Ora sono in undicesima classe e sono alta come molte altre ragazze, il che non significa molto alta. Ho una sottana color grigio fumo con cui mi è difficile camminare, nonostante la pieghettatura, e un golf ad ala di pipistrello, rosso con strisce orizzontali grigie. Ho una grossa cintura elastica nera con la fibbia in similoro e scarpe basse di velluto, da ballerina, che quando cammino ciabattano e debordano ai lati. Ho un cappotto a tre quarti intonato alla gonna grigio fumo. Questo è il mio look: squadrata e scampanata di sopra, con un paio di cosce e di gambe lunghe e smilze che se ne escono di sotto. E la lingua lunga.
Ho la lingua così lunga che è diventata famosa. La uso soltanto se mi provocano, nel qual caso dalla mia bocca aperta escono secche, devastanti battute. Non devo quasi pensarle, escono d’istinto, come fumetti di pensiero con la lampadina dentro. «Sei uno strazio» e «Non mi rompere» fanno parte del repertorio comune delle ragazze, ma io vado ben oltre. Mi capita spesso di dire ‘rompiballe’, che rasenta il cattivo gusto, e di coniare caustiche definizioni come ‘foruncolo che cammina’ o ‘puzza rancida d’ascella’. Se qualche ragazza dice che sono un’intellettuale, ribatto: «Meglio un’intellettuale che un’oca giuliva come te». «Usi molta brillantina?» domando, oppure: «Te lo succhi molto?». Li conosco, i punti deboli. ‘Succhiarselo’ è un’espressione particolarmente gustosa e mortificante. La usano soprattutto i ragazzi, perché fa pensare al pollice e ai lattanti. Io non ho ancora pensato che cos’altro si potrebbe succhiare né in quali circostanze.
A scuola, le ragazze hanno imparato a stare attente alla mia lingua e a evitarla. Cammino per i corridoi circondata da un alone di potenziale pericolosità verbale e vengo trattata con cautela, il che mi sta bene. È abbastanza strano ma questa lingua lunga non mi ha danneggiato nelle amicizie, anzi, almeno in apparenza me ne ha fatte conquistare di più. Le ragazze hanno paura di me ma sanno qual è il posto più sicuro: accanto a me, mezzo passo indietro. ‘Elaine è uno spasso’ dicono, ma senza molta convinzione. Alcune di loro stanno già raccogliendo porcellane, articoli casalinghi e altre cose per la dote. Per queste cose mostro un divertito disprezzo. Però mi dispiace quando vengo a sapere di aver offeso qualcuno involontariamente. Preferisco che le mie offese siano tutte volontarie.
Non ho occasione di usare la mia lingua lunga contro i ragazzi, perché non mi provocano. Tranne Stephen, naturalmente. Di questi tempi abbiamo preso l’abitudine di scambiarci insulti come in una sorta di gioco, come a badminton. «Beccata.» «Reso il colpo.» Solitamente riesco a metterlo a tacere domandandogli: «Come te li sei tagliati i capelli, col tosaerba?». Sta molto attento al taglio di capelli. Oppure, quando è tutto tirato nel suo abbigliamento scolastico, pantaloni di flanella e giacca, gli dico: «Eh, sembri proprio un rappresentante delle Simpson». I rappresentanti delle Simpson sono quei ragazzi tirati a lucido che compaiono negli annuari delle scuole superiori indossando un blazer con lo stemma sul taschino, tutti lindi e ordinati, e fanno la pubblicità alle Simpson.
Mio padre dice: «Un giorno o l’altro la tua linguaccia ti procurerà dei guai, signorina». Quando dice ‘signorina’ è segno che mi sono avvicinata pericolosamente al limite, ma anche se in questo modo riesce a farmi tacere, non mi si smorza certo il tono. Sono arrivata ad apprezzare il rischio, il senso di vertigine che provo quando mi ritrovo al di là di ciò che è socialmente accettabile, camminando sul ghiaccio sottile, su un filo sospeso.
La persona con cui uso maggiormente la mia lingua è Cordelia. Non deve nemmeno provocarmi, la uso come bersaglio da esercitazione. Siamo sedute sulla collinetta sopra il campo di calcio, con indosso i jeans, che a scuola sono consentiti soltanto nei giorni delle partite di calcio. Abbiamo puntato i risvolti troppo lunghi dei pantaloni con mollette per il bucato, secondo i dettami dell’ultima moda. Le ragazze ponpon saltellano tutt’intorno con le loro gonnelline a mezza coscia, agitando le nappine di carta, eppure non assomigliano a quelle con le gambe lunghe, vestite in oro, che si vedono sulle copertine delle riviste; sono mal assortite, deprimenti, scialbe. Comunque invidio sempre le loro cosce. Entrano trotterellando i giocatori, e Cordelia esclama: «Ecco Gregory! Che boccone!». «Di formaggio» aggiungo io. Cordelia mi lancia un’occhiata risentita. «A me sembra un bel fusto.» «Se ti piacciono quelli di petrolio...» commento. Quando mi dice che a scuola non dobbiamo sederci sui sedili dei gabinetti senza prima pulirli, perché potremmo prenderci malattie, io ribatto: «Chi te l’ha detto, la mammina?».
Prendo in giro i suoi cantanti preferiti: «Amore, amore, amore» sospiro. «Non fanno altro che gemere.» Ho sviluppato un caustico disprezzo per le effusioni sdolcinate: Frank Sinatra è ‘il leccalecca che canta’, Betty Hutton ‘la pizza umana’. In ogni caso è tutta gente fuori moda, caramelline rosa. La vera verità la si deve cercare nel rock and roll, i ‘cuori di pietra’ rientrano nei miei gusti.
A volte Cordelia riesce a trovare qualcosa da replicare, altre volte non ce la fa. «Questa è cattiva» dice allora. Oppure tiene la lingua tra i denti e cambia argomento. Oppure si accende una sigaretta.
Sono seduta al banco durante la lezione di storia, e scarabocchio sul margine della pagina. Stiamo parlando della seconda guerra mondiale. L’insegnante è un entusiasta, e saltella attorno alla cattedra agitando braccia e bacchetta. È un tipo basso, con un ciuffo ribelle e l’andatura zoppicante, che a quanto si dice potrebbe aver partecipato alla guerra. Sulla lavagna ha disegnato in bianco una grande mappa d’Europa, con linee gialle tratteggiate per segnare i confini tra gli Stati. Le armate di Hitler invadono con frecce di gesso rosa. Ora è l’Anschluss, dopo cade la Polonia, poi la Francia. Disegno tulipani e alberi, tracciando la linea del terreno e corredandoli sempre di radici. Nel canale della Manica compaiono i sottomarini in verde. Disegno la faccia della ragazza seduta davanti a me. Si scatena il Blitz, le bombe galleggiano nell’aria come sinistri angeli d’argento. Londra è distrutta isolato dopo isolato, casa dopo casa, inclusi caminetti, comignoli, letti matrimoniali fatti a mano, e viene riproposta di generazione in generazione ridotta in fumanti macerie, la storia ridotta a brandelli. «Fu la fine di un’epoca» dice l’insegnante. Dice che per noi è difficile capire, ma niente sarà più lo stesso. È profondamente commosso, lo si vede, e la cosa è imbarazzante. ‘Lo stesso di cosa?’ penso.
Mi sembra incredibile che anch’io fossi già nata quando succedevano tutte quelle cose tracciate col gesso, tutte quelle morti registrate dalle statistiche. Ero già nata quando le donne indossavano quegli abiti ridicoli con le spallone imbottite, il busto che le stringeva in vita e la coda sul sedere come un grembiule per il didietro. Disegno una donna con grandi spalle e il cappellino piumato. Disegno la mia mano. Le mani sono la cosa più difficile da disegnare. Non è facile evitare che assomiglino a salsicciotti.
Esco con qualche ragazzo. Non si tratta di una cosa progettata deliberatamente, è che semplicemente succede. I miei rapporti con i ragazzi sono spontanei, nel senso che mi costano ben poco sforzo. È con le ragazze che mi sento a disagio; è da loro, e non dai ragazzi, che sento di dovermi difendere. Seduta nella mia camera da letto, sto piluccando pallini lanuginosi sui miei golf di lambswool quando squilla il telefono. Sarà un ragazzo. Porto il golf con me in corridoio, dove c’è il telefono, mi sistemo sulla sedia con il ricevitore incollato tra l’orecchio e la spalla e continuo a piluccare pallini, mentre la conversazione, fatta perlopiù di silenzi, procede a lungo.
Questi silenzi i ragazzi li richiedono per loro natura, non bisogna impaurirli con troppe parole pronunciate troppo rapidamente. Quello che dicono non è molto importante, l’importante è nei silenzi tra le parole. Lo so, cosa stiamo cercando tutt’e due: la fuga. Loro vogliono fuggire dagli adulti e dagli altri ragazzi, io voglio fuggire dagli adulti e dalle altre ragazze. Stiamo cercando isole deserte, momentanee, irreali ma esistenti.
Mio padre cammina nel soggiorno, facendo tintinnare le chiavi e le monetine in tasca. È nervoso, non può evitare di ascoltare questi monosillabi, questi mormorii, questi silenzi. Cammina nel corridoio e con le dita fa il gesto di tagliare, per farmi capire che devo interrompere. «Devo andare, adesso» dico al telefono. Il ragazzo emette un suono come di aria che esce da un tubo. Lo capisco.
So molte cose dei ragazzi. So quello che pensano delle ragazze e delle donne, quello che non possono ammettere né con gli altri ragazzi né con nessun altro. Hanno paura dei loro corpi, quando parlano sono timidi, temono di essere derisi. So che discorsi fanno nel baccano della stanza degli armadietti, quando fumano di nascosto negli spogliatoi. ‘Stronza’, ‘mignotta’, ‘lardosa’, e ‘puttana’ sono le parole che usano per le ragazze, poi ce ne sono altre peggiori. Queste parole non mi offendono, so che sono un’altra versione di quegli ‘occhi di bue sottaceto’ e ‘mangia caccole del naso’, epiteti di prova che i ragazzi sentono il bisogno di scambiarsi per dimostrare che sono forti e che non si fanno prendere in giro. Queste parole non significano necessariamente che a loro non piacciano le ragazze in carne ed ossa o una particolare ragazza in carne ed ossa. A volte le ragazze in carne ed ossa costituiscono un’alternativa a queste parole e a volte ne sono un’incarnazione, altre volte soltanto rumori di sottofondo.
Non penso che qualcuna di queste parole si riferisca a me. Sono riferite ad altre, a quelle che camminano per i corridoi della scuola ignorandoli, scuotendo i capelli e dimenando le loro piccole anche, pensando forse di essere seducenti; quelle che parlano tra loro con voce troppo alta e con troppa disinvoltura, senza tuttavia ingannare nessuno; quelle che recitano la parte della ragazza ingenua acqua-e-sapone. E ogni volta queste nuvole di parole non pronunciate le circondano. ‘Stronza’, ‘mignotta’, ‘lardosa’, ‘puttana’: le indicano, le rimpiccioliscono, le riducono a una dimensione nella quale possono essere trattate. Il trucco, di fronte a queste parole non pronunciate, consiste nel passare negli spazi in mezzo a esse, nel voltare la testa, nello sfuggire. Come camminare attraverso i muri.
È questo che so dei ragazzi in generale. Niente di tutto ciò ha a che vedere con qualche ragazzo in particolare o con i ragazzi con cui esco. Questi ragazzi di solito sono più vecchi di me, sebbene non siano del tipo col codino unto e con i vestiti di pelle, ma più educati. Quando esco con loro dovrei ritornare a casa in orario. In caso contrario, mio padre fa con me lunghe conversazioni, nelle quali mi spiega che ritornare a casa in orario è come arrivare in orario per il treno. Se arrivassi in ritardo perderei il treno, non è vero? «Ma questa casa non è un treno» obietto. «Non va da nessuna parte.» Mio padre, esasperato, fa tintinnare le chiavi in tasca. «Questo non c’entra» conclude.
«Siamo preoccupati» dice mia madre. «Per che cosa?» domando. Da quel che posso vedere io, non c’è niente di cui preoccuparsi.
In questa e in altre faccende i miei genitori sono un peso. Non vogliono acquistare la televisione come tutti gli altri, perché mio padre dice che rincretinisce, ed emette anche pericolose radiazioni e messaggi inconsci. Quando vengono i ragazzi a prendermi, mio padre sbuca dalla cantina con il suo vecchio cappello grigio di feltro e con un martello o una sega in mano, e stringe loro la mano con la sua zampa d’orso. Prende loro le misure con i suoi occhietti furbi, scintillanti, ironici, e li chiama ‘signori’, come fossero suoi studenti dell’università. Mia madre recita la sua parte di signora e non dice quasi niente. Oppure, a volte, mi dice che sono molto carina, e me lo dice proprio davanti ai ragazzi.
In primavera compaiono da dietro l’angolo di casa, con i loro calzoni sformati da giardinaggio imbrattati di fango. Vogliono vedermi andar via. Trascinano i ragazzi nel giardino sul retro, dove ora c’è una montagna di blocchi di cemento, accumulati da mio padre per qualche evenienza futura. Vogliono mostrare la loro esposizione degli iris, come se questi ragazzi fossero delle vecchie signore, che poi di iris devono dire qualcosa anche se è l’ultima cosa che potrebbe occupare i loro pensieri. Oppure mio padre tenta di coinvolgerli in edificanti conversazioni su argomenti di attualità, gli chiede se hanno letto questo o quest’altro libro, andando a prenderlo dagli scaffali mentre i ragazzi trascinano i piedi. ‘Tuo padre è un bel tipo’ dicono poi i ragazzi, a disagio.
I miei genitori sono come un fratello e una sorella più giovani, un po’ monelli, che hanno la faccia sporca e tirano fuori cose mortificanti che non si possono prevedere né controllare. Io sospiro e mi rassegno. Mi sento più vecchia di loro, molto più vecchia. Mi sento antica.
Per quello che faccio con i ragazzi non c’è niente di che preoccuparsi. È tutto normale. Andiamo al cinema, dove ci sediamo nella zona fumatori a pomiciare, oppure andiamo nei drive-in a mangiare popcorn, e anche lì pomiciamo. Esistono regole nel pomiciare, regole che rispettiamo: avvicinamento e resistenza, avvicinamento e resistenza. Arrivare alle giarrettiere è troppo, e anche al reggipetto. La cerniera lampo non esiste. Le bocche dei ragazzi sanno di sigarette e di sale, la loro pelle odora di dopobarba. Andiamo a ballare e piroettiamo al suono del rock, oppure trasciniamo i piedi nella luce azzurrina, circondati da altre coppie che trascinano i piedi. Dopo il ballo andiamo a casa di qualcuno oppure al ristorante St Charles e dopo pomiciamo, ma non a lungo perché di solito il tempo è scaduto. Al ballo indosso abiti che mi sono cucita perché non posso permettermi di comperarli. Hanno strati di tulle e sotto sono sostenuti dalla crinolina. L’idea che i ganci possano slacciarsi mi preoccupa. Porto scarpe di seta dello stesso colore oppure con fiocchi argentati. Metto orecchini che pizzicano maledettamente. Per invitarmi a questi balli i ragazzi mandano mazzolini di fiori che poi io conservo schiacciati nel cassetto del mio armadio: garofani spiaccicati e boccioli di rosa con i bordi scuri, fasci di vegetazione morta simili a una collezione di teste floreali avvizzite.
Mio fratello Stephen tratta questi ragazzi con sprezzo. Per quanto lo riguarda sono tutti minus habens, indegni della mia seria considerazione. Ride alle loro spalle e ridicolizza i loro nomi. Non si chiamano George, ma Georgie-Porgie, non Roger ma Rover. Scommette su quanto tempo dureranno: «Gli do tre mesi» dice dopo aver visto un ragazzo per la prima volta, oppure mi chiede: «Quando ti decidi a scaricarlo?».
Non per questo mi offendo con mio fratello. Anzi, me lo aspetto; in parte ha ragione. Non provo per questi ragazzi i sentimenti delle ragazze nei fumetti d’amore. Non sto ad aspettare, domandandomi quando telefoneranno. Mi piacciono, ma non m’innamoro. Il mio caso non rientra nelle descrizioni dei giornaletti per adolescenti, in cui le ragazzine si asciugano una lacrima per guancia, come un paio di orecchini di perle. In parte, quindi, i ragazzi non sono una cosa seria. Ma nello stesso tempo lo sono.
La parte seria è rappresentata dai loro corpi. Seduta in corridoio, tengo il telefono tra l’orecchio e la spalla e quello che ascolto è il loro corpo. Non presto molta attenzione alle parole ma ai silenzi, e nei silenzi il loro corpo si ricrea, è creato da me, prende forma. Quando sono senza ragazzi, è del corpo che sento la mancanza. Studio le loro mani che sollevano la sigaretta nel buio del cinema, la linea curva di una spalla, l’angolazione di un’anca. Guardandoli di sbieco, li esamino sotto luci diverse. L’amore che ho per loro è visivo, questa è la parte di loro che vorrei possedere. ‘Non muoverti’ penso. ‘Rimani così. Lasciami vedere.’ Il loro potere su di me proviene dagli occhi, e quando mi stanco di loro è una stanchezza fisica in parte, ma in parte anche visiva.
Tutto ciò ha a che vedere col sesso soltanto in parte, ma comunque un po’ c’entra. Alcuni ragazzi hanno l’auto, altri no, e con questi si va in autobus, in tram, nella metropolitana di Toronto appena inaugurata, tutta pulita e anonima, che assomiglia a un lungo bagno con le piastrelle color pastello. Quando questi ragazzi mi riaccompagnano a casa, prendiamo la strada più lunga. A seconda della stagione l’aria ha odore di lillà, di erba tagliata o di foglie bruciate. Attraversiamo a piedi il nuovo ponte di cemento, con i salici chini ad arco sopra la testa e il rumore dell’acqua del ruscello che scorre là sotto. Ci fermiamo sotto la luce fioca che scende dai lampioni del ponte e ci appoggiamo al parapetto, le loro braccia intorno a me, le mie intorno a loro. Ci solleviamo a vicenda gli indumenti, e quando le mani scorrono sulla schiena sento la spina dorsale tesa quasi fino a spezzarsi. Sento la lunghezza di tutto il loro corpo e tocco quei visi, stupita. Le facce dei ragazzi cambiano molto, s’addolciscono, si aprono, soffrono. Il loro corpo è energia pura, luce solidificata.