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Inizio a evitare Cordelia. Non so perché.

Non organizzo più doppi appuntamenti con lei. Le dico che il ragazzo con cui esco non ha amici adatti. Le dico che devo fermarmi a scuola, il che è vero, perché sto dipingendo le decorazioni del prossimo ballo: palmizi e ragazze con gonnellini hawaiiani.

Certi giorni Cordelia mi aspetta, e quindi devo ritornare a casa con lei. Parla e parla, come se fosse tutto normale; io invece parlo poco, ma del resto non ho mai parlato molto. Dopo un po’, con un tono eccessivamente allegro mi dice: «Ho continuato finora a parlare di me. Tu che cos’hai da raccontarmi?». Allora io sorrido e dico: «Non molto». A volte ci scherza sopra e dice: «Devo smetterla di parlare di me. Tu, invece, che ne pensi di me?» al che io, per stare al gioco replico: «Non molto».

 

Cordelia viene bocciata in molti altri esami. Non sembra che se la prenda troppo, e in ogni caso non vuole parlarne. Non l’aiuto più con i compiti a casa, perché so che se anche lo facessi non presterebbe attenzione. Fa fatica a concentrarsi su qualsiasi cosa. Anche quando parla, mentre ritorniamo a casa, cambia argomento nel mezzo di una frase, e seguire ciò che sta dicendo è difficile. Si è stancata anche di farsi ‘strigliare’, e ha ripreso quell’aria trasandata che aveva anni fa. Non si è più tinta i capelli cosicché, adesso che sono cresciuti, presentano una doppia tonalità di colore. Porta calze di nylon smagliate e camicette a cui mancano alcuni bottoni. Il rossetto sembra sbavato sulla bocca.

È stato deciso che sarebbe meglio se Cordelia cambiasse ancora scuola, e così avviene. All’inizio mi telefona spesso, poi sempre meno di frequente. Dice che dovremmo vederci presto: io non dico di no, ma non fisso mai una data. Dopo un po’ le dico: «Devo andare, adesso».

La famiglia di Cordelia trasloca in una casa più grande, in un quartiere più lussuoso a nord. Nella sua casa di prima va ad abitare una famiglia di olandesi, che piantano molti tulipani. Questa sembra la fine di Cordelia.

 

Sto facendo gli esami scritti della tredicesima classe, una materia dopo l’altra, seduta a un banco in palestra. Le foglie sono tutte spuntate, gli iris sono in fiore e c’è un’ondata di caldo. La palestra è calda come un forno e siamo tutti seduti lì dentro, sovraccaldati, impegnati a scrivere in questo locale che trasuda dell’odore degli atleti che ci sono passati. Gli insegnanti pattugliano i corridoi tra i banchi. Alcune ragazze svengono. Un ragazzo vomita. Si scopre poi che ha bevuto una brocca di spremuta di pomodoro presa in frigorifero, che in realtà era un Bloody Mary per il circolo del bridge di sua madre. I corpi vengono trasportati fuori, ma io quasi non alzo gli occhi dalla pagina.

So che me la caverò bene nei due esami di biologia. Posso disegnare in sezione qualsiasi cosa, l’orecchio dei gamberetti, l’occhio umano, i genitali delle rane, il fiore della bocca di leone (Antirrhinum majus). Conosco la differenza tra un racemo e un rizoma, posso spiegare la fotosintesi e pronunciare il nome Scrofulariaceae. Ma nel mezzo dell’esame di botanica mi assale improvvisamente, simile a un attacco di epilessia, l’idea che non diventerò biologa, come ho sempre sognato. Diventerò pittrice. Guardo la pagina in cui sta prendendo forma il ciclo vitale del fungo, dalla spora al frutto, e me ne rendo conto con assoluta certezza. La mia vita si è trasformata silenziosamente, all’istante. Continuo la mia esposizione di tuberi, di bulbi e di legumi come se non fosse successo niente.

 

Una sera, poco dopo la fine degli esami, squilla il telefono. È Cordelia. Me l’aspettavo, me ne rendo conto.

«Mi piacerebbe vederti» mi dice. Io non ho voglia di vederla, ma so che lo farò. La frase che ho sentito non è ‘mi piacerebbe’ ma ‘ho bisogno’.

E così il pomeriggio seguente prendo la metropolitana e poi l’autobus diretto a nord, attraverso l’afoso centro cittadino, fino a dove abita Cordelia. Non sono mai stata qui prima d’ora. Le strade si snodano tutt’intorno, le case sono grandi, ponderose, georgiane, circondate da rigogliosi arbusti. Avviandomi lungo il vialetto d’ingresso vedo, o così mi sembra, la faccia di Cordelia, pallida e indistinta dietro alla finestra. Apre la porta prima che io abbia il tempo di suonare il campanello.

«Ehi, eccoti qui» mi dice. «È un bel po’ che non ci si vede.» La sua effervescente cordialità è falsa, e lo sappiamo tutte e due perché Cordelia è conciata male. I capelli sono opachi, la pelle della faccia flaccida. È molto ingrassata ma non di muscoli, bensì di carne inerte, gonfia e acquosa. Ha ripreso a usare il suo rossetto rosso-arancione troppo sgargiante, che la fa apparire giallastra. «Lo so» dice. «Sembro Haggis McBaggis.»

Dentro, la casa è fredda. Il pavimento del corridoio d’ingresso è a quadrati bianchi e neri. Accanto a una bella scala centrale c’è un tavolo lucido, sul quale è posata una composizione floreale di gladioli. La casa è silenziosa, l’unico rumore quello di un orologio a pendolo che rintocca nel soggiorno. Sembra che in casa non ci sia nessun altro.

Non andiamo in soggiorno ma oltre le scale, attraverso una porta che dà in cucina, dove Cordelia mi prepara una tazza di caffè solubile. È una bella cucina perfettamente attrezzata, ha colori tenui ed è silenziosa. Il frigorifero e la cucina a gas sono bianchi. Alcuni adesso hanno frigoriferi colorati, verde chiaro o rosa, ma questi colori a me non piacciono e mi fa piacere che non piacciano nemmeno alla madre di Cordelia. Un quaderno di scuola a righe giace aperto sul tavolo della cucina, che riconosco come il tavolo da pranzo della casa precedente, dal quale sono state asportate le due ribalte centrali. Significa che deve esserci un nuovo tavolo da pranzo, e mi accorgo con sgomento che desidero vedere questo tavolo nuovo più di quanto voglia vedere Cordelia.

Cordelia fruga nel frigorifero e prende un pacchetto aperto di ciambelline. «Aspettavo una scusa per mangiare anche le altre» mi dice. Ma non appena ha dato il primo morso accende una sigaretta.

«Allora» mi dice, «che cosa stai facendo di questi tempi?» Ha quel suo tono di voce troppo vivace, quello che usava con i ragazzi, che in questo momento mi spaventa.

«Oh, le solite cose» rispondo. «Sai, ho finito gli esami.» Ci guardiamo. Le cose le vanno male, è evidente. Non so se lei vuole che faccia finta di niente oppure no. «E tu?» le domando.

«Ho un’insegnante privata» dice. «Dovrei studiare per gli esami di riparazione.» Tutte e due, senza parlarne, sappiamo che nonostante il cambiamento di scuola dev’essere stata bocciata. E dev’essere stata bocciata malamente. Se non riuscirà a passare ai prossimi esami le materie in cui è stata bocciata, sarà esclusa per sempre dall’università.

«È carina questa insegnante?» le chiedo, come se mi informassi di un suo abito nuovo.

«Mi sembra di sì» risponde Cordelia. «Si chiama Dingle. Sbatte continuamente i suoi occhi acquosi. Abita in uno squallido appartamento. Porta mutandine color salmone, le ho viste appese sull’asta della tenda della doccia nel suo squallido bagno. Riesco sempre a farle cambiare argomento informandomi della sua salute.»

«Quale argomento?» le chiedo.

«Oh, qualsiasi argomento» risponde. «Fisica, latino, qualsiasi.» Sembra vergognarsene un po’, ma è anche orgogliosa ed euforica. È come quando rubacchiava nei negozi. Adesso è questa sua impresa, ingannare l’insegnante. «Non capisco come possano tutti pensare che io trascorra le giornate studiando» soggiunge. «Dormo parecchio, oppure bevo caffè, fumo, ascolto un disco. A volte bevo un goccio del whisky di papà, poi aggiungo acqua nella bottiglia. Non se n’è ancora accorto.»

«Ma Cordelia» le dico, «devi pur fare qualcosa!»

«E perché?» replica, con un po’ del suo spirito bellicoso di un tempo. Non sta semplicemente scherzando.

Non ho nessuna risposta da darle. Non riesco a dirle: «Perché tutti lo fanno». Non riesco nemmeno a dirle: «Devi pur guadagnarti da vivere» perché evidentemente non ne ha bisogno. È qui, in questa grande casa, e non deve guadagnarsi da vivere. Potrebbe continuare sempre così, come una donna d’altri tempi, come una zia zitella, come qualche eterna ragazza che invecchia senza mai uscire di casa. È improbabile che i suoi genitori la sbattano fuori.

E allora le dico: «Ti annoierai».

Cordelia si fa una risata troppo forte. «E se studio?» domanda. «Passo gli esami. Vado all’università, imparo tutto. Divento come la signorina Dingle. No, grazie.»

«Non essere stupida» rispondo. «Chi l’ha detto che devi diventare come la signorina Dingle?»

«Può darsi che sia stupida» dice. «Non riesco a concentrarmi su quella roba. Non ce la faccio quasi a guardare le pagine, diventano tanti puntini neri.»

«Magari potresti iscriverti a una scuola per segretarie» le suggerisco. Mi sento in colpa non appena l’ho detto. Sa bene che cosa pensiamo tutte e due delle segretarie che frequentano le scuole per segretarie, con le loro sopracciglia sottili e le camicette rosa di nylon.

«Grazie mille.» E dopo qualche attimo di silenzio: «Ma non parliamo di queste cose, adesso» soggiunge, riprendendo il suo tono troppo spigliato. «Parliamo di cose divertenti. Ti ricordi il cavolo, quello che rimbalzava?»

«Sì.» Mi viene in mente che potrebbe essere incinta, oppure esserlo stata. È naturale pensarlo, quando una ragazza lascia la scuola. Ma concludo che è improbabile.

«Ero così mortificata» soggiunge. «Ricordi quando andavamo in centro per farci le fotografie alla Union Station? Pensavamo di essere così in gamba!»

«Era poco prima che costruissero la metropolitana» le ricordo.

«E lanciavamo palle di neve contro le vecchie signore. E cantavamo tutte quelle stupide canzoncine.»

«Come quella della lebbra» soggiungo.

«O un pezzo del tuo cuore» aggiunge lei. «Pensavamo di essere molto furbe. Ora vedo i ragazzini di quell’età e penso: marmocchi!»

Ripensa a quel tempo come se fosse stato la sua età dorata, e forse le sembra così perché era meglio di adesso. Non voglio ascoltare ancora i suoi ricordi, voglio proteggermi da altre sue più cupe rievocazioni, voglio andarmene via da qui garbatamente prima che accada qualcosa di imbarazzante. È in bilico sul filo di un’artificiosa ilarità che potrebbe precipitare da un momento all’altro nell’opposto, nel pianto e nella disperazione. Non voglio vederla accasciarsi in questo modo, perché non ho niente da offrirle come consolazione.

Non mi lascio intenerire. Sta comportandosi da stupida. Non ha nessun bisogno di starsene qui chiusa in casa, in questa sua dolente, appartata, insulsa infelicità. Ha tutte le occasioni e le possibilità che vuole, e l’unica cosa che le impedisce di usarle è una mancanza di volontà. ‘Datti una regolata’ vorrei dirle. ‘Tirati su le braghe.’

Le dico che devo ritornare a casa perché devo uscire più tardi. Non è vero, e lei ne ha il sospetto. Pur essendo così mal ridotta, ha acuito il fiuto per le bugie convenzionali. «Oh, certo» dice. «È perfettamente comprensibile.» Ecco quel suo tono distaccato, da adulta.

Ora che ho fretta, e lo faccio vedere, mi viene in mente che uno dei motivi di questa mia fuga è che non voglio incontrare sua madre quando torna. Mi guarderebbe con un’espressione di rimprovero, come se fossi responsabile delle attuali condizioni di Cordelia, come se fosse delusa non da Cordelia, ma da me. Perché dovrei sopportare questo sguardo di rimprovero per qualcosa di cui non ho colpa?

«Arrivederci, Cordelia» le dico nel corridoio d’ingresso. Le stringo per un attimo il braccio e mi allontano prima che possa baciarmi sulla guancia. Baciare sulla guancia è un’abitudine della sua famiglia. So che si aspetta qualcosa da me, un contatto con la sua vita d’un tempo, forse con se stessa. So che non gliel’ho dato. Sono delusa da me stessa, dalla mia crudeltà, dall’indifferenza, dalla mancanza di sensibilità. Ma mi sento anche sollevata.

«Ti telefonerò presto» le dico. È una bugia, ma lei preferisce far finta di niente.

«Sarebbe carino» risponde, e questa sua cortesia ci protegge entrambe.

Percorro il vialetto che porta in strada, mi volto a guardare. La sua faccia è ancora lì, come l’offuscato riflesso di una luna, dietro al vetro della finestra.