Cordelia mi racconta che quand’era piccola rompeva il termometro e mangiava un po’ di mercurio in modo da stare male e non dover andare a scuola. Oppure si metteva due dita in gola per vomitare, o teneva il termometro vicino a una lampadina per far finta di avere la febbre. Era stata scoperta da sua madre perché aveva tenuto troppo a lungo il termometro vicino alla lampadina, e la colonnina del mercurio era salita a quarantatré. Da allora era diventato più difficile far passare questi trucchi.
«Quanti anni avevi allora?» le domando.
«Mah, non so. Era prima della superiori» mi risponde. «Sai, l’età in cui si fanno queste cose.»
È martedì, verso la metà di maggio. Siamo sedute a un tavolo del Sunnysides. Il Sunnysides è un locale con un banco per le bevande non alcoliche di ematite rossa screziata, con il bordo cromato e davanti una fila di sgabelli girevoli avvitati al pavimento. L’imbottitura nera di questi sedili, che forse non è di pelle, quando ci si siede fa un lieve rumore di peto, e perciò Cordelia, io, e tutte le ragazze preferiamo sederci ai tavoli. Sono di legno scuro, mentre il piano del tavolo in mezzo alle due panche dalla parte opposta è anch’esso rosso, come il banco delle bevande analcoliche. È qui che vengono gli studenti del Burnham dopo la scuola, per fumare e bere Coca-Cola con ciliegine al maraschino. Se si beve una Coca con dentro due aspirine, pare che ci si ubriachi. Cordelia dice che ha provato, ma che non c’è nulla come una vera ubriacatura.
Invece della Coca-Cola stiamo bevendo frullati alla vaniglia, con due cannucce ciascuna. Attorcigliamo le bustine di carta delle cannucce come se fossero piccoli bruchi di carta, poi ci versiamo sopra qualche goccia d’acqua dai nostri bicchieri, e allora i bruchi di carta si espandono e danno l’impressione di strisciare. I tavolini del Sunnysides sono cosparsi di queste striscioline di carta imbevute d’acqua.
«Che cos’hanno detto i polli quando la gallina ha deposto una arancia?» domanda Cordelia. C’è un filone di barzellette rifritte sulle galline, che si trasmettono per tutta la scuola. Barzellette sulle galline e sui cretini. Perché il cretino ha buttato l’orologio fuori dalla finestra? Per veder volare il tempo.
«Guardate la marmellata d’arancia» rispondo con tono annoiato. «Come fanno due cretini a cambiare una lampadina?»
«Come fanno?» domanda Cordelia, che fa fatica a ricordare le barzellette, anche quando le ha già sentite cento volte.
«Uno sta in piedi sulla sedia, e l’altro fa girare la sedia» le dico.
«Ah-ah» dice Cordelia. Del rito fa parte anche una lieve derisione delle barzellette altrui.
Cordelia disegna ghirigori sul tavolo con l’acqua che abbiamo versato. «Ricordi quei buchi che scavavo?» mi domanda.
«Quali buchi?» rispondo. Non ricordo nessun buco.
«Quei buchi nel mio giardino. Sì, volevo scavare una buca. Ne avevo cominciata una, ma la terra era troppo dura, troppo piena di pietre. E così ne ho scavata un’altra. Scavavo dopo la scuola, giorno dopo giorno. Mi sono venute le vesciche alle mani, con quella vanga.» Sorride pensosa, a quel ricordo.
«Perché lo facevi?» domando.
«Volevo metterci dentro una sedia e starmene lì seduta, tutta sola.»
Mi metto a ridere. «E perché?»
«Non lo so. Penso che volessi un posto tutto per me, dove nessuno mi scocciasse. Quand’ero piccola, stavo seduta su una sedia nel corridoio d’ingresso. Pensavo che rimanendo immobile, lontana da tutti, senza dire nulla, sarei stata al sicuro.»
«Al sicuro da cosa?» le domando.
«Al sicuro e basta» risponde. «Quand’ero molto piccola, penso, quando papà perdeva la pazienza mi trovavo spesso nei guai. E non si sapeva mai quando stava per perderla. ‘Via quel sorrisetto dalle labbra’ mi diceva. Di solito io gli resistevo.» Schiaccia la sigaretta, che si sta consumando nel portacenere. «Sai, non sopportavo di entrare in quella casa. Non sopportavo i bambini del Queen Mary né tutte quelle cose noiose come saltare la corda. Non avevo nessuna vera amica, tranne te.»
La faccia di Cordelia si dissolve, poi riprende forma. Sotto, posso vedere la sua faccia di quando aveva nove anni prendere forma. Tutto avviene in un batter d’occhio. È come se fossi fuori al buio e una tendina si fosse alzata su una finestra illuminata, rivelando la vita all’interno, in tutta la sua chiarezza e i suoi particolari. È questione d’un attimo, durante il quale riesco a vedere. Poi più niente.
Una vampata di sangue mi sale alla testa, lo stomaco mi si restringe come se qualche oggetto pericoloso mi avesse mancata per un pelo. È come se fossi stata sorpresa a rubare o a dire una menzogna, come se avessi udito altre persone che sparlavano di me, che dicevano qualcosa di cattivo alle mie spalle. È lo stesso flusso di vergogna, il senso di colpa, la paura, un freddo disgusto rivolto a me stessa. Tuttavia non so da dove siano venute queste sensazioni, né cosa io abbia fatto.
Non voglio saperlo. Di qualsiasi cosa si tratti, non è nulla di cui io abbia bisogno o voglia. Voglio stare qui, in questo martedì di maggio, seduta davanti al tavolo rosso del Sunnysides a osservare Cordelia che succhia delicatamente, con la cannuccia, le ultime gocce del suo frullato di vaniglia. Non si è accorta di nulla.
«Senti questa» le dico. «Perché la gallina che non si lava strizza l’occhio al pollo?»
«Perché?» chiede Cordelia.
«Perché è una sporca civetta» rispondo.
Cordelia alza gli occhi al cielo, come Perdie. «Ah, buona questa» esclama.
Chiudo gli occhi. Nella mia testa c’è un quadrato di buio e di fiori rossi.