Uscita da Simpsons mi dirigo verso ovest, sempre alla ricerca di qualcosa da mangiare. Alla fine compero una fetta di pizza da asportare e la divoro per strada, tenendola piegata in due tra le dita e addentandola. Quando sono con Ben mangio a orari regolari come fa lui, e mangio cose regolari, ma quando sono sola mangio come mi capita, quello che trovo, ritorno alle mie abitudini individuali di un tempo. Mi fa male, ma ho bisogno di ricordare quello che mi fa male. Potrei cominciare ad assuefarmi a Ben, con le sue cravatte, il suo taglio di capelli, il suo pompelmo a colazione. Mi serve per apprezzarlo di più.
Ritornata nello studio gli telefono, calcolando le ore di differenza rispetto alla costa. Ma alla segreteria telefonica sento soltanto la mia voce, seguita dal segnale acustico dell’orario ufficiale dell’Osservatorio del Dominion, che introduce al futuro. «Ti amo» gli dico, così che possa udirmi più tardi. Poi ricordo: in questo momento è in Messico e non sarà di ritorno prima di me.
Fuori è ormai scuro. Potrei andare a cercare qualcosa di più simile a una cena, oppure tentare un film. Invece mi trascino sul futon, sotto il piumino, con una tazza di caffè e l’elenco telefonico di Toronto, e inizio a scorrere i nomi. Non esistono più Smeath: devono essersi trasferiti o estinti, oppure si sono sposati. Esistono più Campbell di quanti si possa provare a chiamare. Cerco Jon, che un tempo aveva il mio stesso cognome. Non esiste Josef Hrbik, ma si trovano Hrbek, Hren, Hrastnik, Hriczu.
Non esistono più Risley.
Non c’è più Cordelia
È strano ritrovarsi nel letto di Jon. Non lo consideravo il letto di Jon, questo, perché qui non l’ho mai visto ma naturalmente è proprio lui. È molto più ordinato di quanto fossero i suoi letti una volta, e anche molto più pulito. Il suo primo letto era un materasso sul pavimento, coperto da un vecchio sacco a pelo. Non mi dava fastidio questo fatto, anzi, mi piaceva: era come campeggiare all’aperto. Di solito c’era anche una marea di tazzine, piatti e bicchieri sporchi con avanzi di cibo sparsi tutt’intorno, il che, invece, non mi piaceva. A quei tempi esisteva una certa norma di comportamento davanti a questa baraonda, e una linea divisoria si poneva tra l’ignorarla e il mettere ordine, perché l’uomo poteva pensare che fosse un tentativo di avvicinarlo, di conquistarlo.
Eravamo distesi su quel letto un giorno, proprio all’inizio, prima che cominciassi a lanciare piatti, quando la porta della camera da letto si aprì e comparve sulla soglia una donna che non avevo mai visto prima. Aveva indosso un paio di jeans sporchi e una sbiadita maglietta rosa, la faccia affilata e slavata, con enormi pupille. Sembrava in preda a qualche droga, il che, a quei tempi, cominciava a essere una possibilità. Rimase lì senza dire niente, una mano dietro la schiena, il volto teso e impenetrabile, mentre io mi coprivo col sacco a pelo.
«Salve» ha detto Jon.
Lei allora tese la mano che aveva dietro la schiena e ci lanciò qualcosa. Era un sacchetto di carta pieno di spaghetti ancora caldi, sugo compreso. Il sacchetto esplose colpendoci, ricoprendoci di festoni. Poi la donna uscì, sempre senza parlare, e sbattendo la porta.
Ero spaventata, ma Jon scoppiò a ridere. «Che cos’è stato?» chiesi. «Come ha fatto a entrare?»
«Dalla porta» rispose Jon, continuando a ridere. Poi districò uno spaghetto tra i miei capelli e si chinò a baciarmi. Capii che quella ragazza doveva essere una sua amichetta, o una ex amichetta, e mi sentii furibonda con lei. Non pensai nemmeno, in quel momento, che potesse avere ragione. Non mi ero ancora imbattuta, fino ad allora, in forcine per capelli sconosciute lasciate in bagno come il piscio territoriale dei cani sugli idranti, né in segni di rossetto impressi strategicamente sui cuscini. Jon sapeva come nascondere le tracce, e quando non le nascondeva c’era un motivo. E non mi era nemmeno venuto in mente che la ragazza doveva avere una chiave.
«È pazza» gli dissi allora. «Dovrebbe essere rinchiusa.»
Non provavo nessuna compassione per lei. In un certo senso l’ammiravo. Ammiravo la sua mancanza di educazione, il coraggio delle sue cattive maniere, la vitalità della sua rabbia. Quel gesto, scagliare un sacchetto di spaghetti, aveva una sua semplicità, un’istintività, una sua sfrontata grandezza. La faceva finita. Ero ben lontana, allora, dal poter fare qualcosa di simile.