Le luci in cima al ponte si sono spente. Mi faccio strada nel buio, su per la collina, nel nevischio che mi fruscia intorno, aggrappandomi a rami e a tronchi d’albero, le scarpe che scivolano sullo strato compatto di neve ghiacciata. Non provo alcun dolore, nemmeno ai piedi, nemmeno alle mani. È come volare. Il vento lieve si muove con me, con un tocco caldo sulla mia faccia.
Lo so, chi ho visto. Era la Vergine Maria, non possono esserci dubbi. Neppure quando pregavo ero sicura che fosse vera, ma ora lo so. Chi altri potrebbe camminare nell’aria, chi altri potrebbe avere un cuore luminoso? Certo, non aveva né un abito turchino né una corona, e l’abito sembrava nero. Ma era buio, forse la corona c’era e non sono riuscita a vederla. In ogni caso, avesse pure abiti diversi, un diverso abbigliamento, non ha alcuna importanza, perché è venuta a prendermi. Non voleva che morissi assiderata nella neve. È ancora accanto a me, invisibile, e mi avvolge nel calore, nell’assenza di dolore. Mi ha udita, dopo tutto.
Sono ormai arrivata sul sentiero principale e le luci delle case sono più vicine, sopra di me, da una parte e dall’altra. Non riesco quasi a tenere gli occhi aperti, e nemmeno a camminare diritta. Ma i piedi continuano a muoversi, uno dopo l’altro.
Più avanti c’è la strada. Quando arrivo su vedo mia madre, che cammina molto rapidamente. Ha il suo cappotto sbottonato, non ha lo scialle in testa, le soprascarpe ricadono semiallacciate. Quando mi vede inizia a correre. Mi fermo, osservando la sua figura che corre con il cappotto al vento e le soprascarpe ciabattanti quasi che quella fosse un’altra persona, qualcuno che corre. Mi raggiunge sotto un lampione e vedo i suoi occhi grandi e umidi, i capelli impolverati di nevischio. Non ha i guanti. Mi butta le braccia al collo, e mentre fa questo la Vergine Maria scompare improvvisamente. Il dolore e il freddo mi assalgono di nuovo. Inizio a tremare violentemente.
«Sono caduta» le dico. «Stavo riprendendo il berretto.» La mia voce suona pesante, le parole sono impastate. La lingua non mi funziona bene.
Mia madre non mi chiede «Dove sei stata?», «Perché sei in ritardo?» Mi dice: «Dove sono le tue soprascarpe?». Sono giù nella scarpata, coperte di neve. Le ho dimenticate, insieme col berretto.
«Sono cadute giù dal ponte» le rispondo. Ho bisogno di dirle questa bugia il più presto possibile. L’idea di dirle la verità su Cordelia è ancora impensabile.
Mia madre si toglie il cappotto e me lo avvolge addosso. La sua bocca è tesa, la faccia spaventata e adirata al tempo stesso. È l’espressione che aveva quando ci tagliavamo, molto tempo fa, su nel nord. Mi mette un braccio sotto l’ascella e mi trascina via di corsa. I piedi mi fanno male a ogni passo. Mi domando se sarò punita perché sono scesa nella scarpata.
Quando arriviamo in casa mia madre mi toglie di dosso gli abiti fradici, quasi gelati, e mi immerge dentro un bagno tiepido. Mi esamina attentamente le dita delle mani e dei piedi, il naso, i lobi delle orecchie. «Dov’erano Grace e Cordelia?» mi domanda. «Ti hanno vista cadere?»
«No» rispondo. «Non c’erano.»
Posso immaginare che qualsiasi cosa le dica, lei stia comunque pensando di telefonare alle loro madri, ma sono troppo stanca per curarmene. «Mi ha aiutato una signora» le dico.
«Quale signora?» domanda mia madre, ma so bene che non è il caso di dirglielo. Se le dicessi chi era realmente, non mi crederebbe. «Una signora» rispondo.
Mia madre dice che sono fortunata a non essermi congelata. Lo so bene cos’è il congelamento: quando si è bevuto troppo le dita delle mani e dei piedi cadono per punizione. Mi dà una tazza di tè col latte e mi mette a letto con una bottiglia d’acqua calda, tra lenzuola di flanella, sulle quali distende altre due coperte. Sto ancora tremando. Mio padre è ritornato a casa e li sento parlare in corridoio a voce bassa, preoccupati. Poi mio padre entra, mi posa una mano sulla fronte e scompare come un’ombra.
Sogno che sto correndo lungo la strada davanti a scuola. Ho fatto qualcosa di male. È autunno, le foglie stanno bruciando. Una folla di persone mi sta rincorrendo. Gridano.
Una mano invisibile prende la mia, mi trascina in alto. Nell’aria ci sono gradini e io li salgo. Nessun altro può vedere dove sono i gradini. Ora sono sospesa in aria, fuori dalla portata della gente, che se ne sta a faccia in su. Stanno ancora gridando, ma ora non posso più udirli. Le loro bocche si aprono e si chiudono silenziosamente come le bocche dei pesci.
Mi tengono a casa da scuola per due giorni. Il primo giorno sto distesa a letto, galleggiando nel vitreo e delicato chiarore della febbre. Il secondo giorno ripenso a quanto è accaduto. Ricordo Cordelia che getta giù dal ponte il mio berretto azzurro di maglia, ricordo di essere caduta nel ghiaccio e poi mia madre che corre verso di me con i capelli coperti di nevischio. Tutte queste cose sono sicuramente successe, ma nel mezzo c’è uno spazio nebuloso. I morti e la donna col mantello sono lì, ma come accade nei sogni. Non sono sicura, adesso, che fosse davvero la Vergine Maria. Ci credo ma non ne sono più sicura.
Ricevo da Carol una cartolina d’auguri con violette, infilata dentro la cassetta della posta. Il fine settimana Cordelia mi chiama al telefono. «Non sapevamo che fossi caduta» mi dice. «Ci dispiace di non averti aspettato. Pensavamo che fossi dietro di noi.» La sua voce è accurata, precisa, studiata, impassibile.
So che ha raccontato qualche storia per nascondere la verità sull’accaduto, proprio come ho fatto io. So che queste scuse le sono state imposte, e che me la farà pagare. Ma non mi ha mai chiesto scusa prima d’ora. Queste scuse, per quanto false, non mi fanno sentire più forte, ma più debole. Non so che cosa dire. «Tutto bene» riesco a dire. Penso di averlo detto sinceramente.
Quando ritorno a scuola, Cordelia e Grace sono gentili ma distaccate. Carol è più chiaramente spaventata, o dispiaciuta. «Mia madre dice che quasi morivi assiderata» mi sussurra mentre siamo in fila, a due a due, in attesa della campana. «Mi sono presa una bella battuta con la spazzola. Me la sono presa davvero.»
La neve sta sciogliendosi nei prati, sui pavimenti della scuola e nella cucina di casa ricompare il fango. Cordelia mi gira intorno con cautela. Colgo il suo sguardo pensieroso su di me, tornando a casa da scuola. La conversazione è artificiosamente normale. Ci fermiamo nella bottega per dei bastoncini di liquirizia, e li compera Carol. Mentre camminiamo leccando la liquirizia, Cordelia dice: «Penso che Elaine dovrebbe essere punita per aver parlato di noi, non credete?».
«Non ho parlato» dico. Non sento più la morsa allo stomaco, le lacrime trattenute che una volta queste accuse ingiuste avrebbero provocato. La mia voce è piatta, calma, pacata.
«Non mi contraddire» dice Cordelia. «Come mai, allora, tua madre ha telefonato alle nostre?»
«Già, come mai?» dice Carol.
«Non lo so e non m’importa» rispondo. Sono stupita di me stessa.
«Non essere insolente» dice Cordelia. «E pulisciti quel moccio sulla faccia.»
Sono ancora una fifona, sempre impaurita: tutto questo non è cambiato. Però mi volto e mi allontano. È come saltar giù da una roccia, pensando che l’aria mi sostenga. E così accade. Mi rendo conto che non devo fare quello che dice lei e, nel bene e nel male, non ho mai dovuto. Posso fare quello che mi pare.
«Non ti azzardare a camminare lontana da noi» dice Cordelia alle mie spalle. «Ritorna subito qui!» Posso udire queste parole per quello che sono. Sono un’imitazione, una recita. È l’imitazione di qualche persona molto più vecchia. È un gioco. Non c’è mai stato niente in me da migliorare. È sempre stato un gioco, e io sono stata presa in giro. Sono stata stupida. E sono infuriata con me stessa quanto con loro.
«Dieci pile di piatti» dice Grace. Questa minaccia mi avrebbe sottomessa, una volta. Ora mi sembra una stupidaggine. Continuo a camminare. Mi sento coraggiosa, leggera. Non sono le mie migliori amiche, non sono nemmeno mie amiche. Niente mi lega a loro. Sono libera.
Mi seguono facendo commenti sul modo in cui cammino, su come sembro da dietro. Se mi voltassi vedrei che mi stanno imitando. «Stai diritta! Stai diritta!» mi gridano. Posso udire in loro l’astio, ma anche il bisogno. Hanno bisogno di me per fare questo, e io non ho più bisogno di loro. Mi sono indifferenti. C’è in me qualcosa di duro, di cristallino, come una biglia di vetro. Attraverso la strada e continuo a camminare mangiando la liquirizia. Smetto di andare alla scuola domenicale. Dopo la scuola, mi rifiuto di giocare con Grace, con Cordelia e anche con Carol. Non ritorno più a casa passando per il ponte, ma prendo la strada più lunga, oltre il cimitero. Quando, tutte e tre insieme, vengono alla porta posteriore di casa per prendermi, dico che sono occupata. Tentano di adescarmi con le buone maniere, ma a questi mezzi non sono più sensibile. Riesco a leggere il desiderio nei loro occhi. È come se riuscissi a vedere dentro di loro. Perché non ne ero capace prima?
Trascorro molto tempo leggendo fumetti in camera di mio fratello, quando lui non c’è. Mi piacerebbe arrampicarmi sui grattacieli, volare con un mantello, bruciare il metallo con la punta delle dita, portare una maschera, vedere attraverso i muri. Mi piacerebbe colpire le persone, i criminali, con pugni che fanno un lampo rosso o giallo, ‘Crash’, ‘Sbeng’, ‘Boom’. So di avere la volontà di fare queste cose, e in qualche modo intendo farle.
A scuola faccio amicizia con un’altra ragazza, si chiama Jill. È interessata ad altri tipi di giochi, giochi di carte e di legno. Quando andiamo a casa sua giochiamo all’omino nero, a rubamazzetto, a shanghai. Grace, Cordelia e Carol si aggirano ancora ai margini della mia vita, mi allettano, mi prendono in giro, diventano di giorno in giorno più sbiadite, sempre meno concrete. Quasi non le sento più perché quasi non le ascolto.