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Ho avuto per molto tempo l’abitudine di entrare nelle chiese. Dicevo che volevo vedere le opere d’arte; non lo sapevo ma stavo cercando qualcosa. Non le cercavo, queste chiese, anche se erano citate nelle guide per la loro importanza storica, e non entravo mai durante le funzioni. L’idea non mi andava a genio: era quello che c’era dentro, e non quello che vi accadeva, a interessarmi. Il più delle volte ne vedevo una per caso ed entravo d’impulso.

Una volta entrata, prestavo poca attenzione all’architettura, pur conoscendone la terminologia: lucernari e navate erano argomenti su cui avevo scritto degli articoli. Guardavo le vetrate colorate, se ce n’erano. Preferivo le chiese cattoliche a quelle protestanti, e ancora di più quelle riccamente decorate per la maggior quantità di cose da vedere. Mi piacevano le stravaganze sfacciate, le foglie dorate, e mi attraevano le ridondanze barocche.

Leggevo le iscrizioni sui muri e quelle sui pavimenti: una strana mania dei ricchi anglicani che pensavano di acquistare maggiori meriti davanti a Dio facendo scolpire i loro nomi. Gli anglicani avevano anche la fissazione delle vecchie bandiere militari sbrindellate e di altri cimeli di guerra.

Ma in particolare cercavo le statue. Statue di santi e di crociati sui loro catafalchi, oppure di coloro che si fingevano crociati, effigi di ogni genere. Le statue della Vergine Maria le lasciavo per ultime. Le avvicinavo con speranza ma rimanevo sempre delusa. Non erano statue di una persona conosciuta, erano come bambole vestite, insignificanti nell’azzurro e nel bianco, devote e inanimate. Non capivo, allora, perché mi aspettassi di vedere qualcos’altro.

 

Sono andata in Messico la prima volta con Ben. Era anche il nostro primo viaggio insieme, la nostra prima volta insieme, ma pensavo che potesse essere soltanto un interludio. Non ero nemmeno sicura di volere ancora un uomo nella mia vita, a quel tempo avevo ormai abbandonato da un pezzo l’idea che la risposta a un uomo sia un altro uomo. Non ne avevo più la forza. Ma stare con una persona così priva di complicazioni e così facile da accontentare fu un sollievo.

Eravamo noi due soli a fare il viaggio, settimane che, come venni poi a sapere, avevano a che fare con il lavoro di Ben. Sarah era in casa della sua migliore amica. Siamo partiti da Veracruz, facendo una scorpacciata di gamberetti, di alberghi e di scarafaggi: abbiamo preso un’auto per salire sulle colline, alla ricerca come sempre di qualcosa di pittoresco e di poco conosciuto.

Siamo arrivati in un paesino vicino a un lago. Era un posto tranquillo, per essere in Messico, che mi ha dato l’impressione di un paese viscerale, come un corpo rovesciato con il sangue visibile all’esterno. Forse era per il freddo, per il lago.

Mentre Ben visitava il mercato alla ricerca di cose da fotografare, sono entrata nella chiesa. Non era grande e sembrava spoglia. Dentro non c’era nessuno; si sentiva odore di vecchia pietra, di abbandono, di muffa. Mi aggiravo tra le navate esterne, guardando le sgraziate stazioni della Via Crucis fatte a olio, quasi dei dipinti fatti in serie. Erano brutti ma genuini, rispecchiavano le intenzioni dell’autore.

 

Poi ho visto la Vergine Maria. Subito non ho capito che era lei, perché non era vestita in azzurro, e neppure bianca o dorata, ma in nero. Non aveva la corona, la testa era china, il volto in ombra, le mani aperte distese ai fianchi. Ai suoi piedi c’erano mozziconi di ceri, e tutt’intorno alla sua veste nera erano appuntate cose che dapprima mi sembrarono stelle ma erano invece minuscole braccia, gambe, mani, pecore, asini, polli e cuori di ottone o di latta.

Ho capito che cos’era: era una Vergine delle cose perdute, una Vergine che restituiva ciò che era andato perduto. Era l’unica di queste Vergini di legno, di marmo o di gesso, a sembrarmi reale. Poteva avere un senso pregarla, inginocchiarsi, accendere un cero. Ma non l’ho fatto, perché non sapevo per cosa pregare, per quale cosa perduta, non sapevo cosa appuntare alla sua veste.

Ben è arrivato poco dopo e mi ha vista. «Che cosa c’è?» ha domandato. «Che cosa facevi sul pavimento? Stai bene?»

«Sì» ho risposto. «Niente, riposavo soltanto.»

Ero intirizzita dal freddo della pietra, i muscoli rigidi e intorpiditi. Non ricordavo più come fossi finita in quella posizione.

Le mie figlie, tutte e due, hanno attraversato una fase in cui dicevano: «E allora?», nel senso di «Allora niente». Fu quando la prima compì dodici o tredici anni. Incrociavano le braccia e mi guardavano, oppure guardavano una loro amica o se stesse: «E allora?».

«Non dire così» replicavo. «Mi fa impazzire.»

«E allora?»

Cordelia faceva la stessa cosa, a quell’età. Le stesse braccia incrociate, la stessa faccia immobile, lo stesso sguardo vacuo. Cordelia, mettiti i guanti, fuori fa freddo. «E allora?» Non posso venire, devo terminare i compiti. «E allora?»

Cordelia, mi viene da pensare, mi hai fatto credere che non ero niente.

«E allora?»

A questo non c’è risposta.