Grace dice: «Grazie». Il signor Smeath dice: «Lodate il Signore e passate le munizioni» allungando la mano verso i fagioli. La signora Smeath dice: «Lloyd». Il signor Smeath dice: «Non c’è niente di male» e mi lancia un sorrisetto di traverso. Zia Mildred torce la bocca baffuta. Mastico controvoglia il cibo degli Smeath che ha sapore di ficus. Sotto alla tovaglia, mi strappo le pellicine delle dita. La domenica continua.
Dopo l’ananas al forno, Grace vuole che scenda con lei in cantina per giocare alla scuola. Ci vado, ma poi devo risalire le scale per andare in bagno. Grace mi ha dato il permesso, come fanno le maestre di scuola. Salendo le scale, sento zia Mildred e la signora Smeath che parlano mentre lavano i piatti in cucina.
«È una vera e propria pagana» dice zia Mildred, che essendo stata missionaria in Cina è un’autorità in materia. «Tutto quello che hai fatto non è servito assolutamente a niente.»
«Sta imparando la Bibbia, mi ha detto Grace» replica la signora Smeath, e allora capisco che stanno parlando di me. Mi fermo sull’ultimo gradino, da dove posso vedere la cucina, il tavolo dove sono ammucchiati i piatti da lavare, la schiena della signora Smeath e di zia Mildred.
«Sì, la imparano» dice zia Mildred, «fino a farci sgolare. Ma tutto a memoria, dentro non entra. Non appena ti giri, ritornano com’erano.»
L’ingiustizia di queste parole mi colpisce come uno schiaffo. Come possono dire una cosa simile, quando ho meritato una menzione speciale per il mio tema sulla temperanza, sugli ubriachi che hanno incidenti d’auto e muoiono assiderati sotto la neve perché l’alcol dilata i loro capillari? Sapevo perfino cosa sono i capillari, e ho anche scritto la parola nel modo giusto. Sono capace di recitare interi salmi, interi capitoli, so cantare tutte le canzoni delle diapositive a colori del cavaliere bianco, alla scuola domenicale, senza nemmeno guardare.
«Ma cosa ti aspetti, con una famiglia simile?» dice la signora Smeath. Non spiega cosa ci sia di sbagliato nella mia famiglia. «Le altre bambine se ne accorgono. Lo capiscono.»
«Non pensi che siano troppo severe con lei?» domanda zia Mildred. Il suo tono è compiaciuto, vuole sapere fino a che punto sono severe.
«È la punizione di Dio» dice la signora Smeath. «Se la merita.»
Mi sale una vampata di caldo. È una vampata di vergogna che ho sentito altre volte, ma anche di odio, e questo non l’ho mai provato, mai in modo così puro. È un odio che ha una forma particolare, la forma dell’unico seno della signora Smeath, senza la cintola. È come uno sterpo carnoso nel mio petto, col gambo bianco e grasso come lo stelo della bardana, con le sue foglie rigogliose e i capolini verdi, che cresce nella terra bagnata dal piscio dei gatti sul sentiero che scende al ponte. Un odio pesante, denso.
Mi fermo sull’ultimo gradino, raggelata dall’odio. Non odio Grace e nemmeno Cordelia: non potrei arrivare a tanto. Odio la signora Smeath, perché quello che io consideravo un segreto, qualcosa che succedeva tra noi ragazze, tra bambini, non lo è più. Se n’è parlato ed è stato tollerato. La signora Smeath sapeva e approvava. Non ha fatto niente per impedirlo. E pensa che me lo meriti.
Si allontana dal lavandino e si dirige verso il tavolo, nel mio campo visivo, per prendere un’altra pila di piatti sporchi. Ho una breve, intensa immagine della signora Smeath che passa attraverso il torchio color carne della lavatrice di mia madre, le gambe per prime; le ossa che scricchiolano e s’appiattiscono, la pelle e la carne che si comprimono su verso la testa, che scoppierà tra un attimo come un enorme pallone di sangue. Se i miei occhi potessero scagliare raggi letali, come si vede nei fumetti, la ridurrei in cenere sul posto. Ha ragione, sono una pagana. Non posso perdonare.
Come se avesse percepito il mio sguardo, si volta e mi vede. I nostri occhi s’incontrano. Capisce che l’ho sentita ma non batte ciglio, non è imbarazzata né mortificata. Mi rivolge quel suo sorriso soddisfatto, con le labbra chiuse suadenti. Quello che dice non è rivolto a me, ma a zia Mildred. «I bambini hanno le orecchie lunghe.»
Il suo cuore malato le galleggia nel corpo come un occhio, un occhio maligno, e mi guarda.
Siamo sedute sulla panca di legno nello scantinato della chiesa, al buio, e guardiamo la parete. La luce si riflette dagli occhi di vetro di Grace, che mi lancia un’occhiata di sbieco.
Dio vede cadere il passerotto,
che incontra il Suo tenero sguardo.
Se Dio ama così l’uccellino,
so che ama anche me.
L’immagine è quella di un uccellino morto in una mano enorme, con un fascio di luce che ci cade sopra.
Sto muovendo le labbra ma non canto. Sto perdendo fiducia in Dio. La signora Smeath ha Dio tutto per sé, e sa quali sono le sue punizioni. E lui è dalla sua parte, mentre io sono esclusa.
Penso a Gesù, che dovrebbe amarmi. Ma lui non me ne dà alcun segno, e non credo che possa essermi molto d’aiuto. Non può nulla contro la signora Smeath e contro Dio, perché Dio è più grande. Dio non è il Padre Nostro. L’immagine che ne ho ora è di qualcosa d’enorme, di duro, di inesorabile, che si muove come sui binari. Dio è una specie di macchina.
Decido di non pregare più Dio. Quando è il momento del Padre Nostro rimango in silenzio, muovo soltanto le labbra.
«Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori.»
Questo mi rifiuto di dirlo. Se ciò significa che devo perdonare la signora Smeath altrimenti andrò all’inferno quando muoio, sono pronta ad andarci. Gesù doveva sapere com’è difficile perdonare, ed è per questo che ha detto queste parole. Lui diceva sempre cose che nella realtà era impossibile fare, come dare via tutto il proprio denaro.
«Non stavi pregando» mi dice Grace in un sussurro.
Sento freddo allo stomaco. Ciò che è peggio, non so se negarlo o se ammetterlo. In tutti e due i casi, ci sarà una punizione.
«Sì, pregavo» le dico.
«Non pregavi, ho sentito.»
Non dico niente.
«Hai mentito» conclude Grace soddisfatta, dimenticandosi di sussurrare.
Non dico ancora niente.
«Dovresti chiedere perdono a Dio» dice Grace. «È questo che faccio io, tutte le sere.»
Sono seduta al buio e mi scarnifico le dita. Penso a Grace che chiede perdono a Dio. Ma di che cosa? Dio perdona soltanto chi è dispiaciuto, e lei non mostra mai di essere dispiaciuta. Non pensa mai di aver fatto qualcosa di male.
Grace, Cordelia e Carol sono più avanti, io dietro di un isolato. Oggi non mi lasciano camminare con loro perché sono stata insolente, ma non vogliono nemmeno che stia troppo indietro. Sto camminando al passo con la musica di State allegri con l’Allegra Banda, e ho soltanto queste parole nella mente. Mi muovo a testa bassa, scrutando sui marciapiedi e sotto, in cerca di carta d’argento da sigarette, anche se non ne colleziono più. So che con loro non potrei farne niente di apprezzabile.
Vedo un pezzo di carta con un’immagine a colori e lo raccolgo. So chi rappresenta quell’immagine: è la Vergine Maria, e la carta è quella della Nostra Signora del Perpetuo Soccorso, la Nostra Signora della Perpetua Disgrazia. La Vergine Maria ha indosso una lunga tunica azzurra che le copre i piedi e un velo bianco sulla testa, sormontato da una corona e da un’aureola gialla con raggi di luce che escono come chiodi. Sorride triste, con aria delusa, le braccia tese come in un gesto di benvenuto e il cuore fuori dal petto, con sette spade conficcate dentro. O perlomeno sembrano spade. Ha un cuore grande, rosso e nitido, come un cuscinetto di seta a forma di cuore o come una valentina. Sotto l’immagine si legge la scritta: ‘I sette dolori’.
La Vergine Maria appare in alcune immagini nella nostra scuola domenicale, ma mai con la corona, mai con un cuorecuscinetto, mai da sola. È sempre più o meno sullo sfondo. Di lei non si parla mai più di tanto, se non a Natale, e anche allora il Bambin Gesù è molto più importante. Quando la signora Smeath e zia Mildred parlano dei cattolici, come fanno solitamente al tavolo da pranzo, la domenica, ne parlano sempre con disprezzo. I cattolici pregano le statue e durante la Comunione, invece di succo d’uva bevono vino vero. «Venerano il papa» così dicono gli Smeath, oppure: «Venerano la Vergine Maria», come se fosse una cosa scandalosa.
Guardo da vicino l’immagine, ma so che sarebbe pericoloso tenerla, e allora la butto via. Questa volta ha fatto bene, perché tutte e tre si sono fermate, stanno aspettando che le raggiunga. Qualsiasi cosa faccia, oltre che stare in piedi o camminare, richiama la loro attenzione.
«Che cos’era quella cosa che ti abbiamo visto raccogliere?» domanda Cordelia.
«Un pezzo di carta.»
«Che pezzo di carta?»
«Solo un pezzo di carta. Una carta della scuola domenicale.»
«Perché l’hai raccolta?»
Una volta avrei riflettuto su questa domanda, avrei tentato di rispondere sinceramente. Ora rispondo: «Non lo so». Questa è l’unica risposta che posso dare, indipendentemente dalla domanda, per non essere derisa o messa in discussione.
«Che cosa ne hai fatto?»
«L’ho buttata via.»
«Non raccogliere cose per strada» dice Cordelia. «Portano i microbi.» E la cosa finisce lì.
Decido di fare qualcosa di pericoloso, forse perfino di blasfemo. Se non posso più pregare Dio, pregherò la Vergine Maria. Questo mi rende nervosa, quasi fossi una ladra. Il cuore mi batte più forte, ho le mani fredde. Mi sento come se stessi per essere scoperta.
Sembra che sia necessario inginocchiarsi. Nella chiesa con la cipolla non ci inginocchiamo, ma si sa che i cattolici lo fanno. M’inginocchio accanto al mio letto e congiungo le mani, come i bambini che si vedono nelle cartoline di Natale, solo che io ho addosso il mio pigiama di flanella a righe azzurre, mentre loro hanno sempre lunghe camicie da notte bianche. Chiudo gli occhi e mi sforzo di pensare alla Vergine Maria. Voglio che mi aiuti, o almeno che mostri di potermi sentire, ma non so cosa dire. Non ho imparato le parole con cui ci si rivolge a lei.
Mi sforzo di immaginare come potrebbe sembrare se la incontrassi per strada, ad esempio: indosserebbe abiti come quelli di mia madre oppure la tunica azzurra e la corona, e in quest’ultimo caso raccoglierebbe una folla? Forse la gente penserebbe che sta partecipando a una recita natalizia, ma non se avesse il cuore esposto in quel modo, tutto infilzato di spade. Provo a pensare cosa le direi. Ma lei lo sa già, lo sa quanto sono infelice.
Prego sempre più intensamente. Le mie preghiere sono senza parole, sono sfide a occhi asciutti, disperate, senza illusioni. Non succede niente. Premo i pugni sugli occhi fino a farli dolere. Per un attimo mi sembra di vedere un volto e una chiazza azzurra, ma poi tutto ciò che riesco a vedere è il cuore. È rosso acceso, arrotondato, ha una luce cupa tutt’intorno, qualcosa di nero come il velluto, ma luminoso. Un barlume dorato esce dal centro, poi sbiadisce. È proprio il suo cuore. Assomiglia alla mia borsetta rossa di plastica.