35

 

Siamo a metà di marzo. Sulle finestre dell’aula stanno fiorendo i tulipani di Pasqua. La terra è ancora coperta di neve, una filigrana sporca, anche se l’inverno sta perdendo il suo rigore e la sua luce. Il cielo è più denso e più basso.

Ritorniamo a casa sotto questo cielo basso e denso, grigio e gonfio di umidità. Scendono soffici fiocchi acquosi che s’ammucchiano sui tetti e sui rami, e di quando in quando scivolano giù con un lieve tonfo come quello del cotone. Non c’è vento e i rumori sono attutiti dalla neve.

Non fa freddo e mi slaccio i legacci del mio berretto azzurro di maglia, lasciandolo sciolto sulla testa. Cordelia si toglie i guanti e raccoglie palle di neve che lancia a casaccio contro gli alberi e i pali del telefono. È una delle giornate in cui si comporta da amica; mi prendono sottobraccio, lei da una parte e Grace dall’altra, e marciamo insieme per la strada cantando ‘Non ci fermiamo davanti a nessuno’. Canto anch’io. Saltelliamo e scivoliamo insieme.

Mi ritorna un po’ dell’euforia che provavo una volta con la neve, voglio aprire la bocca per lasciarci entrare la neve. Mi permetto di ridere come le altre, mi sforzo. La mia risata è un’esibizione, un appiglio alla normalità.

Cordelia si lascia cadere indietro su un prato incolto, distende le braccia sulla neve, le alza sopra la testa, le abbassa lungo i fianchi per fare l’angelo delle nevi. I fiocchi le cadono sul viso, dentro la bocca che ride, si sciolgono, si appiccicano alle sopracciglia. Batte gli occhi, li chiude per proteggerli dalla neve. Per un attimo sembra una che non conosco, una sconosciuta che brilla di ignote e buone possibilità. Oppure la vittima di un incidente d’auto scaraventata sulla neve.

Riapre gli occhi e allunga le mani, che sono bagnate e arrossate, e noi la solleviamo in piedi in modo che la figura da lei tracciata non si rovini. L’angelo delle nevi ha le ali piumate e una testa minuscola. Dove ha fermato le mani, lungo i fianchi, sono rimaste le impronte delle dita, simili a piccoli artigli.

Abbiamo dimenticato che il tempo passava, e adesso sta facendosi buio. Corriamo per la strada che porta al ponte di legno. Anche Grace corre, nel suo modo goffo, e grida: «Aspettate!». Questa volta è lei che è rimasta indietro.

Cordelia arriva per prima in cima alla collina e poi corre giù. Tenta di scivolare, ma la neve è troppo soffice, non abbastanza ghiacciata, ed è cosparsa di cenere e di ghiaia. Cade per terra e rotola giù. Pensiamo che l’abbia fatto di proposito, come ha fatto l’angelo delle nevi. Corriamo giù verso di lei, eccitate, ansimando e ridendo, mentre sta sollevandosi in piedi.

Smettiamo di ridere capendo che è caduta accidentalmente, che non l’ha fatto di proposito. Le piace che tutto ciò che fa sia di proposito.

Carol le domanda: «Ti sei fatta male?». La sua voce è tremante, è spaventata, ha già capito che è una cosa grave. Cordelia non risponde. La sua faccia è di nuovo tesa, lo sguardo minaccioso.

Grace si avvicina a Cordelia, si mette appena dietro di lei, e da lì mi sorride, col suo sorriso teso.

Cordelia mi domanda: «Stavi ridendo?» Immagino che voglia sapere se ridevo di lei perché era caduta.

«No» rispondo.

«Sì, rideva» dice Grace in tono neutrale. Carol si sposta sul ciglio del sentiero, lontano da me.

«Ti do un’altra possibilità» dice Cordelia. «Stavi ridendo?» «Sì» rispondo. «Ma...»

«Sì o no?» domanda Cordelia.

Non dico niente. Cordelia lancia un’occhiata a Grace, come in cerca di approvazione. Sospira, un sospiro esagerato come quello degli adulti. «Stai mentendo ancora» dice. «Che cosa dobbiamo fare con te?»

Sembra che siamo lì da molto tempo. Ora fa più freddo. Cordelia allunga una mano e mi strappa il berretto di maglia. Scende l’ultimo tratto della collina fino al ponte e lì si ferma un attimo. Poi si avvicina al parapetto e butta giù il mio berretto nella scarpata. L’ovale bianco della sua faccia si alza verso di me. «Vieni qui» mi dice.

Niente è cambiato, allora. Il tempo andrà avanti nello stesso modo, senza fine. La mia risata non era vera, dopo tutto; era una semplice boccata d’aria per respirare.

Scendo dov’è Cordelia, accanto al parapetto, sulla neve che non mi scricchiola sotto ai piedi ma sprofonda come un’imbottitura di cotone. Risuona come una carie che viene otturata, come un dente dentro la mia testa. Di solito ho paura ad avvicinarmi tanto al bordo del ponte, ma questa volta no. Non sento niente che si possa definire paura.

«Eccolo là, il tuo stupido berretto» dice Cordelia; e infatti è laggiù, ancora azzurro sulla neve bianca, anche nella luce fioca. «Perché non vai giù a prenderlo?»

La guardo. Vuole che scenda giù nella scarpata, dove ci sono gli uomini cattivi, dove non dobbiamo mai andare. Mi viene in mente che non posso. Che cosa farà, allora?

Posso vedere che la stessa idea sta venendo in mente anche a Cordelia. Può darsi che sia andata troppo oltre, che abbia incontrato alla fine una mia barriera di resistenza. Se questa volta rifiuto di fare ciò che dice, chi può sapere dove arriverà la mia sfida? Le altre due hanno disceso la collina e adesso stanno guardando, al sicuro nel mezzo del ponte.

«Vai giù, allora» mi dice più gentilmente, come per incoraggiarmi, non per dare un ordine. «Così sarai perdonata.»

Non voglio andare laggiù. È proibito e pericoloso, ed è anche buio; la discesa sarà scivolosa, potrei avere difficoltà a risalire. Ma il berretto è laggiù, e se torno a casa senza dovrò dare una spiegazione, dovrò parlare. E se mi rifiuto, che cosa farà Cordelia? Potrebbe arrabbiarsi, potrebbe non rivolgermi più la parola. Potrebbe anche spingermi giù dal ponte. Non ha mai fatto cose simili finora, non mi ha mai picchiata né pizzicata, ma visto che ha buttato giù il berretto non si può sapere cosa potrebbe fare.

Cammino fino in fondo al ponte. «Quando l’hai preso, conta fino a cento» dice Cordelia. «Prima di risalire.» Non sembra arrabbiata, adesso. Sembra che stia dando le istruzioni per un gioco.

Inizio a scendere lungo il ripido pendio della collina, aggrappandomi ai rami e ai tronchi d’albero. Non è nemmeno un vero sentiero, è soltanto un percorso lasciato da quelli che vanno qui su e giù: uomini, ragazzi. Non le bambine.

Quando sono in fondo, tra gli alberi spogli, alzo lo sguardo. Il parapetto del ponte si profila contro il cielo. Posso vedere le sagome scure di tre teste che mi guardano.

Il mio berretto azzurro è sul ghiaccio del ruscello. Sono lì nella neve e lo guardo. Cordelia ha ragione, è uno stupido berretto. Lo guardo e provo un senso di risentimento, perché quel berretto stupido è mio, e si merita di essere messo in ridicolo. Non voglio più mettermelo in testa.

Sento l’acqua, che scorre da qualche parte, sotto il ghiaccio. Faccio qualche passo nel ruscello, raggiungo il berretto, lo raccolgo, ritorno indietro. Sono nell’acqua del ruscello fino alla cintola, tra lastre di ghiaccio spezzato rovesciate intorno a me.

Il gelo mi attraversa. Le mie sovrascarpe e le scarpe si stanno riempiendo d’acqua, che mi inzuppa i pantaloni della tuta da neve. Probabilmente ho gridato o qualche suono m’è uscito, ma non ricordo d’aver udito niente. Col berretto stretto in mano alzo lo sguardo verso il ponte. Non c’è più nessuno. Devono essere andate via, sono scappate. Ecco perché dovevo contare fino a cento, perché potessero scappare via.

Tento di muovere i piedi, ma sono molto pesanti per via dell’acqua dentro le sovrascarpe. Se volessi, potrei rimanere qui. È proprio buio, adesso, e la neve è bianca e azzurrina. I vecchi pneumatici e i pezzi di ferro arrugginiti nel ruscello ne sono tutti coperti; intorno a me vedo archi e cavità azzurre, pure e silenziose. L’acqua del ruscello è fredda e quieta, arriva direttamente dal cimitero, dalle tombe con le ossa, è acqua fatta dai morti, dissolti e limpidi, e io vi sono dentro. Se non mi muovo presto, finirò congelata nel ruscello. Sarò morta, quieta e limpida come loro.

Mi muovo faticosamente nell’acqua, tra le lastre di ghiaccio che si spezzano mentre cammino. È difficile camminare con le sovrascarpe piene d’acqua, potrei scivolare e cadere. Mi aggrappo a un ramo d’albero e mi trascino sulla riva, mi siedo nella neve azzurrina, mi tolgo le sovrascarpe e verso fuori l’acqua. Le maniche della mia giacca sono bagnate fino al gomito, i guanti sono inzuppati. Ora sento coltelli che mi trafiggono le gambe e le mani, le lacrime mi scorrono sul viso per il dolore.

Posso vedere le luci ai bordi della scarpata, dalle case lassù, impossibilmente in alto. Non so come farò ad arrampicarmi su per la collina, con le mani e i piedi che mi fanno così male, non so come farò a ritornare a casa.

La mia testa sta riempiendosi di un pulviscolo nero, di frammenti del buio che mi penetrano attraverso gli occhi. È come se i fiocchi di neve fossero neri, simili al bianco che diventa nero in negativo. La neve si è trasformata in minuscole schegge, adesso sembra pioggia ghiacciata. Fa un rumore frusciante che scende dai rami degli alberi, come i movimenti e il sussurro delle persone in una stanza affollata, quando sanno che devono stare in silenzio. Sono i morti, che salgono invisibili fuori dall’acqua e si raccolgono intorno a me. ‘Silenzio’, ecco cosa dicono.

Sono distesa sul dorso accanto al ruscello e guardo il cielo sopra di me. Non sento più male. Il cielo ha un fondo rossastro. Il ponte è diverso ora, sembra più alto sopra di me, più compatto, come se il parapetto fosse scomparso o fosse stato riempito. E riverbera luce, chiazze di luce verdastre e gialle, diverse da qualsiasi luce abbia mai visto. Mi siedo per vedere meglio. Sento il corpo senza peso, come quando si sta nell’acqua.

C’è qualcuno sul ponte, posso vederne il profilo scuro. Penso dapprima che sia Cordelia, ritornata a cercarmi. Poi vedo che non è una bambina, è troppo alta. Non riesco a vedere la faccia, è soltanto una forma. Dietro ha una di quelle luci verdastre e gialle, che esce come un fascio di raggi intorno alla testa.

So che dovrei alzarmi e ritornare a casa, ma sembra più facile rimanere qui, nella neve, tra queste schegge di ghiaccio che mi accarezzano il viso dolcemente. Ho anche molto sonno. Chiudo gli occhi.

Sento qualcuno che mi parla. È come una voce che chiama ma è molto sommessa, come attutita. Non sono nemmeno sicura di averla udita. Apro gli occhi a fatica. La persona che era sul ponte sta attraversando il parapetto, oppure si sta sciogliendo. È una donna, ora posso vedere la sua lunga sottana; oppure è una lunga tunica? Non sta cadendo, sta scendendo verso di me, come camminando, ma non ha niente su cui camminare. Non ho abbastanza forza per spaventarmi. Sono distesa sulla neve, e la guardo come in letargo, con pigra curiosità. Mi piacerebbe poter camminare così nell’aria.

Ora è molto vicina, posso vedere il riverbero bianco della sua faccia, lo scialle o il cappuccio scuro sulla testa; oppure sono i capelli? Mi tende le braccia e sento un’ondata di felicità. Dentro il suo manto dischiuso vedo un bagliore rosso. È il suo cuore, penso. Dev’essere il suo cuore, fuori dal suo corpo, e rifulge come luce al neon, come carbone.

Poi non riesco più a vederla. Ma la sento intorno, non come se ci fossero delle braccia ma come un lieve alito di aria più calda. Mi sta dicendo qualcosa.

«Puoi andare a casa, adesso» mi dice. «Andrà tutto bene. Vai a casa.»

Non sento le parole ad alta voce, ma è questo che mi dice.