È sabato pomeriggio e andiamo all’istituto, in qualche posto chiamato ‘conferenza’. Non so che cos’è una conferenza ma mi piace andare all’istituto, dove ci sono topolini, serpenti, esperimenti e niente ragazze. Mio padre mi ha chiesto se volevo portare un’amica e ho risposto di no. Mio fratello si è portato Danny, che cola sempre dal naso, indossa panciotti di maglia con disegni a forma di diamante e ha una collezione di francobolli. Sono seduti sul sedile posteriore, perché mio fratello non soffre più di mal d’auto, e parlano in un latino che si sono inventati loro.
«Tibi-stabi-colandusbi-nasusbi.»
«Et-nunque?-Volique-mangiarque-pocumque?»
«Yumque-Yumque.»
Capisco che questa conversazione, almeno da parte di Danny, è rivolta anche a me. Mi ha confuso con altre ragazze, quelle che si dimenano e fanno gridolini. Una volta gli avrei risposto con qualcosa di altrettanto disgustoso, ma ora ho perso interesse per queste cose.. come mangiare il moccio del naso. Guardo fuori dal finestrino, fingendo di non udire.
La conferenza si rivela una specie di museo. Il dipartimento di Zoologia è stato aperto al pubblico, per offrire alla gente l’occasione di sbirciare la scienza e di elevare la mente. È questo che ha detto mio padre, sorridendo come quando dice qualcosa anche per scherzo. Ha detto anche che la mente della gente potrebbe aver bisogno di un po’ di elevazione. Mia madre ha detto che la sua mente non sarebbe capace di ulteriore elevazione, e perciò è andata a far compere.
La conferenza è molto affollata. Non è che ci siano molti divertimenti a Toronto, il fine settimana. L’istituto ha un’aria di festa: i suoi soliti odori di detersivo e di lucido per mobili, di escrementi di topi e di serpenti si mescolano ad altri odori: quelli degli indumenti invernali, del fumo delle sigarette, dei profumi femminili. Strisce di carta colorata sono incollate alle pareti, insieme con frecce di carta che indicano il percorso, qua e là nei corridoi, su e giù per le scale, nelle diverse sale. Ogni sala ha le sue cose in mostra, raggruppate secondo ciò che si dovrebbe imparare.
Nella prima sala si trovano embrioni di polli in varie fasi di sviluppo, da un puntino rosso fino a un pollo con una grossa testa, gli occhi protuberanti, le piume corte, che non sembra il pulcino vaporoso e grazioso delle cartoline di Pasqua ma qualcosa di viscido, con le zampe rattrappite e le palpebre come una fessura che mostrano una mezzaluna color agata. Gli embrioni sono conservati nell’alcol, e l’odore della formaldeide è molto forte. In un’altra vetrina c’è un vaso che contiene due gemelli, veri gemelli umani, morti e identici, con la placenta ancora attaccata e la pelle grigia, che galleggiano in qualcosa che sembra sciacquatura di piatti. Nelle loro vene è stata iniettata una sostanza colorata, azzurra nelle vene, rossa nelle arterie, così che si possono vedere i collegamenti del loro sistema sanguigno. Una bottiglia contiene un cervello umano, simile a una grande noce grigia e flaccida. Mi rifiuto di credere che nella mia testa ci sia una cosa simile.
In un’altra sala c’è un tavolo dove possiamo farci prendere le impronte digitali e vedere che non sono uguali a quelle di nessun altro. Su un grande foglio di carta bristol sono stati appiccicati gli ingrandimenti fotografici delle impronte digitali di altre persone. Mio fratello, Danny e io ci facciamo prendere le impronte digitali. Danny e mio fratello fanno finta di scherzare sui polli e sui gemelli: «Mangererum-pollorum-arrostorum?», «Preferibus-gemellibus-stufatibus» però con una certa fretta di uscire da quella sala. Le impronte digitali suscitano in loro un chiassoso entusiasmo; si imprimono l’un l’altro sulla fronte le dita sporche d’inchiostro, dicendo: «Ecco il segno della Mano Nera!» con voci alte e minacciose, finché mio padre passa lì vicino e dice loro di abbassare la voce. È con lui l’affascinante signor Banerji dall’India, che mi sorride nervosamente e mi chiede: «Come sta, signorina?». Mi chiama sempre ‘signorina’. Tra tutte queste pallide facce invernali sembra ancora più scuro, e i suoi denti scintillano più del solito.
Nella stessa sala delle impronte digitali ci vengono consegnati alcuni fogli di carta che dovremmo assaggiare per dire se hanno un sapore amaro, come quello dei noccioli di pesca, oppure aspro, come quello dei limoni, il che dimostra che alcune cose sono ereditarie. C’è anche uno specchio, col quale si possono fare esercizi con la lingua, per vedere se si riesce ad arrotolarla in su a forma di trifoglio chiuso. Alcune persone non ci riescono. Danny e mio fratello si impossessano dello specchio e fanno brutte facce infilandosi i pollici agli angoli della bocca e abbassando le palpebre inferiori fino a scoprire il rosso degli occhi.
Altre parti della conferenza sono meno interessanti: hanno troppe scritte, in parte soltanto cartine appese alle pareti o microscopi in cui guardare; cose che possiamo fare quando vogliamo.
Sono sempre affollati i corridoi che attraversiamo, seguendo le frecce di carta azzurrina e gialla con le nostre soprascarpe invernali. Non ci siamo tolti i cappotti e fa molto caldo. I rumorosi termosifoni stanno funzionando a pieno ritmo, l’aria è impregnata dall’alito di tutte queste persone.
Arriviamo in una sala dove è esposta una tartaruga sezionata. È posta su un vassoio di smalto bianco, come quelli delle macellerie. La tartaruga forse è viva, oppure è morta, ma il suo cuore è vivo. È un esperimento per dimostrare che il cuore dei rettili può pulsare anche quando il resto del corpo è morto.
Sullo scudo inferiore della tartaruga, che giace rovesciata, è stato praticato un foro attraverso il quale si può vedere il suo cuore che sta pulsando lentamente, rosso cupo e scintillante dentro la sua cavità. Si rattrappisce come l’estremità di un verme tagliato, si dilata e si rattrappisce di nuovo come una mano che si stringe e si distende. Come un occhio.
Al cuore è stato collegato un filo che arriva fino a un altoparlante, così che in tutta la sala si può udirne il battito tormentosamente lento, come il passo di un vecchio che sale le scale. Non so mai se il cuore riuscirà a battere ancora una volta. Si ode un passo, un silenzio, poi un fruscio come quelli delle scariche della radio che secondo mio fratello provengono dallo spazio, poi un’altra pulsazione, un ansito di aria aspirata. La vita sta scorrendo fuori dalla tartaruga, posso udirla dall’altoparlante. Tra poco la tartaruga sarà svuotata della vita.
Non voglio rimanere in questa sala, ma c’è una fila di persone davanti e dietro a me, tutte persone più alte, così perdo di vista Danny e mio fratello. Sono attorniata da cappotti di tweed, e i miei occhi arrivano all’altezza del secondo bottone. Sento un altro rumore, sopra quello del cuore, simile a una folata di vento che s’avvicina, come il fruscio delle foglie dei pioppi ma più breve, più secco. Tutt’intorno ai miei occhi c’è un bordo nero che si dilata. Ciò che vedo è come l’ingresso di una galleria che sta allontanandosi velocemente da me; o forse sono io che corro via, lontano da quella macchia di luce. Poi vedo una gran quantità di soprascarpe e le assi del pavimento che si allungano in lontananza all’altezza degli occhi. Mi fa male la testa.
«È svenuta» dice qualcuno, e allora capisco cosa è successo.
«Dev’essere stato il caldo.»
Vengo portata fuori, nella fredda aria grigia. È il signor Banerji che mi porta, ansimante per lo sforzo. Arriva di corsa mio padre e mi dice di stare seduta con la testa tra le ginocchia; così faccio, guardando la punta delle soprascarpe. Mi chiede se mi viene voglia di vomitare e rispondo di no. Escono anche Danny e mio fratello, mi guardano senza parlare. Poi mio fratello dice: «Svenuta-est», e ritornano dentro.
Rimango lì fuori finché mio padre arriva con l’auto, poi ritorniamo a casa. Ho la sensazione di aver scoperto qualcosa che vale la pena di sapere. C’è un modo per uscire da dove non si può uscire. Lo svenimento è come un’uscita laterale dal proprio corpo, fuori dal tempo o in un altro tempo. Quando ci si risveglia è più tardi. Il tempo è trascorso senza di noi.
Cordelia dice: «Pensa a dieci pile di piatti. Quelle sono le tue dieci possibilità». Ogni volta che faccio qualcosa di sbagliato una pila di piatti si schianta per terra. Posso vedere questi piatti, e li vede anche Cordelia perché è lei che dice: «Crash!». Grace può vederli un po’, ma i suoi ‘crash’ sono titubanti, e guarda Cordelia per avere conferma. Carol tenta un ‘crash’ una volta o due, ma viene subito presa in giro: «Questo non era un crash!».
«Ne rimangono soltanto quattro» dice Cordelia. «È meglio che stai attenta, capito?»
Non dico niente.
«Pulisciti il moccio sulla faccia» dice Cordelia.
Non dico niente.
«Crash!» esclama Cordelia. «Ne rimangono soltanto tre.»
Nessuno dice che cosa succederà se cadono tutte le pile di piatti.
Sono appoggiata al muro, accanto all’ingresso delle femmine, e il freddo mi scivola su per le gambe e dentro le maniche. Non devo muovermi, e ho già dimenticato perché. Ho scoperto che posso riempirmi la testa di musica – Con un’ala sola e una preghiera, State allegri con l’Allegra Banda! – e dimenticare quasi tutto il resto.
È l’ora di ricreazione. La signorina Lumley sorveglia il campo giochi con la sua campanella d’ottone, il volto chiuso contro il freddo, e pensa agli affari suoi. Ho ancora paura di lei, anche se non è più la mia insegnante. Gruppi di ragazze marciano disordinatamente davanti a me, cantando ‘Noi non ci fermiamo davanti a nessuno’. Altre ragazze passeggiano più compostamente, sottobraccio a due a due. Mi guardano incuriosite, poi si allontanano. Sono come gli automobilisti in autostrada, che rallentano e guardano fuori dal finestrino quando c’è un incidente. Rallentano, ma non si fermano. Capiscono quando è successo qualcosa, e sanno quando è il momento di tenersi alla larga.
Sono un po’ discosta dal muro. Rovescio indietro la testa e fisso lo sguardo nel cielo grigio, trattenendo il fiato. Sto facendomi venire le vertigini. Vedo una pila di piatti che oscilla, e comincia a precipitare in una silenziosa esplosione di cocci di porcellana. Il cielo si restringe in un puntino e una folata di foglie secche passa sopra alla mia testa. Poi posso vedere il mio corpo disteso per terra, semplicemente disteso. Posso vedere le ragazze che indicano e si radunano, e la signorina Lumley che avanza a grandi passi, chinandosi faticosamente per guardarmi. Ma vedo tutto questo dall’alto, come se fossi in aria, sospesa accanto alla scritta FEMMINE sopra alla porta, guardando giù come un uccello.
Mi trovo davanti la faccia della signorina Lumley che incombe a poche dita dalla mia, più che mai aggrottata, come se avessi combinato qualche guaio, con una cerchia di ragazze intorno a far ressa per vedere meglio.
C’è sangue, mi sono tagliata la fronte. Mi portano in infermeria. L’infermiera pulisce il sangue e mi applica un tampone di garza sulla fronte con un cerotto. La vista del mio sangue sulla pezzuola bianca inumidita mi riempie di soddisfazione.
Cordelia è impaurita, adesso: il sangue fa ancora più impressione del vomito. Lei e Grace sono piene di premure. Mentre ritorniamo a casa mi tengono sotto braccio, mi chiedono come mi sento. Queste loro attenzioni mi danno un tremito. Ho paura di scoppiare a piangere, grosse lacrime intrise di riconciliazione. Ma ora sono divenuta troppo prudente per fare una cosa simile.
La prossima volta che Cordelia mi dirà di stare contro il muro sverrò di nuovo. Ora ci riesco quasi tutte le volte che voglio. Trattengo il fiato, ascolto il fruscio delle foglie, vedo il nero e poi scivolo da parte, fuori dal mio corpo, ed eccomi altrove. Ma non riesco sempre a guardare dall’alto come la prima volta. A volte c’è soltanto il nero.
Comincio a essere conosciuta come la ragazza che sviene.
«Lo sta facendo di proposito» dice Cordelia. «Avanti, facci vedere che svieni. Dài, svieni.» Ma ora che me lo dice, non ci riesco.
Comincio a trascorrere il tempo fuori dal corpo, senza cadere a terra. In questi momenti mi sento offuscata, come se esistessero due me stesse, sovrapposte l’una all’altra in modo imperfetto. C’è un margine di trasparenza, e accanto a questo un bordo di solida carne che è priva di sensibilità, come una cicatrice. Posso vedere ciò che accade, posso udire ciò che mi viene detto, ma non devo prestare alcuna attenzione. I miei occhi sono aperti, ma io non ci sono. Sono a lato.