Capitolo secondo

Si svegliò, paralizzato da una sensazione di catastrofe. Immobile, batteva le palpebre nel buio, prigioniero di una ragnatela, sul punto di essere divorato da un animale peloso pieno di occhi. Alla fine poté allungare la mano verso il comodino dove teneva la pistola e il mitra con il caricatore inserito. Ma, invece dell’arma, prese la sveglia: le quattro meno dieci. Respirò. Adesso si era proprio svegliato del tutto. Incubi, di nuovo? Aveva ancora qualche minuto, perché, maniaco della puntualità, non saltava giú dal letto prima delle quattro. Non un minuto prima né uno dopo.

«Alla disciplina devo tutto quello che sono», gli venne da pensare. E la disciplina, bussola della sua vita, la doveva ai marines. Chiuse gli occhi. Le prove, a San Pedro de Macorís, per essere ammesso nella Polizia Nazionale Dominicana che gli yanquis avevano deciso di creare al terzo anno di occupazione, furono durissime. Le superò senza difficoltà. Durante l’addestramento, metà dei candidati furono eliminati. Lui si godette ogni esercizio di agilità, slancio o resistenza, anche quelli, feroci, per mettere alla prova la volontà e l’obbedienza al superiore, nascondersi nelle fangaie con l’attrezzatura da campagna o sopravvivere sulla montagna bevendo la propria orina e masticando germogli, erbe, cavallette. Il sergente Gittleman gli diede il voto piú alto: «Andrai lontano, Trujillo». E ci era andato, sí, grazie a quella disciplina spietata, da eroi e mistici, che gli avevano insegnato i marines. Pensò con gratitudine al sergente Simon Gittleman. Un gringo leale e disinteressato, in quel paese di meschini, vampiri e coglioni. Avevano avuto gli Stati Uniti un amico piú sincero di lui, negli ultimi trentuno anni? Quale governo li aveva appoggiati di piú all’Onu? Quale era stato il primo a dichiarare guerra alla Germania e al Giappone? Quale aveva unto con piú dollari rappresentanti, senatori, governatori, sindaci, avvocati e giornalisti degli Stati Uniti? La ricompensa: le sanzioni economiche dell’Osa, per far piacere a quel negrito di Rómulo Betancourt e continuare a succhiare petrolio venezuelano. Se Johnny Abbes avesse fatto le cose meglio e la bomba gli avesse staccato la testa a quel frocio di Rómulo, non ci sarebbero sanzioni e i gringos coglioni non romperebbero con la sovranità, la democrazia e i diritti umani. Ma, allora, lui non avrebbe scoperto che, in quel paese di duecento milioni di coglioni, aveva un amico come Simon Gittleman. Capace di cominciare una campagna personale in difesa della Repubblica Dominicana, da Phoenix, Arizona, dove viveva occupandosi di affari da quando si era congedato dai marines. Senza chiedere un soldo! C’erano ancora uomini cosí, tra i marines. Senza chiedere e senza prendere! Che lezione per quelle sanguisughe del Senato e della Camera dei Rappresentanti che lui ingrassava già da tanti anni, che volevano sempre altri assegni, altre concessioni, altri decreti, altre esenzioni fiscali, e che, adesso, quando ne aveva bisogno, facevano finta di non capire.

Guardò l’orologio: ancora quattro minuti. Gringo magnifico, Simon Gittleman! Un vero marine. Aveva abbandonato i suoi affari in Arizona, indignato per l’offensiva contro Trujillo della Casa Bianca, del Venezuela e dell’Osa, e aveva bombardato la stampa nordamericana di lettere, ricordando che la Repubblica Dominicana era stata per tutta l’Era di Trujillo un baluardo dell’anticomunismo, il migliore alleato degli Stati Uniti nell’emisfero occidentale. Non contento di questo, aveva fondato – di tasca propria, cazzo! – comitati di sostegno, aveva fatto stampare pubblicazioni, aveva organizzato conferenze. E, per dare l’esempio, era venuto a Ciudad Trujillo con la famiglia e aveva preso in affitto una casa sul Malecón. A mezzogiorno Simon e Dorothy avrebbero pranzato con lui al Palacio, e l’ex marine avrebbe ricevuto l’Ordine al Merito Juan Pablo Duarte, la piú alta decorazione dominicana. Un vero marine, sissignore!

Le quattro in punto, adesso sí. Accese la lampada sul comodino, infilò le pantofole e si alzò, senza l’agilità di un tempo. Le ossa gli facevano male e sentiva indolenziti i muscoli delle gambe e della schiena, come alcuni giorni prima, nella Casa de Caoba, la maledetta notte della ragazzina insipida. Il fastidio gli fece digrignare i denti. Camminava verso la sedia, dove Sinforoso aveva preparato i suoi vestiti per sudare e le sue scarpette da ginnastica, quando un sospetto lo trattenne. Ansioso, osservò le lenzuola: l’informe macchiolina grigiastra offendeva la bianchezza del tessuto. Gli era uscito, un’altra volta. L’indignazione cancellò lo sgradevole ricordo della Casa de Caoba. Cazzo! Cazzo! Questo non era un nemico che poteva sconfiggere come le centinaia, le migliaia che aveva affrontato e vinto, nel corso degli anni, comprandoli, intimidendoli o uccidendoli. Viveva dentro di lui, carne della sua carne, sangue del suo sangue. Lo stava distruggendo proprio quando aveva bisogno di piú forza e salute che mai. La ragazzina scheletro gli aveva portato sfortuna.

Trovò immacolatamente lavati e stirati il sospensorio, i pantaloncini, la maglietta, le scarpe. Si vestí, facendo un grande sforzo. Non aveva mai avuto bisogno di molte ore di sonno; da giovane, a San Cristóbal, o quando era capo delle guardie campestri nell’ingenio Boca Chica, quattro o cinque gli bastavano, anche se aveva bevuto e tirato mattina. La sua capacità di recuperare, con un minimo di riposo, aveva contribuito alla sua aureola di essere superiore. Tutto questo era finito. Si svegliava stanco e non riusciva a dormire nemmeno quattro ore; due o tre al massimo, e assalito da incubi.

La notte precedente era rimasto sveglio, nel buio. Dalle finestre vedeva le chiome di alcuni alberi e un pezzo di cielo punteggiato di stelle. Nella notte chiara gli giungeva, a tratti, il parlottare di quelle vecchie nottambule, che recitavano poesie di Juan de Dios Peza, di Amado Nervo, di Rubén Darío (il che gli fece sospettare che vi fosse tra loro l’Inmundicia Viviente, che sapeva a memoria Darío), le Venti poesie d’amore di Pablo Neruda e le décimas piccanti di Juan Antonio Alix. E, naturalmente, i versi di doña María, scrittrice e moralista dominicana. Si mise a ridere, mentre saliva sulla cyclette e cominciava a pedalare. Sua moglie aveva finito per prendere la cosa seriamente e, di tanto in tanto, organizzava nel salone da pattinaggio dell’Estancia Radhamés veglie letterarie dove faceva venire declamatrici a recitare versi scemi. Il senatore Henry Chirinos, che si dava arie da poeta, era solito partecipare a quegli incontri ristretti, grazie ai quali alimentava la sua cirrosi a spese dell’erario. Per ingraziarsi María Martínez, quelle vecchie coglione, come lo stesso Chirinos, avevano imparato pagine delle Meditazioni morali o dialoghi dell’operetta teatrale Falsa amicizia, le recitavano e le scalmanate applaudivano. E, sua moglie – perché quella vecchia grassa e cretina, la Prestante Dama, era sua moglie, dopo tutto – aveva preso sul serio la faccenda della scrittrice e moralista. Perché no. Non lo dicevano i giornali, le radio, la televisione? Non era un libro di lettura obbligatorio nelle scuole, quel Meditazioni morali, con la prefazione del messicano José Vasconcelos, che veniva ristampato ogni due mesi? Non era stato Falsa amicizia il piú grande successo teatrale dei trentuno anni dell’Era di Trujillo? Non lo avevano esaltato i critici, i giornalisti, i professori universitari, i preti, gli intellettuali? Non gli avevano dedicato un seminario all’Instituto Trujilloniano? Non ne avevano elogiato i concetti i portatori di tonaca, i vescovi, quei corvi traditori, quei giuda, che dopo avere vissuto con i suoi soldi, anche loro, allo stesso modo degli yanquis, si erano messi a parlare di diritti umani? La Prestante Dama era scrittrice e moralista. Non grazie a lei, ma a lui, come tutto quello che accadeva in questo paese da tre decenni. Trujillo poteva trasformare l’acqua in vino e moltiplicare i pani, se gli giravano i coglioni. Lo aveva ricordato a María durante l’ultima lite: «Ti sei scordata che quelle stronzate non le hai scritte tu, che non sai nemmeno scrivere il tuo nome senza errori di grammatica, ma quel galiziano traditore di José Almoina, pagato da me. Non lo sai che cosa dice la gente? Che le iniziali di Falsa amicizia, F e A, vogliono dire: Fu Almoina». Ebbe un altro attacco di riso, sincero, allegro. Gli era scomparsa ogni amarezza. María si era messa a piangere, «Perché mi umili cosí», e lo aveva minacciato di andarsi a lamentare da Mamá Julia. Come se la sua povera madre con i suoi novantasei anni potesse essere coinvolta in pettegolezzi di famiglia. Allo stesso modo dei fratelli, sua moglie faceva sempre ricorso all’Excelsa Matrona come fazzoletto per le lacrime. Per fare la pace, dovette ungere ancora una volta. Perché era vero quello che i dominicani dicevano sotto voce: la scrittrice e moralista era una meschina, un animo pieno di taccagneria. Lo era già quando avevano cominciato a essere amanti. Ancora ragazzetta, le venne in mente la storia della lavanderia per le uniformi della Polizia Nazionale Dominicana, con cui fece i suoi primi pesos. Pedalare gli scaldò il corpo. Si sentiva in forma. Quindici minuti: abbastanza. Altri quindici di remo, prima di cominciare la battaglia del giorno.

Il vogatore si trovava in una stanza vicina, zeppa di macchine per esercizi. Cominciava a remare, quando un nitrito vibrò nella quiete dell’alba, lungo, musicale, come un giocondo elogio della vita. Da quanto tempo non montava? Mesi. Non lo aveva mai annoiato, dopo cinquant’anni continuava ad attrarlo, come il primo sorso di una coppa di brandy spagnolo Carlos I, o la prima occhiata al corpo nudo, bianco, dalle forme opulente, di una femmina desiderata. Ma gli avvelenò quell’idea il ricordo della magrolina che quel figlio di puttana era riuscito a infilargli nel letto. Lo aveva fatto immaginando l’umiliazione che avrebbe subíto? Non aveva abbastanza coglioni per questo. Lei doveva averglielo raccontato e lui si doveva essere messo a ridere a piú non posso. Ormai doveva passare amabilmente di bocca in bocca, nei baretti di El Conde. Tremò di vergogna e di rabbia, sempre remando, con regolarità. Ormai sudava. Se lo avessero visto! Un altro mito che ripetevano sempre su di lui era: «Trujillo non suda mai. Si mette nei momenti piú ardenti dell’estate quelle uniformi di panno, il tricorno di velluto e i guanti, senza che si veda sulla sua fronte il brillare del sudore». Non sudava se non voleva. Ma, nell’intimità, quando faceva gli esercizi, dava il permesso di farlo al suo corpo. Negli ultimi tempi, difficili, carichi di problemi, si era privato dei cavalli. Magari in settimana sarebbe riuscito ad andare a San Cristóbal. Avrebbe cavalcato solitario, sotto gli alberi, accanto al fiume, come un tempo, e si sarebbe sentito ringiovanire. «Neppure le braccia di una femmina sono affettuose come la groppa di un sauro».

Smise di remare quando sentí un crampo al braccio sinistro. Dopo essersi asciugato la faccia, si guardò i pantaloni, all’altezza della patta. Niente. Era ancora buio. Gli alberi e gli arbusti dei giardini dell’Estancia Radhamés erano macchie scure, sotto un cielo pulito, pieno di lucine scintillanti. Com’era quel verso di Neruda che piaceva tanto a quelle chiacchierone amiche della moralista? «Rabbrividiscono azzurri gli astri da lontano». Quelle vecchie rabbrividivano sognando che qualche poeta grattasse i loro pruriti. E avevano vicino soltanto Chirinos, quel Frankenstein. Ancora una volta si mise a ridere, cosa che raramente gli capitava di questi tempi.

Si spogliò e, in pantofole e vestaglia, andò nel bagno per radersi. Accese la radio. A La Voz Dominicana e a Radio Caribe leggevano i giornali. Fino a qualche anno prima, i bollettini cominciavano alle cinque. Ma, quando suo fratello Petán, proprietario de La Voz Dominicana, aveva saputo che lui si svegliava alle quattro, aveva anticipato il notiziario. Le altre emittenti lo avevano imitato. Sapevano che lui ascoltava la radio mentre si radeva, si lavava e si vestiva, e loro si davano da fare.

La Voz Dominicana, dopo una pubblicità dell’Albergo Ristorante El Conde, in cui si annunciava una serata danzante con Los Colosos del Ritmo, sotto la direzione del professor Gatón, e con il cantante Johnny Ventura, illustrò il Premio Julia Molina vedova Trujillo per la Madre piú Prolifica. La vincitrice, doña Alejandrina Francisco, con ventuno figli viventi, nel ricevere la medaglia con l’effigie dell’Excelsa Matrona, aveva dichiarato: «I miei ventuno figli daranno la vita per il Benefattore, se lui la chiede». «Non ti credo, cogliona».

Si era lavato i denti e adesso si stava radendo, con la minuziosa attenzione con cui lo faceva da quando era un giovincello squattrinato, a San Cristóbal. Quando non sapeva nemmeno se la sua povera madre, alla quale il paese intero rendeva omaggio per il Giorno delle Madri («Sorgente di caritatevoli sentimenti e madre dell’inclito uomo che ci governa», disse l’annunciatore), avrebbe avuto fagioli e riso da dare la sera alle otto bocche della famiglia. La pulizia, la cura del corpo e il ben vestire erano stati, per lui, l’unica religione praticata fino in fondo.

Dopo un altro lungo elenco di visitatori a casa di Mamá Julia, per renderle omaggio in occasione del Giorno delle Madri (povera vecchia, ricevere imperterrita quella carovana di scuole, associazioni, istituti, sindacati e ringraziare con la sua debole vocina per i fiori e per gli omaggi), cominciarono gli attacchi contro i vescovi Reilly e Panal, «che non sono nati sotto il nostro sole e non hanno sofferto sotto la nostra luna – (“Carina, questa”, pensò) – e si intromettono nella nostra vita civile e politica, sconfinando sul terreno del penale». Johnny Abbes sarebbe voluto entrare nel Colegio Santo Domingo e tirar fuori dal suo rifugio il vescovo yanqui. «Che cosa può succedere, Capo? I gringos protesteranno, naturalmente. Non protestano per qualunque cosa, ormai da tempo? Per Galíndez, per il pilota Murphy, per le Mirabal, per l’attentato a Betancourt e per mille altre cose. Che importa se abbaiano a Caracas, Puerto Rico, Washington, New York, La Habana. Importa quello che succede qui. Soltanto quando si metteranno paura, i preti la finiranno di cospirare». No. Non era ancora arrivato il momento di fare i conti con Reilly, né con l’altro figlio di puttana, quello spagnolo del vescovo Panal. Arriverà, pagheranno. Lui, l’istinto non lo ingannava. Non si doveva torcere un capello ai vescovi, per adesso, anche se continuavano a rompere, come stavano facendo da domenica 25 gennaio 1960 – ormai un anno e mezzo! –, quando la Lettera Pastorale dell’Episcopato era stata letta a tutte le messe, inaugurando la campagna della Chiesa cattolica contro il regime. Quei maledetti! Quei corvi! Quegli eunuchi! Fare questo a lui, decorato in Vaticano, da Pio XII, con la Gran Croce dell’Ordine Papale di San Gregorio. Da La Voz Dominicana, Paíno Pichardo ricordava, in un discorso pronunciato il giorno prima nella sua veste di segretario di Stato per l’Interno e per i Culti, che lo Stato aveva speso sessanta milioni di pesos per quella Chiesa i cui «vescovi e sacerdoti arrecano adesso tanto danno al gregge cattolico dominicano». Cambiò stazione. A Radio Caribe leggevano una lettera di protesta di centinaia di operai perché non erano state incluse le loro firme nel Grande Manifesto Nazionale «contro le macchinazioni perturbatrici del vescovo Tomás Reilly, traditore contro Dio e contro Trujillo e contro la sua condizione di uomo, che, anziché rimanere nella sua diocesi di San Juan de la Maguana, è corso, come un topo spaventato, a nascondersi a Ciudad Trujillo tra le gonne delle suore nordamericane del Colegio Santo Domingo, covatoio del terrorismo e della cospirazione». Quando sentí che il Ministero dell’Istruzione aveva revocato la licenza ufficiale al Colegio Santo Domingo, per «collusione di quelle suore straniere con gli intrighi terroristi dei porporati di San Juan de la Maguana e de La Vega contro lo Stato», tornò a La Voz Dominicana, in tempo per sentir annunciare dallo speaker un’altra vittoria della squadra dominicana di polo, a Parigi, dove, «sull’elegante campo di Bagatelle, dopo aver sconfitto i Leopards per cinque a quattro, ha conquistato la Coppa Aperture, entusiasmando il competente pubblico». Ramfis e Radhamés, i giocatori piú applauditi. Una bugia, per abbindolare i dominicani. E lui. Sentí alla bocca dello stomaco l’acidità che lo prendeva ogni volta che pensava ai figli, quei falliti di successo, quelle delusioni. Giocavano a polo a Parigi e si facevano le francesi, mentre il loro padre stava conducendo la piú dura battaglia della sua vita!

Si risciacquò la faccia. Il sangue gli diventava aceto quando pensava ai figli. Dio mio, non era lui ad aver sbagliato. La sua razza era sana, uno stallone riproduttore di grande statura. Stavano lí a dimostrarlo i figli che il suo seme aveva procreato in altri ventri, quello di Lina Lovatón senza andare troppo lontano, robusti, energici, che meritavano mille volte di occupare il posto di quei due scrocconi, di quelle nullità con i nomi da personaggi d’opera. Perché aveva accettato che la Prestante Dama mettesse ai suoi figli nomi presi dall’Aida, quell’opera che aveva visto controvoglia a New York? Quei nomi avevano portato sfortuna; avevano fatto di loro dei pagliacci da operetta, anziché uomini vigorosi. Scioperati, fannulloni senza carattere né ambizione, buoni solo per la baldoria. Erano venuti uguali ai suoi fratelli, non a lui. Erano inutili come Negro, Petán, Pipí, Aníbal, quella caterva di farabutti, parassiti, scrocconi e poveri diavoli che erano i suoi fratelli. Nessuno aveva preso nemmeno la milionesima parte della sua energia, della sua volontà, della sua intelligenza. Che cosa ne sarebbe stato del paese quando lui fosse morto? Certo Ramfis non era nemmeno cosí bravo a letto come voleva la fama che gli adulatori gli avevano appiccicato. Si era sbattuto Kim Novak! Si era sbattuto Zsa Zsa Gabor! Aveva castigato Debra Paget e mezza Hollywood! Bello sforzo. A furia di regalare Mercedes Benz, Cadillac e pellicce di visone, perfino quel matto di Valeriano si sarebbe sbattuto Miss Universo e Elizabeth Taylor. Povero Ramfis. Lui aveva il sospetto che le donne non dovevano nemmeno piacergli tanto. Gli piacevano le apparenze, che dicessero che era il miglior montatore di questo paese, migliore anche di Porfirio Rubirosa, il dominicano famoso nel mondo per le dimensioni della verga e per le sue prodezze da montone internazionale. Giocava a polo anche lui con i suoi figli a Bagatelle, il Grande Stupratore? La simpatia che provava per Porfirio da quando aveva fatto parte del suo corpo di assistenti militari, sentimento che rimase nonostante il fallimento del matrimonio con la sua figlia maggiore, Flor de Oro, fece migliorare il suo umore. Porfirio era un uomo con delle ambizioni e si era sbattuto grandi femmine, dalla francese Danielle Darrieux alla miliardaria Barbara Hutton, senza regalare loro nemmeno un mazzo di fiori, piuttosto spremendole, arricchendosi a loro spese.

Riempí la vasca di sali e di bolle e vi si sprofondò con l’intensa soddisfazione di ogni mattina. Porfirio si era dato sempre alla bella vita. Il suo matrimonio con Barbara Hutton durò un mese, il tempo indispensabile per portarle via un milione di dollari in contanti e un altro in proprietà. Se Ramfis o Radhamés fossero stati almeno come Porfirio! Quello scopatore vivente trasudava ambizione. E, come tutti i vincenti, aveva nemici. Gli riferivano pettegolezzi di continuo, gli consigliavano di togliere Rubirosa dalla carriera diplomatica perché i suoi scandali macchiavano l’immagine del paese. Invidiosi. Quale migliore propaganda per la Repubblica Dominicana di uno scopatore cosí. Sin da quando era sposato con Flor de Oro avrebbero voluto che facesse fuori il mulatto fornicatore che aveva sedotto sua figlia, conquistandosi la sua ammirazione. Non lo avrebbe fatto. Lui conosceva i traditori, li fiutava ancor prima che sapessero che avrebbero tradito. Per questo era ancora vivo e tanti giuda marcivano a La Cuarenta, La Victoria, all’isola Beata, nelle pance degli squali o ingrassavano i vermi della terra dominicana. Povero Ramfis, povero Radhamés. Meno male che Angelita aveva un po’ di carattere e rimaneva accanto a lui.

Uscí dalla vasca e passò sotto il getto violento della doccia. Il contrasto tra l’acqua calda e quella fredda lo rianimò. Adesso sí che si sentiva bene. Mentre si metteva il deodorante e il talco prestò attenzione a Radio Caribe, che esprimeva le idee e le parole d’ordine del «malvagio intelligente», come chiamava Johnny Abbes quando era di buonumore.

Andava giú duro contro «il topo di Miraflores», «il rifiuto venezuelano», e l’annunciatore, facendo la voce adatta a parlare di una checca, affermava che, oltre ad aver affamato il popolo venezuelano, il Presidente Rómulo Betancourt portava rogna al Venezuela, forse non si era appena schiantato un altro aereo della Línea Aeropostal Venezolana con un bilancio di sessantadue morti? Quella brutta checca non l’avrebbe spuntata. Aveva ottenuto che l’Osa gli imponesse le sanzioni, ma ride bene chi ride ultimo. Né il topo del palazzo di Miraflores, né Muñoz Marín, il narcomane di Puerto Rico, né il pistolero costaricano Figueres, lo preoccupavano. La Chiesa, sí. Perón lo aveva avvisato, partendo da Ciudad Trujillo, alla volta della Spagna: «Attento ai preti, Generalissimo. Non è stata la corte degli oligarchi né i militari a buttarmi giú; sono state le tonache. Si metta d’accordo con loro o li faccia fuori una volta per sempre». Lui non lo avrebbero buttato giú. Rompevano, questo sí. Da quel nero 25 gennaio 1960, era un anno e quattro mesi esatti, non avevano smesso di rompere nemmeno per un giorno. Lettere, memoriali, messe, novene, sermoni. Tutto ciò che la canaglia in tonaca faceva e diceva contro di lui rimbalzava all’estero, e i giornali, le radio e le televisioni parlavano dell’imminente caduta di Trujillo, adesso che «la Chiesa gli aveva voltato le spalle».

S’infilò le mutande, la maglietta e le calze, che Sinforoso aveva piegato la sera prima, vicino all’armadio, accanto all’attaccapanni dove faceva bella mostra di sé il vestito grigio, insieme alla camicia bianca e alla cravatta azzurra a pois che avrebbe indossato quella mattina. A che cosa dedicava i suoi giorni e le sue notti il vescovo Reilly nel Santo Domingo? A farsi qualche suora? Erano orrende, certe avevano peli sulla faccia. Lui se lo ricordava, Angelita aveva studiato in quella scuola, quella della gente per bene. Le sue nipotine anche. Come lo avevano adulato quelle suore, fino alla Lettera Pastorale. Forse Johnny Abbes aveva ragione ed era ora di agire. Visto che i manifesti, gli articoli, le proteste delle radio e della televisione, delle istituzioni, del Congresso, non li facevano ravvedere, bisognava colpire. Era stato il popolo ad agire! Travolgendo le guardie messe lí a proteggere i vescovi stranieri, facendo irruzione nel Santo Domingo e nel vescovado de La Vega, trascinando fuori per i capelli il gringo Reilly e lo spagnolo Panal, e li aveva linciati. Vendicando l’affronto alla patria. Sarebbero state inviate condoglianze e scuse al Vaticano, al Santo Padre Giovanni Coglione – Balaguer era un maestro a scriverne – e sarebbe stato punito in modo esemplare un pugno di colpevoli, scelti tra delinquenti comuni. Si sarebbero ravveduti gli altri corvi, vedendo i cadaveri dei vescovi fatti a pezzi dall’ira popolare? No, non era il momento. Tutto tranne che dare un pretesto a Kennedy per fare contenti Betancourt, Muñoz Marín e Figueres, e ordinare uno sbarco. Tenere la testa a posto e procedere con cautela, come un marine.

Ma ciò che la ragione gli dettava non convinceva le sue ghiandole. Dovette smettere di vestirsi, accecato. La rabbia gli saliva per tutti i meandri del corpo, fiume di lava che gli si arrampicava fino al cervello, e questo sembrava crepitare. Con gli occhi chiusi, contò fino a dieci. La rabbia non faceva bene né al governo né al suo cuore, lo avvicinava all’infarto. L’altra sera, nella Casa de Caoba, la rabbia lo aveva portato sull’orlo della sincope. Si calmò. Aveva sempre saputo controllarla, quando ce n’era stato bisogno: fingere, mostrarsi cordiale, affettuoso, con le peggiori mondezze umane, quelle vedove, quei figli o fratelli dei traditori, se era necessario. Per questo stava per compiere trentadue anni in cui aveva sempre portato sulle proprie spalle il peso di un paese.

Era impegnato nella complicata incombenza di agganciare le calze alle giarrettiere, in modo che non formassero pieghe. Adesso, com’era gradevole dare libero corso alla rabbia quando in questo non c’era nessun rischio per lo Stato, quando poteva dare quello che si meritavano ai topi, ai rospi, alle iene e ai serpenti. I ventri degli squali erano testimoni di come non si fosse privato di questo piacere. Non c’era, lí in Messico, il cadavere del perfido spagnolo José Almoina? E quello del basco Jesús de Galíndez, altra serpe che pungeva la mano in cui mangiava? E quello di Ramón Marrero Aristy, che aveva creduto, essendo uno scrittore famoso, di poter dare informazioni al «New York Times» contro il governo che gli pagava le sbronze, la stampa dei suoi libri e le puttane? E quelli delle tre sorelline Mirabal, che giocavano a fare le comuniste e le eroine, non erano forse lí, a testimoniare che quando lui lasciava libero corso alla rabbia non c’era diga che potesse trattenerla? Perfino Valeriano e Barajita, i matti di El Conde, potevano fare fede su questo punto.

Rimase con una scarpa a mezz’aria, ricordando la celeberrima coppietta. Una vera e propria istituzione nella ciudad colonial. Stavano fermi sotto gli allori del parco Colón, tra gli archi della cattedrale, e, nell’ora di maggiore afflusso, apparivano alle porte degli eleganti negozi di scarpe e delle gioiellerie di El Conde, per fare il loro numero da matti in modo che la gente desse loro una moneta o qualcosa da mangiare. Lui aveva visto molte volte Valeriano e Barajita, con i loro stracci e i loro assurdi ornamenti. Quando Valeriano si credeva Cristo, trascinava una croce, quando Napoleone, brandiva il suo manico di scopa, ruggiva ordini e caricava il nemico. Un calié di Johnny Abbes informò che il matto Valeriano si era messo a prendere in giro il Capo, chiamandolo Chapita. Si era incuriosito. Lo era andato a spiare, da un’auto con i vetri oscurati. Il vecchio, con il petto pieno di specchietti e di tappi di birra, si pavoneggiava, esibendo le sue medaglie con aria da pagliaccio, di fronte a un capannello di gente spaventata, che non sapeva se ridere o scappar via. «Applaudite Chapita, coglioni», gridava Barajita, indicando il petto rilucente del matto. Lui aveva sentito, allora, qualcosa di incandescente correre per il suo corpo, accecarlo, spingerlo a punire quell’insolente. Aveva dato l’ordine, immediatamente. Ma, la mattina dopo, pensando che, in fin dei conti, i matti non sanno quello che fanno, e che, anziché punire Valeriano, bisognava prendersela con quegli spiritosi che avevano incoraggiato la coppia, ordinò a Johnny Abbes, in un’alba scura come quella: «I matti sono matti. Lasciali andare». Il capo del Servicio de Inteligencia Militar fece una faccia di circostanza: «Troppo tardi, Eccellenza. Li abbiamo gettati agli squali ieri stesso. Vivi, come lei aveva comandato».

Si alzò, con le scarpe ormai ai piedi. Uno statista non si pente delle proprie decisioni. Lui non si era mai pentito di niente. Quei due vescovi li avrebbe buttati vivi agli squali. Iniziò la fase dei preparativi di ogni mattina che compiva con vero piacere, ricordando un romanzo che aveva letto da giovane, l’unico che aveva sempre presente: Quo vadis? Una storia di romani e cristiani, di cui non dimenticò mai l’immagine del raffinato e ricchissimo Petronio, Arbitro di eleganza, che resuscitava ogni mattina grazie ai massaggi e alle abluzioni, agli unguenti, alle essenze, ai profumi e alle carezze delle sue schiave. Se ne avesse avuto il tempo, avrebbe fatto come l’Arbitro: tutta la mattina tra le mani di massaggiatrici, pedicure, manicure, parrucchieri, allenatori di nuoto, dopo gli esercizi per ridestare i muscoli e attivare il cuore. Si concedeva un massaggio breve a mezzogiorno, dopo aver mangiato, e, con piú calma, di domenica, quando poteva sottrarre due o tre ore agli onerosi impegni. Ma non era il tempo di rilassarsi con le sensualità del grande Petronio. Doveva accontentarsi di quei dieci minuti in cui si metteva il profumato deodorante Yardley che gli mandava da New York Manuel Alfonso – povero Manuel, chissà come stava, dopo l’operazione –, e la delicata crema idratante francese per la pelle Bienfait du Matin, e l’acqua di colonia, sempre Yardley, con una lieve fragranza di campo di mais con la quale si frizionò il petto. Quando si fu pettinato ed ebbe ritoccato le estremità dei baffetti quasi a mosca che portava da vent’anni, si diede del talco sul viso con calma, fino a nascondere sotto una delicatissima nuvola biancastra quel colorito scuro dei suoi ascendenti materni, i negri haitiani, che aveva sempre disprezzato nelle pelli altrui e nella sua.

Era vestito, con giacca e cravatta, alle cinque meno sei minuti. Lo verificò con soddisfazione: non andava mai oltre quell’ora. Era una delle sue superstizioni; se non entrava nel suo ufficio alle cinque in punto, qualcosa di brutto sarebbe successo durante il giorno.

Si avvicinò alla finestra. Era ancora buio, come se fosse mezzanotte. Ma riusciva a vedere meno stelle che un’ora prima. Brillavano intimidite. Tra poco sarebbe spuntato il giorno e presto sarebbero scomparse. Prese un bastone e andò verso la porta. Appena l’ebbe aperta, sentí i tacchi dei due assistenti militari:

– Buongiorno, Eccellenza.

– Buongiorno, Eccellenza.

Rispose loro con un cenno del capo. Con un’occhiata, verificò che le loro uniformi fossero a posto. Non ammetteva la trascuratezza, il disordine per nessun ufficiale o soldato semplice delle Forze Armate, ma, tra gli assistenti, il corpo incaricato della sua custodia, un bottone mancante, una macchia o una piega sui pantaloni o sulla giubba, un chepí mal calzato, erano mancanze gravissime, che venivano punite con diversi giorni di rigore e, a volte, con l’espulsione e il ritorno ai battaglioni regolari.

Una leggera brezza muoveva gli alberi dell’Estancia Radhamés, mentre li attraversava, ascoltando il sussurrare delle foglie, e, nella stalla, di nuovo il nitrito di un cavallo. Johnny Abbes, rapporto sull’andamento della campagna, visita alla Base Aerea di San Isidro, rapporto di Chirinos, pranzo con il marine, tre o quattro udienze, incontro con il segretario di Stato per l’Interno e per i Culti, incontro con Balaguer, incontro con Cucho Álvarez Pina, il presidente del Partido Dominicano, e passeggiata per il Malecón, dopo aver salutato Mamá Julia. Sarebbe andato a dormire a San Cristóbal, a togliersi il sapore amaro dell’altra notte?

Entrò nel suo ufficio, nel Palacio Nacional, quando il suo orologio segnava le cinque. Sulla scrivania c’era la colazione – succo di frutta, pane tostato e imburrato, caffè appena fatto –, con due tazze. E, che si alzava in piedi, la sagoma ciondolante del direttore del Servicio de Inteligencia, il colonnello Johnny Abbes García:

– Buongiorno, Eccellenza.