredda!» Mi prende un senso di nausea.

«Ho detto il cuore, stupida» dice Cordelia, «non la tettina. Non capisci la differenza?»

 

Arriva un’ambulanza e porta via mia madre in barella. Io non l’ho vista, me l’ha detto Stephen. È successo nel cuore della notte, mentre io dormivo, ma Stephen ha preso l’abitudine di alzarsi di nascosto per guardare le stelle dalla finestra della sua camera da letto. Dice che le stelle si vedono molto meglio quando sono spente quasi tutte le luci della città. Dice che per svegliarsi di notte senza usare la sveglia bisogna bere due bicchieri d’acqua prima di andare a letto, e poi concentrarsi sull’ora in cui ci si vuole svegliare. È così che facevano gli indiani.

Perciò era sveglio e ha sentito, è andato di nascosto dall’altra parte della casa e ha guardato giù dalla finestra, dove poteva vedere ciò che succedeva in strada. Dice che c’erano luci lampeggianti ma la sirena era spenta, dunque non è strano che io non abbia sentito niente.

Quando mi alzo il mattino, mio padre è in cucina e sta friggendo la pancetta. La sa fare bene, ma in città non ci si mette mai; lo fa soltanto all’aperto, sul falò. Nella camera da letto dei miei genitori c’è un mucchio di lenzuola stropicciate sul pavimento e le coperte sono piegate su una sedia; sul materasso si vede una grande chiazza ovale di sangue. Ma quando ritorno a casa da scuola le lenzuola sono scomparse e il letto è rifatto, e non c’è più niente da vedere.

Mio padre dice che è stato un incidente, ma come si può avere un incidente quando si è a letto addormentati? Stephen dice che è stato un bambino, un bambino che è uscito troppo presto. Non gli credo: le donne che devono avere un bambino hanno un pancione rotondo, e mia madre non ce l’aveva.

Quando ritorna dall’ospedale, la mamma è indebolita. Deve riposare, ma nessuno di noi ci è abituato, e nemmeno lei. Resiste e si alza come il solito, appoggiandosi con una mano alla parete o ai mobili per camminare, china sul lavandino della cucina, con un cardigan sulle spalle. Sta facendo qualcosa, ed ecco che deve andare a distendersi. Ha una pelle pallida e secca. Sembra che sia lì ad ascoltare qualche rumore, forse all’esterno, ma non si sente nessun rumore. A volte devo ripeterle le cose due volte, prima che mi senta. È come se fosse andata in qualche altro posto, lasciandomi sola o dimenticandosi che sono qui.

Tutto ciò fa ancora più paura della macchia di sangue. Nostro padre dice che dobbiamo aiutarla, il che significa che ha paura anche lui.

 

Quando mia madre sta meglio, nel suo cestino del cucito trovo un piccolo calzino fatto a maglia, color verde pastello. Mi domando perché abbia cucito soltanto un calzino. Non le piace lavorare a maglia, e può darsi che ne abbia fatto uno e poi si sia stancata.

 

Sogno che la signora Finestein, la vicina, e il signor Banerji, sono i miei veri genitori.

Sogno che mia madre ha avuto un bambino, uno di due gemelli. Il bambino è grigio. Non so dove sia l’altro gemello.

Sogno che la nostra casa è bruciata. Non ne rimane niente, solo qualche tizzone annerito, qua e là, sul posto in cui c’era la casa, come se ci fosse stato un incendio nella foresta. Lì accanto si alza un’enorme montagna di fango.

I miei genitori sono morti, ma sono anche vivi. Sono distesi fianco a fianco, nei loro abiti estivi, e stanno sprofondando giù nella terra, che è dura ma trasparente come il ghiaccio. Mi guardano con occhi tristi mentre scompaiono.