Urania. I genitori non le avevano fatto un favore; il suo nome dava l’idea di un pianeta, di un minerale, di tutto tranne che della donna snella e dai tratti sottili, dalla carnagione bruna e dai grandi occhi scuri, un po’ tristi, che lo specchio le rimandava. Urania! Ma che bella invenzione. Per fortuna piú nessuno la chiamava cosí, ma Uri, Miss Cabral, Mrs Cabral o Doctor Cabral. A quel che ricordava, da quando era venuta via da Santo Domingo («O meglio, da Ciudad Trujillo», quando era partita non avevano ancora restituito il suo nome alla capitale), né a Adrian, né a Boston, né a Washington D.C., né a New York, nessuno l’aveva piú chiamata Urania, come prima a casa sua e al Colegio Santo Domingo, dove le sisters e le sue compagne pronunciavano in modo ultracorretto l’insensato nome che le avevano inflitto alla nascita. Poteva essergli venuto in mente a lui, a lei? Troppo tardi per accertarsene, ragazza; tua madre ormai era in cielo e tuo padre un morto vivente. Non lo saprai mai. Urania! Assurdo quanto fare quell’affronto all’antica Santo Domingo de Guzmán chiamandola Ciudad Trujillo. Anche quella era stata forse un’idea di suo padre?
Sta aspettando che spunti il mare dalla finestra della sua camera, al nono piano dell’Hotel Jaragua, e finalmente lo vede. Il buio scompare in pochi secondi e lo splendore bluastro dell’orizzonte, che cresce in fretta, inizia lo spettacolo che attende da quando si è svegliata, alle quattro, nonostante la pillola che aveva preso mettendo da parte le sue prevenzioni contro i sonniferi. La superficie blu scuro del mare, punteggiata di macchie di schiuma, si sta incontrando con un cielo plumbeo sulla remota linea dell’orizzonte, e, qui, sulla costa, si infrange in ondate sonore e schiumose contro il Malecón, di cui scorge parti del viale tra le palme e i mandorli. Allora, l’Hotel Jaragua guardava il Malecón di fronte. Adesso, di lato. La memoria le restituisce quella immagine – di quel giorno? – della bambina tenuta per mano dal padre, mentre entrano nel ristorante dell’albergo per pranzare loro due da soli. Li avevano sistemati a un tavolo vicino alla finestra, e, attraverso le tendine, Uranita poteva vedere l’ampio giardino e la piscina con i trampolini e i bagnanti. Un’orchestra suonava dei merengues nel Patio Español, che aveva tutt’attorno azulejos e vasi di garofani. Fu quel giorno? «No», dice ad alta voce. Il Jaragua di allora lo avevano demolito e sostituito con questo voluminoso edificio color pantera rosa che l’aveva sorpresa al suo arrivo a Santo Domingo tre giorni prima.
Hai fatto bene a tornare? Te ne pentirai, Urania. Sprecare una settimana di vacanze, tu che non hai mai avuto il tempo per conoscere tante città, regioni, paesi che ti sarebbe piaciuto vedere – le montagne e i laghi innevati dell’Alaska, per esempio – per tornare nell’isoletta su cui avevi giurato di non mettere mai piú piede. Sintomo di decadenza? Sentimentalismo autunnale? Curiosità, nient’altro. Dimostrare a te stessa che sei capace di camminare per le strade di questa città che non è piú tua, percorrere questo paese estraneo, senza che ciò susciti in te tristezza, nostalgia, odio, amarezza, rabbia. O sei venuta ad affrontare quella rovina che è tuo padre? A scoprire che impressione ti fa vederlo, dopo tanti anni. Un brivido la percorre dalla testa ai piedi. Urania, Urania! Magari, dopo tutti questi anni, potresti scoprire che, sotto la tua testolina caparbia, determinata, impermeabile allo scoraggiamento, dietro quella forza che ti ammirano e ti invidiano, tu hai un cuoricino tenero, pauroso, lacerato, sentimentale. Si mette a ridere. Basta con queste stupidaggini, ragazza.
S’infila le scarpette, i pantaloni, la blusa della tuta da ginnastica, raccoglie i capelli in una retina. Beve un bicchiere d’acqua fresca ed è sul punto di accendere la televisione per guardare la Cnn ma ci ripensa. Si ferma accanto alla finestra, a rimirare il mare, il Malecón, e poi, voltandosi, la foresta di tetti, torri, cupole, campanili e chiome d’albero della città. Quanto è cresciuta! Quando l’hai lasciata, nel 1961, ospitava trecentomila anime. Adesso, piú di un milione. Si è riempita di quartieri, viali, parchi e alberghi. Il giorno prima, si era sentita un’estranea mentre faceva un giro su un’auto presa a noleggio tra gli eleganti condomini di Bella Vista e l’immenso parco El Mirador dove c’erano tanti joggers come al Central Park. Ai tempi della sua infanzia, la città finiva all’Hotel El Embajador; da lí in poi tutto era fincas, terreni seminati. Il Country Club, dove il padre la portava in piscina di domenica, era circondato di prati, anziché di asfalto, case e pali della luce come adesso.
Ma la ciudad colonial non è ringiovanita, e nemmeno Gazcue, il suo quartiere. Ed è certissima che la sua casa è cambiata appena. Dev’essere ancora uguale, con il suo piccolo giardino, il vecchio mango e il flamboyán dai fiori rossi sospeso sulla terrazza dov’erano soliti fare colazione all’aria aperta nei fine settimana; il tetto a due spioventi e il balconcino della sua camera da letto, sul quale usciva per aspettare le cugine Lucinda e Manolita e, in quell’ultimo anno, il 1961, per spiare quel ragazzo che passava in bicicletta, e la guardava con la coda dell’occhio, senza osare rivolgerle la parola. Dentro sarà rimasta uguale? L’orologio austriaco che batteva le ore aveva i numeri gotici e una scena di caccia. Sarà sempre uguale tuo padre? No. Lo hai visto declinare nelle foto che a distanza di mesi o di anni ti mandavano zia Adelina e altri lontani parenti che hanno continuato a scriverti, nonostante tu non abbia mai risposto alle loro lettere.
Si lascia cadere su una poltrona. Il sole dell’aurora colpisce il centro della città; la cupola del Palacio Nacional e l’ocra pallido dei suoi muri scintillano dolcemente sotto la cavità celeste. Devi uscire in fretta, presto il caldo sarà insopportabile. Chiude gli occhi, vinta da una inerzia non usuale in lei, abituata a essere sempre in attività, a non perdere tempo con quello che, da quando è tornata a metter piede in terra dominicana, la occupa giorno e notte: ricordare. «Questa figlia mia sempre a lavorare, perfino mentre dorme ripete la lezione». Questo diceva di te il senatore Agustín Cabral, il ministro Cabral, Cerebrito Cabral, vantandosi con gli amici della bambina che aveva vinto tutti i premi, l’alunna che le sisters portavano a modello. Si era vantato con il Capo delle prodezze scolastiche di Uranita? «Mi piacerebbe tanto che la conoscesse, ha vinto il Premio de Excelencia tutti gli anni da quando è entrata al Santo Domingo. Per lei, conoscerla, darle la mano, sarebbe la felicità. Uranita prega tutte le sere affinché Dio le conservi questa salute di ferro. E, anche, per doña Julia e per doña María. Ci conceda questo onore. Glielo domanda, glielo chiede, glielo implora il piú fedele dei suoi cani. Lei non può negarmelo: la riceva. Eccellenza! Capo!»
Lo detesti? Lo odi? Ancora? «Non piú», dice a voce alta. Non saresti tornata se il rancore continuasse a crepitare, la ferita a sanguinare, la delusione ad annientarti, ad avvelenarti, come nella tua giovinezza, quando studiare, lavorare, si trasformarono in un ossessionante rimedio per non ricordare. Allora sí che lo odiavi. Con tutti gli atomi del tuo essere, con tutti i pensieri e i sentimenti che potevano stare dentro il tuo corpo. Gli avevi augurato disgrazie, malattie, incidenti. Dio ti ha esaudita, Urania. Il diavolo, piuttosto. Non è sufficiente che l’emorragia cerebrale lo abbia ucciso lasciandolo vivo? Una dolce vendetta che sia stato dieci anni sulla sedia a rotelle, senza camminare, senza parlare, dipendendo da un’infermiera per mangiare, mettersi a letto, vestirsi, spogliarsi, tagliarsi le unghie, radersi, orinare, defecare? Ti senti ripagata? «No».
Beve un secondo bicchiere d’acqua ed esce. Sono le sette del mattino. Nel pianoterra del Jaragua la assale il rumore, quell’atmosfera ormai familiare di voci, motori, radio a tutto volume, merengue, salsa, danzón e bolero, o rock e rap, mescolati, aggredendosi tra loro e aggredendola con il loro schiamazzo. Caos animato, necessità profonda di stordirsi per non pensare e forse neppure sentire, di quello che fu il tuo popolo, Urania. Ancora, esplosione di vita selvaggia, indenne alle ondate di modernizzazione. Qualcosa nei dominicani si aggrappa a quella forma prerazionale, magica: quell’appetito per il rumore. («Per il rumore, non per la musica»).
Non ricorda che, quando era bambina e Santo Domingo si chiamava Ciudad Trujillo, ci fosse un chiasso simile per la strada. Forse non c’era; forse, trentacinque anni fa, quando la città era tre o quattro volte piú piccola, provinciale, isolata e come in letargo a causa della paura e del servilismo, e aveva l’animo pieno di riverenza e di panico nei confronti del Capo, del Generalissimo, del Benefattore, del Padre della Patria Nuova, di Sua Eccellenza il Dottor Rafael Leónidas Trujillo Molina, era piú silenziosa, meno frenetica. Oggi, tutti i suoni della vita, motori di automobili, cassette, dischi, radio, clacson, latrati, grugniti, voci umane, sembrano a tutto volume, si manifestano al massimo livello della loro capacità di rumore vocale, meccanico, digitale o animale (i cani abbaiano piú forte e gli uccelli cinguettano con piú gusto). E poi è New York che ha fama di essere rumorosa! Mai, nei suoi dieci anni di Manhattan, le sue orecchie hanno registrato qualcosa che somigli a questa sinfonia brutale, stonata, in cui si trova immersa da tre giorni.
Il sole accende le palme canas dalle chiome erette, il marciapiede accidentato e come bombardato dalla quantità di buche e dai mucchi di spazzatura, che delle donne con i fazzoletti sulla testa spazzano e raccolgono in sacchetti insufficienti. «Haitiane». Adesso stanno in silenzio, ma ieri chiacchieravano tra loro in creole. Poco piú avanti, vede due haitiani scalzi e seminudi seduti su alcune casse, ai piedi delle decine di dipinti dai vivacissimi colori, distribuiti su un muro. È vero, la città, forse il paese, si è riempita di haitiani. Allora, non succedeva. Non lo diceva il senatore Agustín Cabral? «Del Capo si potrà dire tutto quello che si vuole. La storia gli riconoscerà almeno il merito di aver fatto un paese moderno e di aver messo a posto gli haitiani. A mali estremi, estremi rimedi!» Il Capo aveva trovato un paese piccolo e imbarbarito dalle guerre tra caudillos, senza legge né ordine, impoverito, che stava perdendo la propria identità, invaso dagli affamati e feroci vicini. Attraversavano il fiume Masacre e venivano a rubare beni, animali, case, portavano via il lavoro ai nostri braccianti agricoli, pervertivano la nostra religione cattolica con le loro stregonerie diaboliche, violentavano le nostre donne, rovinavano la nostra cultura, la nostra lingua e le nostre usanze occidentali e ispaniche, imponendoci le loro, africane e barbare. Il Capo tagliò quel nodo gordiano: «Basta!» A mali estremi, estremi rimedi! Non soltanto giustificava quel massacro di haitiani del Trentasette; la considerava una gloria del regime. Non aveva salvato la Repubblica dall’essere prostituita una seconda volta nella storia da quel vicino rapace? Che cosa contano cinque, dieci, ventimila haitiani se si tratta di salvare un popolo?
Cammina in fretta, riconosce quei luoghi: il Casino de Güibia, trasformato in club, e lo stabilimento balneare adesso appestato dalle fogne; presto arriverà all’incrocio tra il Malecón e avenida Máximo Gómez, l’itinerario del Capo nelle sue passeggiate vespertine. Da quando i medici gli avevano suggerito che faceva bene al cuore, andava dalla Estancia Radhamés fino a Máximo Gómez, con una sosta nella casa di doña Julia, l’Excelsa Matrona, dove Uranita era entrata una volta per dire un discorso che quasi non riuscí a pronunciare, e scendeva fino a questo malecón George Washington, a questo incrocio girava e proseguiva fino all’obelisco imitazione di quello di Washington, a passo vivace, circondato da ministri, consiglieri, generali, assistenti, cortigiani, a rispettosa distanza, con gli occhi vigili, il cuore speranzoso, in attesa di un gesto, un cenno che permettesse loro di avvicinarsi al Capo, ascoltarlo, meritare una frase, fosse pure di rimprovero. Tutto, tranne che essere tenuti lontani, nell’inferno dei dimenticati. «Quante volte hai passeggiato in mezzo a loro, papà? Quante volte hai ottenuto che ti parlasse? E quante ti sei intristito perché non ti chiamava, temendo di non fare piú parte della cerchia degli eletti, di essere caduto tra i reprobi. Hai vissuto sempre nel terrore che si ripetesse con te la storia di Anselmo Paulino. E si è ripetuta, papà».
Urania si mette a ridere e una coppia in bermuda che cammina nella direzione opposta crede che sia per loro: «Buongiorno». Ma non è con loro che ride, invece è con l’immagine del senatore Agustín Cabral che trotta tutti i pomeriggi lungo questo Malecón, tra quei servitori di lusso, attento non alla calda brezza, ai rumori del mare, alle acrobazie dei gabbiani né alle radiose stelle del Caribe, ma alle mani, agli occhi, ai movimenti del Capo, che forse lo avrebbero chiamato, preferendolo agli altri. È arrivato al Banco Agrícola. Poi verrà l’Estancia Ramfis, dove si trova ancora il Segretariato agli Esteri, e l’Hotel Hispaniola. E di nuovo indietro.
«Calle César Nicolás Penson, esquina Galván», pensa. Ci sarebbe andata o sarebbe tornata a New York senza aver neppure dato un’occhiata alla sua casa? Entrerai e chiederai all’infermiera di vedere l’invalido e salirai nella camera da letto e poi nella terrazza dove lo portano a fargli fare la siesta, quella terrazza che diventava rossa con i fiori del flamboyán. «Ciao, papà. Come stai, papà. Non mi riconosci? Sono Urania. Certo, come mi puoi riconoscere. L’ultima volta avevo quattordici anni e adesso ne ho quarantanove. Un sacco di anni, papà. Non era l’età che avevi tu, il giorno in cui me ne sono andata a Adrian? Sí, quarantotto o quarantanove. Un uomo nel pieno della maturità. Adesso, stai per compierne ottantaquattro. Sei diventato vecchissimo, papà». Se è in grado di pensare, avrà avuto molto tempo in questi anni per fare un bilancio della sua lunga vita. Avrai pensato alla tua figlia ingrata, che in trentacinque anni non ha risposto a una sola lettera, non ti ha mandato una fotografia, né una sola volta gli auguri per il compleanno, per Natale o per Capodanno, neppure quando hai avuto l’emorragia e zie, zii, cugini e cugine credevano che saresti morto, è venuta a trovarti né ha chiesto notizie sulla tua salute. Che figlia cattiva, papà.
La casetta di César Nicolás Penson, esquina Galván, ormai non doveva piú ricevere visite, nell’anticamera dell’ingresso, dove c’era l’abitudine di tenere l’immagine della Virgencita de la Altagracia, con quella placca di bronzo arrogante: «In questa casa Trujillo è il Capo». O l’hai conservata, come prova di lealtà? L’avrai buttata a mare come migliaia di dominicani che l’avevano comprata e appesa nel posto piú visibile in casa, affinché nessuno potesse dubitare della loro fedeltà al Capo, e che, quando l’incantesimo finí a pezzi, vollero cancellare le tracce, vergognandosi di ciò che essa rappresentava: la loro codardia. Magari anche tu l’hai fatta scomparire, papà.
È arrivata all’Hispaniola. Sta sudando, il cuore le batte accelerato. Passa un doppio fiume di automobili, camioncini e camion per avenida George Washington e le sembra che tutti abbiano la radio accesa e che quel rumore finirà per spaccarle i timpani. A tratti, da qualche veicolo si sporge una testa maschile e per un istante i suoi occhi incontrano occhi maschili che le guardano i seni, le gambe o il sedere. Quegli sguardi. Sta aspettando un buco che le consenta di attraversare e una volta di piú si dice, come ieri, come l’altroieri, che è in terra dominicana. A New York ormai piú nessuno guarda le donne con quella disinvoltura. Misurandola, soppesandola, calcolando quanta carne c’è in ognuna delle sue tette e cosce, quanto pelo sul suo pube e la curva precisa delle sue natiche. Chiude gli occhi, in preda a una leggera vertigine. A New York, ormai neppure piú i latinos, i dominicani, i colombiani, i guatemaltechi guardano cosí. Hanno imparato a reprimersi, hanno capito che non devono guardare le donne come i cani guardano le cagne, i cavalli le puledre, i maiali le scrofe.
In un rallentamento di veicoli, attraversa, correndo. Invece di girare su se stessa e cominciare il ritorno verso il Jaragua, i suoi passi, non la sua volontà, la portano a girare attorno all’Hispaniola e a tornare per Independencia, una avenida che, se la memoria non la tradisce, parte da qui, carica di una doppia passeggiata di frondosi allori le cui chiome si abbracciano al di sopra della strada, rinfrescandola, fino a biforcarsi e scomparire ormai nel pieno della ciudad colonial. Quante volte hai camminato portata per mano da tuo padre, sotto l’ombra rumorosa degli allori di Independencia. Scendevano da César Nicolás Penson fino a quella avenida e andavano fino al parco Independencia. Nella gelateria italiana, sulla destra, dove cominciava El Conde, prendevano un gelato di cocco, mango o guayaba. Come ti sentivi orgogliosa ad andare per mano a quel signore – il senatore Agustín Cabral, il ministro Cabral. Tutti lo conoscevano. Si avvicinavano, gli davano la mano, si toglievano il cappello, chinavano il capo, e guardie e militari battevano i tacchi vedendolo passare. Come devi aver sentito la nostalgia di quegli anni in cui eri cosí importante, papà, quando sei diventato un povero diavolo come tanti. Te, si accontentarono di insultarti a El Foro Público, ma non ti misero in galera come Anselmo Paulino. È quello che temevi di piú, non è vero? Che, un bel giorno, il Capo ordinasse: Cerebrito in galera! Hai avuto fortuna, papà.
Cammina da tre quarti d’ora e manca un buon tratto fino all’albergo. Se avesse portato con sé dei soldi, sarebbe entrata in un caffè per fare colazione e per riposare. Il sudore la costringe ad asciugarsi di continuo. Gli anni, Urania. A quarantanove non si è piú giovani. Per quanto ti conservi meglio di altre. Ma non sei ridotta da essere messa da parte come un vecchio arnese, a giudicare da quegli sguardi che, a destra e a sinistra, si posano sulla sua faccia e sul suo corpo, insinuanti, avidi, sfacciati, insolenti, di maschi abituati a spogliare con gli occhi e con i pensieri tutte le femmine della strada. «Quarantanove anni portati in modo meraviglioso, Uri», aveva detto Dick Litney, suo collega e amico a New York, il giorno del suo compleanno, audacia che nessun uomo dell’ufficio si sarebbe permessa, come Dick quella sera, se non avesse avuto due o tre whisky in corpo. Arrossí e si confuse quando Urania lo congelò con uno di quegli sguardi flemmatici con cui da trentacinque anni affronta le galanterie, gli scherzi troppo coloriti, le spiritosaggini o le stupidate degli uomini e, a volte, delle donne.
Si ferma, per riprendere fiato. Sente che il cuore è fuori controllo, il petto si alza e si abbassa. Si trova all’incrocio tra Independencia e Máximo Gómez, in attesa tra un grappolo di uomini e donne per attraversare. Il suo naso registra una varietà di odori grande quanto gli infiniti rumori che martellano le sue orecchie: l’olio bruciato dai motori degli autobus e gettato fuori dai tubi di scappamento, scie fumose che si disfano o rimangono sospese sui pedoni; odori di grasso e di fritto, da un negozietto dove scoppiettano due padelle e che offre cibo e bevande, e quell’aroma denso, indefinibile, tropicale, di resine e di erbacce in decomposizione, di corpi sudati, un’aria impregnata di essenze animali, vegetali e umane che il sole protegge, rallentandone la dissoluzione e l’evanescenza. È un odore caldo, che tocca qualche fibra intima della sua memoria e la riporta alla sua infanzia, alle trinitarias multicolori che crescevano sospese a tetti e balconi, a questa avenida Máximo Gómez. Il Giorno delle Madri! Naturalmente. Maggio dal sole raggiante, piogge da diluvio, caldo. Le bambine scelte al Colegio Santo Domingo per portare i fiori a Mamá Julia, l’Excelsa Matrona, progenitrice del Benefattore, specchio e simbolo della madre quisqueyana1. Erano venute con un autobus dalla scuola, con le uniformi bianche immacolate, accompagnate dalla superiora e da sister Mary. Ardevi di curiosità, orgoglio, affetto e rispetto. Saresti entrata in rappresentanza della scuola a casa di Mamá Julia. Le avresti recitato la poesia Madre y maestra, Matrona Excelsa, che avevi scritto, imparato e recitato decine di volte, davanti allo specchio, davanti alle tue compagne, davanti a Lucinda e Manolita, davanti a papà, davanti alle sisters, e che avevi ripetuto in silenzio per essere certa di non dimenticare neppure una sillaba. Giunto il glorioso istante, nella grande casa rosa di Mamá Julia, stordita dai militari, dalle signore, dagli assistenti, dalle delegazioni che affollavano giardini, stanze, corridoi, sopraffatta dall’emozione, dalla tenerezza, nel fare un passo avanti, appena a un metro dalla vecchia che le sorrideva con benevolenza dalla sedia a dondolo, con il mazzo di rose che le aveva appena consegnato la superiora, le si chiuse la gola e la sua mente si bloccò. Ti sei messa a piangere. Sentivi risate, parole d’incoraggiamento, delle signore e dei signori che circondavano Mamá Julia. L’Excelsa Matrona ti fece avvicinare a lei, sorridente. Allora, Uranita si ricompose, si asciugò le lacrime, si raddrizzò e, decisa e veloce, anche se senza la giusta intonazione, recitò Madre y maestra, Matrona Excelsa, di corsa. La applaudirono. Mamá Julia le carezzò i capelli e la sua boccuccia increspata da mille rughe la baciò.
Finalmente, il semaforo cambia. Urania continua il suo cammino, protetta dal sole all’ombra degli alberi dell’avenida Máximo Gómez. Sta camminando da un’ora. È piacevole passare sotto gli allori, scoprire quegli arbusti dai piccoli fiori rossi e dal pistillo dorato, la cayena o «sangue di Cristo», assorta nei suoi pensieri, cullata dall’anarchia di voci e musiche, attenta tuttavia ai dislivelli, solchi, buche, deformazioni dei marciapiedi in cui è costantemente sul punto di inciampare, o di mettere un piede nelle immondizie annusate da cani randagi. Eri felice, allora? Quando sei andata con quel gruppo di allieve del Santo Domingo a portare i fiori e a recitare la poesia, nel Giorno delle Madri, all’Excelsa Matrona, lo eri. Anche se, da quando quella figura protettrice, bellissima, della sua infanzia, si eclissò dalla casetta di César Nicolás Penson, forse il concetto di felicità svaní anche dalla vita di Urania. Ma tuo padre e i tuoi zii – soprattutto, zia Adelina e zio Aníbal, e le cugine Lucindita e Manolita – e i vecchi amici fecero il possibile per colmare l’assenza di tua madre con moine e lusinghe, in modo che non ti sentissi sola, sminuita. Tuo padre era stato tuo padre e tua madre in quegli anni. Per questo gli avevi voluto tanto bene. Per questo avevi provato tanto dolore, Urania.
Quando arriva all’ingresso posteriore del Jaragua, una grande inferriata da dove entrano le automobili, i portieri, i cuochi, le cameriere, gli spazzini, non si ferma. Dove vai? Non ha preso nessuna decisione. Per la mente, concentrata sulla sua infanzia, sulla sua scuola, sulle domeniche in cui andava con zia Adelina e le cugine alle proiezioni per bambini del Cine Elite, non le è passata l’idea di non entrare in albergo per una doccia e per la colazione. I suoi piedi hanno deciso di proseguire. Cammina senza esitare, certa della direzione, tra pedoni e automobili impazienti a causa dei semafori. È certo che vuoi andare dove stai andando, Urania? Adesso, sai che andrai, anche se te ne dovessi pentire.
Gira a sinistra per Cervantes e procede verso l’avenida Bolívar, riconoscendo come in sogno i villini a uno o due piani, con recinzioni e giardini, terrazze scoperte e garage, che ridestano in lei un sentimento familiare, immagini preservate, deteriorate, leggermente scolorite, scheggiate, imbruttite da aggiunte e rattoppi, stanzette sovrapposte sui tetti, appiccicate ai lati, in mezzo ai giardini, per dare alloggio ai rampolli che si sposano e non possono vivere soli e vengono ad aggiungersi alle famiglie, richiedendo spazio. Incrocia lavanderie, farmacie, fiorai, caffè, targhe di dentisti, medici, commercialisti e avvocati. Per l’avenida Bolívar va come se stesse cercando di raggiungere qualcuno, come se stesse per mettersi a correre. Il cuore vuole venirle fuori dalla bocca. Da un momento all’altro, potresti svenire. All’altezza di Rosa Duarte, prende a sinistra e corre. Ma lo sforzo risulta eccessivo per lei e riprende a camminare, adesso piú lentamente, vicino al muro biancastro di una casa, se mai la vertigine si ripetesse e dovesse appoggiarsi a qualcosa per riprendere fiato. Tranne un ridicolo edificio strettissimo di quattro piani, dove si trovava la casetta con le inferriate del dottor Estanislas che l’aveva operata di tonsille, niente è cambiato; potrebbe quasi giurare che quelle domestiche che puliscono i giardini e le facciate la saluteranno: «Ciao, Uranita. Come stai, ragazza. Quanto sei cresciuta, bambina. Dove vai cosí di corsa, Santa Madre de Dios».
La casa non è neppure cambiata tanto, anche se il grigio dei suoi muri lo ricordava intenso e adesso è sbiadito, con macchie, scrostato. Il giardino si è trasformato in un groviglio di erbacce, foglie morte e gramigne secche. Nessuno deve averlo piú annaffiato né potato da anni. C’è ancora il mango. Quello era il flamboyán? Doveva esserlo, quando aveva foglie e fiori; adesso, è un tronco dai bracci pelati e rachitici.
Si china verso la porta di ferro traforato che dà sul giardino. Il vialetto di piastrelle con le erbacce nelle giunture è coperto di muffe e, nella terrazza e nel portico, c’è una sedia sfondata, con una gamba rotta. Sono scomparsi i mobili rivestiti di cretonne gialla. E anche, la lampada dell’angolo, con i vetri smerigliati, che illuminava la terrazza, attorno alla quale si concentravano le farfalle di giorno e ronzavano insetti di notte. Il balconcino della sua camera da letto non ha piú la trinitaria color malva che lo ricopriva: è una sporgenza di cemento, con macchie rugginose.
Sul fondo della terrazza, si apre una porta con un lungo gemito. Una figura femminile, racchiusa in un’uniforme bianca, la guarda con curiosità.
– Cerca qualcuno?
Urania non riesce a parlare; è cosí agitata, emozionata, spaventata. Rimane silenziosa, guardando la sconosciuta.
– Che cosa desidera? – domanda la donna.
– Io sono Urania, – dice, infine. – La figlia di Agustín Cabral.