La scuola che frequentiamo si chiama Istituto superiore Burnham. Costruita di recente, ha forma oblunga e il tetto piatto; è spoglia, anonima, una specie di fabbrica. È all’ultima moda in fatto di architettura moderna. All’interno ci sono lunghi corridoi con pavimenti screziati, che sembrano di granito ma non lo sono. Sulle pareti giallastre sono allineate file di armadietti verde scuro. C’è un auditorium e una rete di altoparlanti.
Tutte le mattine riceviamo gli annunci attraverso questi altoparlanti, innanzi tutto un brano della Bibbia e le preghiere. Chino la testa durante le preghiere ma mi rifiuto di pregare, anche se non so perché. Poi il preside ci comunica gli avvenimenti in programma e ci ricorda anche di raccogliere la carta dei chewing-gum e di non perdere tempo nei corridoi come vecchie coppie sposate. Si chiama MacLeod ma siccome è calvo lo chiamano ‘cupola cromata’, ed è di origine scozzese. L’Istituto Burnham ha un suo vessillo con disegni scozzesi, un blasone della scuola con un cardo, un paio di quei coltelli che gli scozzesi infilano nelle calze, e un motto in gaelico. Il vessillo, il blasone, il motto e i colori della scuola appartengono tutti al clan personale del signor MacLeod.
Nell’atrio di ingresso, accanto al ritratto della regina, è appeso quello di donna Flora MacLeod, con i suoi due nipoti che suonano la cornamusa, in posa davanti al castello di Dunvegan. Ci insegnano a concepire questo castello come nostra casa ancestrale e donna Flora come nostra guida spirituale. Impariamo a cantare in coro The Skye Boat Song, che parla del principino Charlie ‘Bonnie’, sfuggito al genocidio degli inglesi. Impariamo anche Scots Wha’ Hae e una poesia su un topolino che ci fa ridacchiare perché contiene la parola ‘seno’. Immagino che tutte queste cose scozzesi siano normali in una scuola superiore, non avendone mai frequentate altre prima d’ora; e perfino i numerosi armeni, i greci e i cinesi della nostra scuola perdono i connotati delle loro diverse culture, tanto siamo immersi in un alone di tartan.
Sono pochi i ragazzi di questa scuola che conosco, e lo stesso vale per Cordelia. Sono soltanto otto quelli che frequentavano l’ultimo anno della mia scuola privata, e quattro sono gli ex compagni di Cordelia. Quindi è una scuola piena di ragazzi sconosciuti. Oltre a ciò, siamo in classi diverse, e quindi non possiamo nemmeno sostenerci reciprocamente.
Tutti i miei compagni di classe sono più alti di me, e questo era prevedibile perché sono anche più anziani. Le ragazze hanno il seno e un’aria sonnolenta, polverosa, come di giornate afose; la pelle sui loro volti è viscida, unta di creme oleose. Diffido di loro e non mi piace andare nello spogliatoio, dove dobbiamo indossare una tuta da ginnastica azzurra di cotone con il nome ricamato sul taschino. Lì dentro mi sento più magra che mai, e quando mi guardo allo specchio mi vedo la clavicola. Durante le partite di pallavolo queste altre ragazze saltano e strepitano intorno a me, con le loro voci esagerate e rauche, facendo tremolare tutta la carne in più che hanno acquistato. Sto attenta a tenermi lontana, semplicemente perché sono più grosse e potrebbero farmi cadere. Ma in realtà non ho paura di loro e in un certo senso le disprezzo perché assomigliano a Carol Campbell, squittiscono e si dimenano come lei.
Tra i ragazzi ci sono alcuni tipi insignificanti che non hanno ancora cambiato voce, ma molti sono davvero giganteschi. Alcuni hanno quindici, quasi sedici anni, i capelli lunghi, imbrillantinati, pettinati indietro con il codino e la barba. Qualcuno sembra che se la tagli spesso. Stanno seduti in fondo all’aula, con le lunghe gambe tese in mezzo al corridoio tra i banchi. Sono già stati bocciati almeno una volta, hanno rinunciato e aspettano solo il momento di andarsene. Alle altre ragazze fanno battute nei corridoi, schioccando baci oppure aggirandosi intorno ai loro armadi, ma a me non prestano nessuna attenzione. Per loro sono soltanto una bambina.
Però non mi sento più giovane di questi ragazzi, anzi, in un certo senso mi pare di essere più vecchia. Nel nostro testo di Igiene c’è un capitolo che parla delle emozioni degli adolescenti, secondo il quale anch’io dovrei essere presa in un turbinio emotivo, disposta a ridere e subito dopo a piangere. ‘Sempre in pista sulle montagne russe’, come dicevano loro. Ma questa descrizione non corrisponde al mio caso. Io sono tranquilla, osservo le stravaganze dei miei compagni di scuola che si comportano come in questo libro di testo con un misto di curiosità scientifica e di indulgenza quasi materna. Quando Cordelia mi dice: «Non ti sembra un bel fusto?», faccio fatica a capire cosa vuol dire. Qualche volta piango anch’io senza motivo, come dicono che si debba fare, ma non riesco a credere che sia tristezza, non riesco a prenderla sul serio. Mi guardo allo specchio, stupita alla vista delle mie lacrime.
All’ora di colazione vado con Cordelia alla mensa, un locale dai colori sbiaditi con lunghi tavoli bianchicci. Mangiamo la colazione che abbiamo tenuto per tutto il mattino al caldo nei nostri armadietti, così sa vagamente di scarpe da ginnastica; beviamo latte al cioccolato con la cannuccia e facciamo commenti, che consideriamo arguti e salaci, sui nostri compagni di scuola e sugli insegnanti. Cordelia frequenta già da un anno le superiori e sa come si fa. Tiene sollevato il colletto della blusa e ostenta una risata ironica. «È una pallina» dice. Oppure: «Che fusto». Questi sono epiteti che si riferiscono soltanto ai ragazzi. Le ragazze possono essere ‘toste’, ‘appiccicose’ o ‘squinzie’, ‘musi di topo’ o ‘affamate’, o ancora ‘cervellone’, ‘leccapiedi’ oppure ‘secchione’ al pari dei ragazzi, se pensa che studiano troppo. Però non possono essere ‘palline’ né ‘fusti’. Mi piace il termine ‘pallina’, penso che si riferisca alle palline di lana che si formano sul golf. I ragazzi che sono ‘palline’ indossano golf di questo tipo. Io faccio attenzione a staccare tutte queste palline dai miei golf.
Cordelia colleziona fotografie di attori e di cantanti che richiede per posta, cercando gli indirizzi dei club dei loro ammiratori sulle riviste di cinema, quelle che fanno pubblicità della biancheria intima in uso a Hollywood e delle tavolette al sapore di cioccolato che si mangiano per dimagrire. Attacca queste fotografie sul tabellone sopra la scrivania con puntine da disegno, e con lo scotch sulle pareti della sua stanza. Ogni volta che sono lì ho la sensazione di essere osservata da una folla di persone, con i loro lucidi occhi bianchi e neri che mi seguono per la stanza. Alcune di queste fotografie sono firmate, e studiamo queste firme alla luce per vedere se la penna ha scalfito la carta; in caso contrario sono soltanto stampate. Cordelia è un’ammiratrice di June Allyson, ma anche di Frank Sinatra e di Betty Hutton. Burt Lancaster è il più sexy di tutti, a suo giudizio.
Quando ritorniamo a casa da scuola ci fermiamo in un negozio di dischi e ascoltiamo i settantotto giri in una piccola cabina rivestita di sughero. Di quando in quando Cordelia acquista un disco con i soldi della sua mancia, che è superiore alla mia, ma il più delle volte li ascolta soltanto. Si aspetta che anch’io alzi gli occhi estasiata, e che lanci gridolini come i suoi. Conosce il rituale, sa come dovremmo comportarci ora che siamo alle superiori. Ma a me queste cose sembrano incomprensibili e fraudolente, e non riesco a farle senza provare la sensazione di recitare.
Portiamo questi dischi a casa di Cordelia e li ascoltiamo sul giradischi in soggiorno, alzando il volume. Compare Frank Sinatra, una voce senza corpo che scivola sulla melodia come qualcuno che sdrucciola su un marciapiedi bagnato. Serpeggia verso una nota, la raggiunge e la strapazza, poi si riprende e si spinge lentamente in direzione di un’altra nota.
«Non ti fa impazzire quando fa così?» esclama Cordelia. Si lascia cadere sul divano, le gambe tra le braccia, la testa rovesciata all’indietro. Sta mangiando una ciambellina coperta di zucchero in polvere, che le si è sparso sul naso. «Mi sembra quasi che sia qui e mi accarezzi su e giù lungo la spina dorsale.»
«Già» dico io.
Entrano Perdie e Mirrie, e Perdie dice: «Ancora a sbavare dietro a quello?» mentre Mirrie le chiede: «Cordelia cara, ti spiacerebbe abbassare il volume?». Di questi tempi parla a Cordelia con toni particolarmente dolci e la chiama sempre ‘cara’.
Perdie è all’università adesso, e va alle feste dell’associazione studentesca. Mirrie è all’ultimo anno delle superiori, ma in un’altra scuola. Sono tutte e due più che mai affascinanti, belle e sofisticate. Portano golf di cashmere e orecchini di perle; fumano sigarette. Le chiamano ‘sigarinzie’, e ‘ovinzie’ chiamano le uova. ‘Cola’ è la colazione e se qualcuna è incinta dicono che è ‘inci’. La madre la chiamano ancora ‘Mamy’. Fumano sedute le loro sigarette e parlano con aria disinvolta e con ironia divertita, quasi sprezzante, dei loro amici che hanno nomi come Mickie, Bobbie, Poochie e Robin. Dai nomi è difficile indovinare se sono ragazzi o ragazze.
«Non hai sbafato a sufficienza?» domanda Perdie a Cordelia. Questo è un loro nuovo modo di dire, che significa: non hai mangiato abbastanza? «Quelle bisognerebbe lasciarle per cena.» Sta parlando delle ciambelle.
«Ne è rimasto un mucchio» risponde Cordelia, sempre con la testa rovesciata, pulendosi il naso.
«Cordelia» dice Perdie. «Non tenere il bavero rialzato. È volgare.»
«Non è volgare» replica Cordelia. «È chic.»
«Chic» ripete Perdie, alzando gli occhi al cielo e soffiando il fumo dal naso. Ha una bocca piccola e carnosa, increspata agli angoli. «Sembra la pubblicità di una saponetta.»
Cordelia si alza a sedere da una parte e tira fuori la lingua, lanciando un’occhiata a Perdie. «E allora?» le dice poi. «Tu che cosa ne sai? Tu sei già all’età della pensione.»
Perdie, che è abbastanza vecchia per poter bere l’aperitivo con gli adulti prima di cena, anche se non dovrebbe berlo nei bar, arriccia la bocca. «Penso che la scuola superiore le faccia male» dice a Mirrie. «Sta diventando una cafoncella.» Pronuncia questa frase con un’inflessione ironica, come per far capire che lei ormai è troppo grande per queste cose. «Datti una regolata, Cordelia, altrimenti ti bocceranno anche quest’anno. Sai cos’ha detto papà l’altra volta.»
Cordelia arrossisce e non sa cosa rispondere.
Cordelia comincia a pizzicare nei negozi. Non lo chiama rubare, dice che si tratta di pizzicare. Pizzica rossetti da Woolworth’s, stecche di liquirizia Nibs in drogheria. Entra nel negozio e acquista qualcosa di piccolo, come le forcine per i capelli, e quando la commessa si volta per prendere il resto dalla cassa, arraffa qualcosa sul banco e se lo infila sotto il cappotto o nella tasca. Ormai è autunno e indossiamo lunghi cappotti che sbattono dietro alle gambe, cappotti con capaci tasche a toppa che per pizzicare sono l’ideale. Fuori dal negozio mi mostra quello che ha portato via. Sembra pensare che non ci sia niente di male in quello che fa; ride compiaciuta, le brillano gli occhi, le guance sono rosse. È come se avesse vinto un premio.
Woolworth’s ha vecchi pavimenti di legno macchiati dal fango lasciato per anni dagli stivali dei clienti, e fioche luci che pendono dal soffitto con steli metallici. Non c’è niente che desideriamo realmente, tranne forse il rossetto. Ci sono cornici con fotografie di divi del cinema, colorate in modo strano per mostrare l’effetto della cornice con la fotografia. Divi come Ramon Novarro e Linda Darnell, di qualche remota epoca di molti anni fa. Ci sono antiquati cappellini con la veletta per anziane signore e pettini tempestati di gemme finte. Qui quasi tutto è finto. Camminiamo tra i banchi, spruzzandoci con i campioni di profumo, spalmandoci di rossetto il dorso delle mani, toccando gli oggetti e facendo commenti ironici ad alta voce, e intanto le commesse di mezza età ci lanciano delle occhiatacce. Cordelia ha pizzicato una sciarpa rosa di nylon e pensa di essere stata vista da una delle commesse che ci lanciano occhiate, così per un po’ di tempo non ci facciamo più vedere. Entriamo nella drogheria per comperare due merendine, e mentre io pago Cordelia pizzica un paio di fumetti dell’orrore. Riprendiamo il cammino verso casa, leggendoli a turno ad alta voce e recitando con enfasi le varie parti, come alla radio, fermandoci per sbellicarci dalle risate. Ci sediamo sul muretto di pietra davanti all’impresa di pompe funebri in modo da poter guardare le vignette, leggerle e ridere insieme.
Questi fumetti sono disegnati con dovizia di particolari e con colori sgargianti, in prevalenza verde, rosso e giallo zolfo. Cordelia legge la storia di due sorelle, una graziosa e l’altra con la faccia coperta per metà da una bruciatura. La bruciatura è marrone e avvizzita come una mela vecchia. La sorella graziosa ha un boyfriend e va a ballare, quella con la bruciatura la odia e ama il suo boyfriend. Quella con la bruciatura si impicca per gelosia davanti allo specchio. Il suo spirito entra nello specchio, e quando quella graziosa è lì davanti per spazzolarsi i capelli, alza gli occhi e vede quella con la bruciatura che la sta guardando. Sviene per lo spavento e allora quella con la bruciatura esce dallo specchio ed entra nel corpo di quella graziosa. Dopo averle preso il corpo, riesce a ingannare il boyfriend e perfino a farsi baciare eppure, anche se adesso il suo volto è perfetto, l’immagine riflessa in quello specchio mostra il suo vero volto, devastato. Il ragazzo lo vede e per fortuna capisce che cosa deve fare, così rompe lo specchio.
«Sob, sob...» singhiozza Cordelia. «Oh, Bob, è stato orribile... Non importa, amore mio, ora è tutto finito. Se n’è andata via... là da dove veniva... per sempre. Ora possiamo vivere davvero insieme, senza paura. Ciac, fine. Oh, che vomito!»
Leggo ad alta voce la storia di un uomo e di una donna che annegano in mare, e poi si scopre che non sono proprio morti, ma sono diventati enormemente grassi, gonfi e vivono in un’isola deserta, ma sono così grassi che non si amano più. Poi arriva una nave e loro cercano di farsi vedere. «Non ci vedono! Stanno passando oltre! Oh, no... significa che siamo condannati a vivere così per sempre! Non ci sarà una via d’uscita?»
Nella striscia successiva i due si sono impiccati. I loro corpi grassi penzolano da un palmizio e i loro corpi precedenti, magri e smilzi, si tengono per mano in costume da bagno e camminano nell’oceano. «Ciac. Fine.»
«Oh, vomito doppio» esclama Cordelia.
Cordelia legge la storia di un morto che esce da una palude, coperto di pelle gocciolante e squamata, per strangolare il fratello che l’ha spinto nella palude, e io quella di un uomo che dà un passaggio a una bella autostoppista e scopre che è morta da dieci anni. Cordelia legge la storia di un uomo colpito dalla maledizione di uno stregone voodoo: costui gli trasforma la mano nella zampa di un’aragosta rossa che si rivolta contro di lui e lo assale.
Quando arriviamo a casa sua Cordelia non vuole portare dentro i fumetti dell’orrore. Dice che qualcuno potrebbe trovarli e chiederle dove li ha presi. Anche se pensassero che li ha comperati, sarebbe comunque nei guai. E così finisco col portarmeli a casa io. A nessuna delle due viene l’idea di buttarli via.
Quando sono in casa, mi accorgo che non voglio tenermeli in camera di notte. Di giorno ci si possono fare due risate, ma l’idea che siano lì nella mia camera da letto, mentre dormo, non mi piace. Penso che risplendano nel buio con una spettrale luce giallo zolfo, immagino spirali di nebbia che ne escono e si materializzano sopra al mio cassettone. Ho paura di scoprire che un’altra persona è penetrata dentro il mio corpo e di vedere nello specchio del bagno la faccia di un’altra ragazza, una ragazza che mi assomiglia ma che ha metà della faccia più scura nella zona dove le si è bruciata la pelle.
Lo so che nella realtà queste cose non possono accadere, eppure sono pensieri che mi inquietano. Non voglio nemmeno buttare via i fumetti, perché sarebbe come lasciarli liberi, potrebbero perdere il controllo. E così li porto in camera di Stephen e li infilo in mezzo ai suoi vecchi giornalini a fumetti, che sono ancora lì ammucchiati sotto il suo letto. Non li legge più, adesso, e perciò non troverà neppure questi altri. Qualsiasi emanazione possa diffondersi da loro la notte, lui sarà inattaccabile. Lo vedo sempre all’altezza della situazione, anche di una situazione come questa.