– Non verrà, – esclamò, a un tratto, Salvador. – Un’altra notte persa, vedrete.
– Verrà, – rispose immediatamente Amadito, con impazienza. – Si è messo l’uniforme verde oliva. Gli assistenti militari hanno ricevuto l’ordine di tenere pronta la Chevrolet azzurra. Perché non mi credete? Verrà.
Salvador e Amadito occupavano i sedili posteriori dell’auto parcheggiata di fronte al Malecón e avevano detto quelle stesse frasi un paio di volte, nella mezz’ora che erano stati là. Antonio Imbert, al volante, e Antonio de la Maza accanto a lui, il gomito sul finestrino, non fecero nessun commento neppure questa volta. Quei quattro guardavano con ansia i rari veicoli di Ciudad Trujillo che passavano davanti a loro, forando il buio con i fari gialli, in direzione di San Cristóbal. Nessuno di essi era la Chevrolet azzurro cielo, modello 1957, con le tendine ai vetri, che aspettavano.
Si trovavano a qualche centinaio di metri dalla Feria Ganadera, dove c’erano diversi ristoranti – il Pony, quello piú popolare, doveva essere pieno di gente che mangiava carne alla griglia – e un paio di bar con musica, ma il vento soffiava verso oriente e a loro non arrivavano rumori da lí, anche se vedevano le luci, tra tronchi e chiome di palme, in lontananza. Invece, il fragore delle onde che si rompevano contro il faraglione e lo schiocco della risacca erano cosí forti che dovevano alzare molto la voce per sentirsi tra loro. L’automobile, con le portiere chiuse e le luci spente, era pronta per muoversi.
– Vi ricordate quando è diventato di moda venire su questo Malecón a prendere il fresco, senza avere a che fare con i caliés? – Antonio Imbert sporse la testa fuori dal finestrino per aspirare a pieni polmoni la brezza notturna. – È qui che abbiamo cominciato a parlare sul serio di questa faccenda.
Nessuno dei suoi amici gli rispose subito, come se stessero consultando la loro memoria, o non avessero prestato attenzione a quello che diceva.
– Sí, qui, sul Malecón, sei mesi fa, – disse Estrella Sadhalá, dopo un po’.
– È stato prima, – sussurrò Antonio de la Maza, senza girarsi. – Quando hanno ammazzato le Mirabal, a novembre, abbiamo commentato il delitto proprio qui. Di questo sono certo. Ed era già un po’ di tempo che venivamo al Malecón, di sera.
– Sembrava un sogno, – divagò Imbert. – Difficile, lontanissimo. Come quando, da ragazzo, uno si mette a fantasticare che diventerà un eroe, un esploratore, un attore del cinema. Ancora non riesco a crederci che sarà questa sera, cazzo.
– Sempre che venga, – borbottò Salvador.
– Scommetto quello che vuoi, Turco, – ripeté Amadito, con fermezza.
– Quello che mi fa dubitare è che oggi è martedí, – disse come in un grugnito Antonio de la Maza. – A San Cristóbal ci va sempre di mercoledí, tu che sei nel corpo degli assistenti lo sai meglio di chiunque altro, Amadito. Perché ha cambiato giorno?
– Non so il perché, – insistette il tenente. – Ma ci andrà. Si è messo l’uniforme verde oliva. Ha ordinato la Chevrolet azzurra. Ci andrà.
– Avrà un bel culo che lo aspetta alla Casa de Caoba, – disse Antonio Imbert. – Uno nuovo nuovo, ancora da aprire.
– Se non ti dispiace, parliamo d’altro, – lo interruppe Salvador.
– Mi scordo sempre che di fronte a uno di chiesa come te non si può parlare di culi, – si scusò l’uomo che era al volante. – Diciamo che ha un certo programma da sbrigare a San Cristóbal. Posso dire cosí, Turco? O anche questo offende le tue orecchie apostoliche?
Ma nessuno aveva voglia di scherzare. Neppure lo stesso Imbert; parlava per colmare in qualche modo l’attesa.
– Attenzione, – esclamò de la Maza, sporgendo in avanti la testa.
– È un camion, – replicò Salvador, con una semplice occhiata ai fari giallastri che si avvicinavano. – Non sono un santo né un fanatico, Antonio. Soltanto uno che pratica la propria fede, nient’altro. E, dopo la Lettera Pastorale dei vescovi del 31 gennaio scorso, orgoglioso di essere cattolico.
In effetti, era un camion. Passò ruggendo e sballottando un alto carico di scatoloni legati con delle funi; il suo ruggito si andò spegnendo, fino a scomparire.
– E un cattolico non può parlare di fica ma può ammazzare, Turco? – lo provocò Imbert. Lo faceva spesso: lui e Salvador Estrella Sadhalá erano gli amici piú intimi di tutto il gruppo; passavano il tempo a scambiarsi battute, a volte cosí pesanti che quelli che assistevano credevano che sarebbe finita a botte. Ma non avevano mai litigato, la loro fratellanza era infrangibile. Quella sera, però, il Turco non mostrava nemmeno un barlume di senso dell’umorismo:
– Ammazzare chiunque, no. Farla finita con un tiranno, sí. Hai mai sentito la parola tirannicidio? In casi estremi, la Chiesa lo consente. Lo ha scritto san Tommaso d’Aquino. Vuoi sapere come mai lo so? Quando ho cominciato a dare una mano a quelli del 14 de Junio e ho capito che una volta o l’altra avrei dovuto premere il grilletto, sono andato a parlarne con il nostro direttore spirituale, padre Fortín. Un sacerdote canadese, che stava a Santiago. Lui mi ha fatto avere un’udienza da monsignor Lino Zanini, il nunzio di Sua Santità. «Sarebbe peccato per un credente uccidere Trujillo, monsignore?» Chiuse gli occhi, rifletté. Ti potrei ripetere le sue parole, con il suo accento italiano. Mi ha fatto vedere la citazione da san Tommaso, nella Summa teologica. Se non l’avessi letta, non sarei qui stasera, con voi.
Antonio de la Maza si era girato per guardarlo:
– Ne hai parlato con il tuo direttore spirituale?
Aveva la voce alterata. Il tenente Amado García Guerrero temette che stesse per scoppiare uno di quegli alterchi a cui de la Maza era incline da quando Trujillo aveva fatto assassinare suo fratello Octavio, qualche anno prima. Un alterco come quello che era stato sul punto di rompere l’amicizia che lo univa a Salvador Estrella Sadhalá. Fu proprio quest’ultimo a tranquillizzarlo:
– È passato molto tempo, Antonio. Quando ho cominciato a dare una mano a quelli del 14 de Junio. Mi credi cosí coglione da confidare a un povero prete una cosa del genere?
– Spiegami perché puoi dire coglione e non culo, fica e scopare, Turco, – lo prese in giro Imbert, cercando ancora una volta di far allentare la tensione. – Non offendono Dio tutte le parolacce?
– Dio non lo offendono le parolacce ma i pensieri osceni, – si rassegnò il Turco a dargli retta. – I coglioni che domandano coglionate magari non lo offendono. Ma devono annoiarlo moltissimo.
– Hai fatto la comunione questa mattina per arrivare al grande evento con l’anima in regola con i sacramenti? – continuò ad aizzarlo Imbert.
– Mi comunico tutti i giorni, da dieci anni, – assentí Salvador. – Non so se ho l’anima come deve averla un cristiano. Soltanto Dio lo sa.
«Ce l’hai», pensò Amadito. Tra tutte le persone che aveva conosciuto nei suoi trentuno anni di vita, il Turco era quella che ammirava di piú. Era sposato con Urania Mieses, una zia di Amadito alla quale lui voleva molto bene. Da quando era cadetto all’Accademia Militare Batalla de Las Carreras, che era diretta dal colonnello José León Estévez (Pechito), marito di Angelita Trujillo, aveva l’abitudine di passare i suoi giorni di libera uscita in casa degli Estrella Sadhalá. Salvador era diventato importante nella sua vita; gli confidava i suoi problemi, le sue inquietudini, i suoi sogni, i suoi dubbi, e gli chiedeva consiglio prima di qualunque decisione. Gli Estrella Sadhalá avevano organizzato la festa per celebrare la nomina di Amadito a spada d’onore – il primo in un gruppo di trentacinque ufficiali! –, cui avevano assistito le sue undici prozie materne, e, qualche anno dopo, anche, quella che il giovane tenente credette essere la migliore notizia che avesse mai ricevuto: l’accoglimento della sua richiesta per entrare nell’unità piú prestigiosa delle Forze Armate, gli assistenti militari, incaricati della custodia personale del Generalissimo.
Amadito chiuse gli occhi e respirò la brezza salata che entrava dai quattro finestrini aperti. Imbert, il Turco e Antonio de la Maza rimasero in silenzio. Imbert e de la Maza li aveva conosciuti nella casa di calle Mahatma Gandhi, e la sorte aveva voluto che fosse testimone della lite tra il Turco e Antonio, tanto violenta che lui ormai si aspettava che si mettessero a sparare e, qualche mese dopo, della riconciliazione di Antonio e Salvador in vista di uno stesso proposito: ammazzare il Chivo. Chi gli avrebbe mai detto ad Amadito, in quel giorno del 1959, quando Urania e Salvador gli avevano preparato la festa in cui avevano bevuto tutte quelle bottiglie di ron, che nemmeno due anni dopo sarebbe stato, in quella sera tiepida e stellata di martedí 30 maggio 1961, ad aspettare addirittura Trujillo in persona per ammazzarlo. Quante cose erano successe da quel giorno in cui, poco dopo essere arrivato a Mahatma Gandhi 21, Salvador lo aveva preso sottobraccio e lo aveva portato nell’angolo piú appartato del giardino, con aria seria.
– Ti devo dire qualche cosa, Amadito. In nome dell’affetto che ho per te. Che tutti abbiamo per te in questa casa.
Parlava cosí piano che il giovane spinse la testa in avanti per riuscire a sentirlo.
– Ma che c’entra tutto questo, Salvador?
– È che non voglio mettere a rischio la tua carriera. Venendo qui, potrai avere dei problemi.
– Che tipo di problemi?
L’espressione del Turco, quasi sempre calma, si contrasse. Una luce allarmata spuntò nei suoi occhi.
– Sto collaborando con i ragazzi del 14 de Junio. Se lo scoprono, sarebbe gravissimo per te. Un ufficiale del corpo degli assistenti militari di Trujillo. Te lo immagini?
Il tenente non avrebbe mai pensato a Salvador come a un cospiratore clandestino, impegnato ad aiutare le persone che si erano organizzate per lottare contro Trujillo dopo l’invasione castrista del 14 giugno, a Constanza, Maimón e Estero Hondo, che era costata cosí tante vite. Sapeva che il Turco detestava il regime e, sebbene Salvador e sua moglie si controllassero di fronte a lui, alcune volte si erano lasciati sfuggire espressioni contro il governo. Tacevano immediatamente, perché sapevano che Amadito, sebbene non si interessasse di politica, professava, come ogni ufficiale dell’Esercito, una lealtà da cane, viscerale, nei confronti del Capo Massimo, del Benefattore e Padre della Patria Nuova, che da tre decenni presiedeva ai destini, e alle vite e alle morti dei dominicani.
– Non una parola di piú, Salvador. Mi hai detto ciò che dovevi. E io l’ho sentito. E ho già dimenticato quello che ho sentito. Continuerò a venire qui, come sempre. Questa è la mia casa.
Salvador lo guardò con quello sguardo pulito, che ad Amadito contagiava una sensazione gratificante della vita.
– Andiamoci a fare una birra, allora. Non dobbiamo diventare tristi.
E, naturalmente, le prime persone cui presentò la sua fidanzata, quando si innamorò e cominciò a pensare di sposarsi, furono, dopo la prozia Meca – la sua preferita tra le undici sorelle della madre –, Salvador e Urania. Luisita Gil! Ogni volta che la ricordava, il rimorso gli torceva le budella e la collera lo travolgeva. Prese una sigaretta e se la mise in bocca. Salvador gliel’accese con il suo accendino. La bella brunetta, la graziosa, la civettuola Luisita Gil. Dopo una esercitazione, era andato con due compagni a fare un giro su una barchetta a vela, a La Romana. Sull’imbarcadero, due ragazze compravano pesce fresco. Attaccarono discorso con loro e andarono insieme ad ascoltare la banda municipale che suonava. Le ragazze li invitarono a un matrimonio. Soltanto Amadito poté andare, perché aveva il giorno di libertà, i suoi compagni dovettero tornare in caserma. S’innamorò come un pazzo di quella brunetta snella e spiritosa, che ballava il merengue come una vedette de La Voz Dominicana. E lei di lui. Alla seconda uscita, prima al cinema e poi in una boîte, poté baciarla e carezzarla. Era la donna della sua vita, non avrebbe mai potuto stare con nessun’altra. L’elegante Amadito aveva detto queste cose a molte donne sin dai suoi giorni da cadetto, ma questa volta le diceva per davvero. Luisa lo portò a conoscere la famiglia, a La Romana, e lui la invitò a pranzo da zia Meca, a Ciudad Trujillo e, una domenica, dagli Estrella Sadhalá: rimasero entusiasti di Luisa. Quando disse loro che pensava di chiederla in sposa, lo incoraggiarono: era una meraviglia di donna. Amadito la chiese formalmente in moglie ai genitori. Secondo il regolamento, domandò l’autorizzazione per sposarsi al comando degli assistenti militari.
Fu il suo primo impatto con una realtà che fino ad allora, nonostante i suoi ventinove anni, i suoi eccellenti voti, il suo magnifico fascicolo di cadetto e di ufficiale, ignorava totalmente. («Come la maggior parte dei dominicani», pensò). La risposta alla sua domanda di autorizzazione tardava. Gli spiegarono che il corpo degli assistenti l’aveva passata al Sim, affinché indagasse sulla persona. Nel giro di una settimana o dieci giorni avrebbe ottenuto il benestare. Ma la risposta non arrivò neppure allo scadere dei dieci giorni, né di quindici né di venti. Il ventunesimo giorno, il Capo lo convocò nel suo studio. Fu l’unica volta che scambiò qualche parola con il Benefattore, nonostante gli fosse stato vicino tante volte, in occasioni pubbliche, la prima in cui quell’uomo che vedeva tutti i giorni nell’Estancia Radhamés aveva posato lo sguardo su di lui.
Il tenente García Guerrero aveva sentito parlare sin da bambino, in famiglia – soprattutto da suo nonno, il generale Hermógenes García –, a scuola e, piú tardi, da cadetto e da ufficiale, dello sguardo di Trujillo. Uno sguardo al quale nessuno poteva resistere senza abbassare gli occhi, intimidito, annullato dalla forza che promanava da quelle pupille taglienti, che sembrava leggere i pensieri piú segreti, i desideri e gli appetiti occulti, che faceva sentire nude le persone. Amadito se la rideva di tanta piaggeria. Il Capo era un grande statista, la cui intelligenza, la cui volontà e la cui capacità di lavoro avevano fatto della Repubblica Dominicana un grande paese. Ma non era certo Dio. Il suo sguardo poteva essere soltanto lo sguardo di un mortale.
Gli bastò entrare nello studio, battere i tacchi e annunciarsi con la voce piú marziale che poté far uscire dalla gola – «Sottotenente García Guerrero, agli ordini, Eccellenza!» – per sentirsi elettrizzato. «Avanti», disse la voce acuta dell’uomo che, seduto all’altra estremità della stanza, di fronte a una scrivania rivestita di cuoio rosso, scriveva e non sollevò il capo. Il giovane fece qualche passo e poi rimase fermo, senza muovere un muscolo e senza pensare, vedendo i capelli grigi pettinati con cura e l’impeccabile abbigliamento – giacca e gilè azzurri, camicia bianca dal colletto immacolato e con i polsini inamidati, cravatta argentea fermata da una perla – e le sue mani, trattenere un foglio di carta che l’altra ricopriva di tratti rapidi, di inchiostro azzurro. Alla sinistra, riuscí a vedere l’anello con la pietra preziosa cangiante il quale, secondo i superstiziosi, era un amuleto che, da giovane, quando, come membro della Guardia Stabularia, inseguiva i gavilleros1 in rivolta contro l’occupante militare nordamericano, gli aveva dato uno stregone haitiano, assicurandogli che fino a quando non se lo fosse tolto sarebbe stato invulnerabile per il nemico.
– Un buon foglio di servizio, tenente, – sentí che diceva.
– Molte grazie, Eccellenza.
La testa argentata si mosse e quegli occhi grandi e fissi, senza splendore e senza umori, cercarono i suoi. «Io non ho mai avuto paura in vita mia, – confessò poi il ragazzo a Salvador. – Fino a quando non mi è caduto addosso quello sguardo, Turco. È la verità. Come se mi stesse rovistando nella coscienza». Ci fu un lungo silenzio mentre quegli occhi esaminavano la sua uniforme, la sua bandoliera, i suoi bottoni, la sua cravatta, il suo chepí. Amadito cominciò a sudare. Sapeva che la minima trascuratezza negli indumenti suscitava nel Capo un fastidio tale che poteva sfociare in violenti rimbrotti.
– Quel foglio di servizio cosí buono non può macchiarlo sposandosi con la sorella di un comunista. Nel mio governo non vanno insieme amici e nemici.
Parlava con calma, senza togliergli di dosso lo sguardo perforante. Pensò che da un momento all’altro la vocetta stridente avrebbe preso una stecca.
– Il fratello di Luisa Gil è uno di quei sovversivi del 14 de Junio. Lo sapeva?
– No, Eccellenza.
– Adesso lo sa, – si schiarí la gola e, senza cambiare tono, aggiunse: – Ci sono molte donne in questo paese. Se ne cerchi un’altra.
– Sí, Eccellenza.
Lo vide fare un cenno di assenso, per indicare che l’incontro era concluso.
– Chiedo il permesso di ritirarmi, Eccellenza.
Batté i tacchi e salutò. Uscí con passo marziale, celando l’inquietudine che l’aveva preso. Un militare obbediva agli ordini, soprattutto se venivano dal Benefattore e Padre della Patria Nuova, che aveva sottratto alcuni minuti al suo tempo per parlargli personalmente. Se aveva dato quell’ordine a lui, ufficiale privilegiato, era per il suo stesso bene. Doveva obbedire. Lo fece, stringendo i denti. La sua lettera a Luisa Gil non conteneva una sola parola che non corrispondesse alla verità: «Con grande dolore, e malgrado per questo soffrano i miei sensi, devo rinunciare al mio amore per te, e annunciarti sconsolato che non possiamo sposarci. Me lo proibiscono i miei superiori, a causa delle attività antitrujilliste di tuo fratello, cosa che mi avevi tenuto nascosta. Capisco perché tu lo abbia fatto. Ma, proprio per questo, spero che anche tu capisca la difficile decisione che mi vedo costretto a prendere, contro la mia volontà. Anche se ti ricorderò sempre con amore, non ci rivedremo mai piú. Ti auguro fortuna nella vita. Non portarmi rancore».
Lo aveva perdonato la bella, la allegra, la snella ragazza de La Romana? Anche se non l’aveva rivista, non era riuscito a rimpiazzarla nel suo cuore. Luisa aveva sposato un agiato agricoltore di Puerto Plata. Ma, se lei magari aveva finito per perdonargli quella rottura, non gli avrebbe mai perdonato il resto, se mai lo avesse saputo. Neppure lui se lo sarebbe perdonato mai. Anche se, tra qualche momento, avrebbe avuto ai propri piedi il cadavere del Chivo crivellato di pallottole – in quegli occhi freddi da iguana avrebbe voluto scaricare i colpi della sua pistola – non se lo sarebbe comunque perdonato. «Questo, almeno, Luisa non lo saprà mai». Né lei né nessun altro, tranne quelli che avevano organizzato l’imboscata.
E, naturalmente, Salvador Estrella Sadhalá, nella cui casa di Mahatma Gandhi 21 il tenente García Guerrero arrivò all’alba di quel giorno, devastato dall’odio, dall’alcol e dalla disperazione, direttamente dal bordello di Pucha Vittini, alias Pucha Brazobán, nella parte alta di calle Juana Saltitopa, dove lo avevano portato, dopo tutto quanto, il colonnello Johnny Abbes e il maggiore Roberto Figueroa Carrión, affinché con qualche bicchiere e un bel culo dimenticasse quel brutto momento. «Brutto momento», «sacrificio per la Patria», «prova di volontà», «obolo di sangue al Capo»: queste cose gli avevano detto. Poi, si erano congratulati con lui per essersi reso meritevole della promozione. Amadito fece un tiro dalla sigaretta e poi la gettò in strada: un minuscolo fuoco d’artificio nell’urtare contro l’asfalto. «Se non pensi a qualche altra cosa, ti metterai a piangere», si disse, provando vergogna all’idea che Imbert, Antonio e Salvador lo vedessero scoppiare in singhiozzi. Avrebbero pensato che aveva paura. Strinse i denti fino a farsi male. Non era mai stato tanto sicuro di niente come di questo. Finché il Chivo fosse stato vivo, lui non avrebbe vissuto, sarebbe stato la disperazione ambulante che era da quella sera del gennaio 1961 in cui il mondo gli era crollato addosso, e, per non spararsi un colpo in bocca, era corso a Mahatma Gandhi 21, a rifugiarsi nell’amicizia di Salvador. Gli aveva raccontato tutto. Ma non subito. Perché quando il Turco aprí la porta, sorpreso da quei colpi all’alba che avevano strappato dal letto e dal sonno lui, la moglie e i bambini, e si trovò di fronte sulla soglia la figura scombinata e puzzolente di alcol di Amadito, questi non riusciva a dire una sola parola. Aprí le braccia e strinse Salvador: «Che cosa succede, Amadito? Chi è morto?» Lo portarono nella camera da letto, lo fecero stendere, lasciarono che si sfogasse balbettando frasi senza senso. Urania Mieses gli preparò un infuso di menta, che gli fece bere a piccoli sorsi, come a un bambino.
– Non raccontarci niente di cui potresti pentirti, – lo interruppe il Turco.
Portava sopra al pigiama un kimono con degli ideogrammi. Era seduto in un angolo del letto, guardava Amadito con tenerezza.
– Ti lascio solo con Salvador, – lo baciò la zia Urania sulla fronte, alzandosi. – In modo che tu possa parlare con piú confidenza, in modo che tu possa dirgli quello che faticheresti a raccontare a me.
Amadito la ringraziò per questo. Il Turco spense la luce centrale. Il paralume dell’abat-jour sul comodino aveva dei disegni che il risplendere della luce faceva diventare rossi. Nuvole? Animali? Il tenente pensò che, se fosse scoppiato un incendio, non si sarebbe mosso.
– Dormi, Amadito. Con la luce del giorno, le cose ti sembreranno meno tragiche.
– Sarà uguale, Turco. Giorno e notte continuerò a farmi schifo. Peggio ancora, quando mi sarà passata la sbornia.
Cominciò quel mezzogiorno, nel quartier generale degli assistenti militari, accanto all’Estancia Radhamés. Era appena rientrato da Boca Chica, dove l’ufficiale di collegamento del Capo di Stato Maggiore con il Generalissimo Trujillo, maggiore Roberto Figueroa Carrión, lo aveva inviato per consegnare un plico sigillato al generale Ramfis Trujillo, nella base della Fuerza Aérea Dominicana. Il sottotenente entrò nell’ufficio del maggiore per rendere conto della missione e questi lo ricevette con un’espressione ambigua. Gli indicò la cartella con le copertine rosse che aveva sulla scrivania.
– Lo sai che cosa c’è qui dentro?
– Una settimana di licenza per andare in spiaggia, signor maggiore?
– La tua promozione a tenente, ragazzo! – si rallegrò il suo superiore, porgendogli la cartella.
– Sono rimasto a bocca aperta, perché non mi spettava –. Salvador non si muoveva. – Mi mancano otto mesi per poter chiedere un avanzamento. Ho pensato: «Un premio di consolazione, perché mi è stato rifiutato il permesso di sposarmi».
Salvador, ai piedi del letto, fece una smorfia, a disagio.
– Forse non lo sapevi, Amadito? I tuoi compagni, i tuoi capi, non ti avevano mai parlato della prova di lealtà?
– Credevo che fossero solo chiacchiere, – negò Amadito, con convinzione, con furia. – Te lo giuro. La gente non va mica in giro a vantarsi di questo. Non lo sapevo. Mi ha preso alla sprovvista.
Era la verità, Amadito? Una menzogna in piú, una menzogna pietosa in piú, in quelle sfilze di menzogne che era stata la sua vita da quando era entrato all’Accademia Militare. Da quando era nato, visto che era nato quasi nello stesso momento dell’Era. Certo che doveva averlo saputo, sospettato; certo che, nella Fortezza di San Pedro de Macorís e, poi, tra gli assistenti militari, avevi sentito, intuito, scoperto, sulla base di scherzi, bravate, esagerazioni, spacconate, che i privilegiati, gli eletti, gli ufficiali cui venivano affidati gli incarichi di maggiore responsabilità venivano sottoposti a una prova di lealtà nei confronti di Trujillo, prima di essere promossi. Sapevi molto bene che tutto questo esisteva. Ma, adesso, il sottotenente García Guerrero sapeva anche che non aveva mai voluto informarsi nei particolari in che cosa consistesse quella prova. Il maggiore Figueroa Carrión gli strinse la mano e gli ripeté qualcosa che, tutte le volte che l’aveva ascoltato, aveva finito per credere:
– Stai facendo una grande carriera, ragazzo.
Gli ordinò di passare a prenderlo a casa, la sera alle otto: sarebbero andati a bere un bicchiere per festeggiare la sua promozione e per risolvere una certa questione.
– Prendi la jeep, – lo congedò il maggiore.
Alle otto, Amadito era a casa del suo superiore. Non lo fece neppure entrare. Doveva essere rimasto a spiare dalla finestra perché, prima che Amadito fosse sceso dalla jeep, era apparso sulla porta. Salí sul veicolo con un salto e senza rispondere al saluto del tenente, gli ordinò, con voce falsamente naturale:
– A La Cuarenta, Amadito.
– Al carcere, maggiore?
– Sí, a La Cuarenta, – ripeté il tenente. – Tu già lo sai chi stava aspettando lí, Turco.
– Johnny Abbes, – sussurrò Salvador.
– Il colonnello Abbes García, – corresse, con sorda ironia, Amadito. – Il capo del Sim, sí.
– Sei sicuro che vuoi raccontarmi tutto questo, Amadito? – il giovane sentí la mano di Salvador sul ginocchio. – Non mi odierai, dopo, sapendo che anch’io so?
Amadito lo conosceva di vista. Lo aveva adocchiato mentre scivolava come un’ombra per i corridoi del Palacio Nacional, scendeva dalla sua Cadillac nera blindata o ci saliva nei giardini della Estancia Radhamés, entrava o usciva dallo studio del Capo, cosa che Johnny Abbes, e probabilmente nessun altro in tutto il paese, poteva fare – presentarsi a qualunque ora del giorno o della notte al Palacio Nacional o nella residenza privata del Benefattore ed essere ricevuto immediatamente –, e, sempre, come molti dei suoi compagni dell’Esercito, della Marina o dell’Aviazione, aveva provato un segreto sussulto di ripulsa, di fronte a quella figura molle e malamente inzeppata nella divisa da colonnello, la negazione fatta persona del portamento, dell’agilità, della marzialità, della virilità, della forza e della gagliardia che devono sfoggiare i militari – lo diceva il Capo ogni volta che parlava ai suoi soldati nella Festa Nazionale o nel giorno delle Forze Armate –, quella faccia paffuta e funerea, con i baffetti tagliati alla maniera di Arturo de Córdoba o di Pedro López Moctezuma, gli attori messicani piú di moda, e una pappagorgia da cappone che gli pendeva sul collo corto. Anche se lo dicevano soltanto nella piú stretta intimità e dopo molti bicchieri di ron, gli ufficiali detestavano il colonnello Johnny Abbes García perché non era un vero militare. Non si era guadagnato i galloni come loro, studiando, passando da accademie e caserme, sudando per passare di grado. Lui li aveva ottenuti come ricompensa di servizi sicuramente sporchi, per giustificare la sua nomina a onnipotente capo del Servicio de Inteligencia Militar. E diffidavano di lui, delle oscure imprese che gli venivano attribuite, le scomparse, le esecuzioni, le improvvise cadute in disgrazia di elevati personaggi – come quella, recentissima, del senatore Agustín Cabral –, le tremende delazioni, slealtà e calunnie della rubrica giornalistica El Foro Público che appariva ogni mattina su «El Caribe» e che tenevano le persone in bilico, perché da quello che si diceva lí di loro dipendeva il loro destino, a causa degli intrighi e delle operazioni contro, a volte, gente apolitica, rispettabile, cittadini pacifici che, per qualche ragione, erano caduti nelle infinite reti di spionaggio che Johnny Abbes García e il suo folto esercito di caliés avevano teso in tutte le pieghe della società dominicana. Molti ufficiali – tra cui il tenente García Guerrero – si sentivano autorizzati a disprezzare nel loro intimo quell’individuo, nonostante la fiducia che gli mostrava il Generalissimo, perché pensavano, come molti uomini del governo e, a quanto sembrava, lo stesso Ramfis Trujillo, che il colonnello Abbes García, a causa della sua scoperta crudeltà, minasse il prestigio del regime e desse ragione ai suoi detrattori. Tuttavia, Amadito ricordava una discussione in cui il suo superiore diretto, il maggiore Figueroa Carrión, alla fine di una cena annaffiata di birra con un gruppo di assistenti militari, ne aveva preso le difese: «Il colonnello può essere un demonio; ma al Capo gli serve: tutto il male lo attribuiscono a lui e a Trujillo soltanto il bene. Quale servizio meglio di questo? Perché un governo duri trent’anni, c’è bisogno di un Johnny Abbes che metta le mani nella merda. E il corpo e la testa, se ce n’è bisogno. Che si bruci. Che concentri l’odio dei nemici e, a volte, degli amici. Il Capo lo sa e, per questo, lo tiene accanto a sé. Se non ci fosse il colonnello a coprirgli le spalle, magari gli sarebbe già successa la stessa cosa di Pérez Jiménez in Venezuela, di Batista a Cuba e di Perón in Argentina».
– Buonasera, tenente.
– Buonasera, signor colonnello.
Amadito portò la mano al chepí e fece il saluto militare, ma Abbes García gli strinse la mano – una mano molle come una spugna, umida di sudore – e gli diede un colpetto sulla spalla.
– Venite di qua.
Accanto alla garitta, dov’era ammassata mezza dozzina di guardie, oltrepassata l’inferriata d’ingresso, c’era una piccola stanza, che doveva servire da ufficio amministrativo, con un tavolino e un paio di sedie. Un’unica lampadina la rischiarava malamente, dondolando alla fine di un lungo cordone pieno di mosche; attorno a essa crepitava una nube d’insetti. Il colonnello chiuse la porta, indicò loro le sedie. Entrò una guardia con una bottiglia di Johnny Walker etichetta rossa («La marca che preferisco, visto che Giovannino il Camminatore è mio omonimo», scherzò il colonnello), bicchieri, un secchiello di ghiaccio e diverse bottiglie di acqua minerale. Mentre versava da bere, il colonnello parlava al tenente, come se il maggiore Figueroa Carrión non fosse lí.
– Congratulazioni per i nuovi gradi. E per quel foglio di servizio. Lo conosco molto bene. Il Sim ha raccomandato la sua promozione. Per i suoi meriti militari e civili. Le racconto un segreto. Lei è uno dei pochi ufficiali ai quali è stato negato il permesso di sposarsi e ha obbedito senza chiedere una revisione del provvedimento. Per questo il Capo la premia, anticipandole la promozione di un anno. Un brindisi con Giovannino il Camminatore!
Amadito mandò giú un lungo sorso. Il colonnello Abbes García gli aveva quasi riempito il bicchiere di whisky aggiungendovi soltanto pochissima acqua, cosicché ricevette il liquido come una scarica nel cervello.
– A quel punto, in quel posto, con Johnny Abbes che ti offriva da bere, non ti è venuto in mente che cosa ti stava capitando? – bisbigliò Salvador. Il giovane colse la preoccupazione che ristagnava nelle parole dell’amico.
– Che sarebbe stato duro e pesante, sí, Turco, – rispose, tremando. – Ma mai quello che sarebbe successo.
Il colonnello versò un altro giro. Tutt’e tre si erano messi a fumare e il capo del Sim parlò di quanto fosse importante non lasciare che il nemico interno sollevasse la testa, schiacciargliela ogni volta che avesse tentato di agire.
– Perché, fino a quando il nemico interno è debole e disunito, quello che può fare il nemico esterno non importa. Se gli Stati Uniti gridano, se l’Osa pesta i piedi, se Venezuela e Costa Rica sbraitano, non ci fanno un bel niente. Semmai, uniscono i dominicani come le dita di un pugno attorno al Capo.
Aveva una vocina strascicata e sfuggiva lo sguardo dell’interlocutore. I suoi occhietti piccoli, scuri, rapidi, evasivi, erano continuamente in movimento e sembravano scorgere cose nascoste agli altri. Di tanto in tanto, si asciugava il sudore con un grande fazzoletto rosso.
– Soprattutto, i militari, – fece una pausa, per far cadere a terra la cenere della sigaretta. – E, soprattutto, la crema dei militari, tenente García Guerrero. Quella a cui lei ormai appartiene. Il Capo voleva che lei sentisse questo.
Fece di nuovo una pausa, riempí i bicchieri, bevve un sorso di whisky. Soltanto allora sembrò scoprire che il maggiore Figueroa Carrión esisteva:
– Il tenente sa quello che il Capo si aspetta da lui?
– Non ha bisogno che qualcuno glielo dica, è l’ufficiale con piú cervello tra quelli del suo gruppo, – il maggiore aveva una faccia da rospo e i suoi tratti rigonfi si erano accentuati e arrossati con l’alcol. Amadito provò l’impressione che il dialogo fosse una commedia già collaudata. – Immagino che lo sappia; altrimenti, non meriterebbe questo nuovo grado.
Ci fu una nuova pausa, mentre il colonnello riempiva i bicchieri per la terza volta. Ci mise dentro i cubetti con la mano. «Salute», e bevve e loro bevvero. Amadito si disse che preferiva mille volte un bicchiere di ron e Coca-Cola al whisky, cosí amaro. E soltanto allora capí la storia di Giovannino il Camminatore. «Che scemo a non essermene reso conto», pensò. Che strano quel fazzoletto rosso del colonnello! Aveva visto fazzoletti bianchi, azzurri, grigi. Ma rossi! Che cosa curiosa.
– Lei avrà responsabilità sempre maggiori, – disse il colonnello, con aria solenne. – Il Capo vuole essere certo che sia all’altezza.
– Che cosa devo fare, signor colonnello? – Amadito era infastidito da tutti quei preamboli. – Ho sempre eseguito ciò che i miei superiori mi hanno ordinato. Io non deluderò mai il Capo. Si tratta della prova di lealtà, non è vero?
Il colonnello, a capo chino, guardava il tavolino. Quando sollevò la faccia, il tenente notò uno splendore di soddisfazione nei suoi occhi furtivi.
– È vero, agli ufficiali con le palle, trujillisti fino al midollo, non gli si deve indorare la pillola, – si alzò. – Ha ragione, tenente. Facciamola finita con questa stupidaggine, andiamo a festeggiare il suo nuovo grado da Puchita Brazobán.
– Che cosa dovevi fare? – Salvador parlava sforzandosi, con la gola incrinata e un’espressione abbattuta.
– Uccidere un traditore con le mie mani. Disse proprio cosí: «E senza che le tremino, tenente».
Quando uscirono nel cortile de La Cuarenta, Amadito sentiva le tempie pulsare. Vicino all’enorme pianta di bambú, a fianco della costruzione trasformata in carcere e centro di tortura del Sim, c’era, accanto alla jeep con cui erano venuti, un’altra jeep, quasi identica, con le luci spente. Sul sedile posteriore, due guardie con i fucili avevano tra loro un tale con le mani legate e con un panno che gli copriva la bocca.
– Venga con me, tenente, – disse Johnny Abbes, sedendosi al volante della jeep su cui si trovavano le guardie. – Ci segua, Roberto.
Quando i due veicoli uscirono dalla prigione e presero la strada della costa, si scatenò un temporale e la notte si riempí di tuoni e lampi. Gli scrosci d’acqua li fecero tacere.
– Meglio che piova, anche se ci bagniamo, – commentò il colonnello. – Si allenterà questo caldo. I contadini invocavano un po’ d’acqua.
Non ricordava quanto durò il tragitto, ma non doveva essere stato lungo, perché, invece, ricordava che entrando nel bordello di Pucha Vittini, dopo aver parcheggiato la jeep in calle Juana Saltitopa, l’orologio a muro del salottino all’entrata segnava le dieci di sera. Tutto, da quando era andato a prendere il maggiore Figueroa Carrión a casa sua, era durato meno di due ore. Abbes García era uscito dalla strada e la jeep saltò e si scosse come se dovesse disintegrarsi sul terreno pieno di erba alta e di sassi che attraversava, seguita da vicino dalla jeep del maggiore, i cui fari li illuminavano. Era buio, ma il tenente sapeva che procedevano parallelamente rispetto al mare perché il rumore delle onde si era avvicinato fino a entrargli nelle orecchie. Gli sembrò che stessero girando attorno al porticciolo de La Caleta. Appena la jeep si fermò smise di piovere. Il colonnello scese con un salto e Amadito lo imitò. Le due guardie dovevano avere già ricevuto istruzioni perché, senza aspettare ordini, fecero scendere il prigioniero a spintoni. Alla luce di un lampo, il tenente vide che l’uomo imbavagliato era senza scarpe. Per tutto il tragitto era rimasto in una totale docilità ma appena mise piede a terra, come se infine avesse preso coscienza di quello che stava per accadergli, cominciò a contorcersi, a ruggire, cercando di liberarsi dai legacci e dal bavaglio. Amadito, che fino ad allora aveva evitato di guardarlo, osservò i movimenti convulsi della sua testa, che volevano liberare la bocca, dire qualcosa, forse chiedere che avessero pietà di lui, forse maledirli. «E se adesso tiro fuori il revolver e sparo al colonnello, al maggiore e alle due guardie, e lo lascio scappare?», pensò.
– Anziché uno, di morti ce ne sarebbero stati due sul faraglione, – disse Salvador.
– Meno male che ha smesso di piovere, – si lamentò il maggiore Figueroa Carrión, scendendo. – Mi sono bagnato, cazzo.
– Lei ha pronta la sua arma? – domandò il colonnello Abbes García. – Non faccia soffrire oltre questo povero diavolo.
Amadito annuí, senza dire una parola. Avanzò di qualche passo, fino ad arrivare accanto al prigioniero. I soldati lo sciolsero e si fecero da parte. L’uomo non si mise a correre, come Amadito pensava che avrebbe fatto. Le gambe forse non gli obbedivano, la paura lo teneva inchiodato alle erbe e al fango di quel terreno su cui il vento soffiava con vigore. Ma, anche se non tentò di fuggire, continuò a muovere la testa, con disperazione, a destra e a sinistra, in alto e in basso, nel suo inutile sforzo di liberarsi dal bavaglio. Emetteva un ruggito interrotto. Il tenente García Guerrero gli appoggiò la canna della pistola alla tempia e sparò. L’esplosione lo assordò e gli fece chiudere gli occhi, per un secondo.
– Lo finisca, – disse Abbes García. – Non si sa mai.
Amadito, chinandosi, toccò la testa dell’uomo che era steso a terra – era quieto e muto – e sparò di nuovo, a bruciapelo.
– Adesso sí, – disse il colonnello, prendendolo per un braccio e spingendolo verso la jeep del maggiore Figueroa Carrión. – Le guardie sanno quello che devono fare. Andiamocene da Puchita, a scaldarci un po’.
Sulla jeep, che era guidata da Roberto, il tenente García Guerrero rimase in silenzio, ascoltando con distacco il dialogo tra il colonnello e il maggiore. Ricordava qualcosa che avevano detto:
– Lo seppelliranno lí?
– Lo butteranno a mare, – spiegò il capo del Sim. – È il vantaggio di questo faraglione. Alto, tagliato con il coltello. Sotto, c’è una rientranza della costa, molto profonda, come un pozzo. Piena di squali e di tintoreras, in attesa. Se lo ingoiano in pochi secondi, è una cosa da vedere. Non lasciano traccia. Sicuro, veloce e, anche, pulito.
– Riconosceresti quel faraglione? – gli domandò Salvador.
No. Ricordava soltanto che, prima di arrivare, erano passati vicino a quella piccola insenatura, La Caleta. Ma non avrebbe saputo rifare tutto il percorso, da La Cuarenta.
– Ti darò un sonnifero, – Salvador gli mise di nuovo la mano sul ginocchio. – Che ti faccia dormire, sei o otto ore.
– Non ho ancora finito. Un po’ di pazienza. Cosí mi sputerai in faccia e mi caccerai via da casa tua.
Erano andati al bordello di Pucha Vittini, detta Puchita Brazobán, una vecchia casa con dei balconi e un giardino rinsecchito, un bordello frequentato da caliés, gente legata al governo e al Sim, per il quale, secondo certe voci, lavorava anche quella vecchia sboccata e simpatica che era Pucha, salita nella gerarchia del suo mestiere fino ad amministratrice e tenutaria di puttane, dopo esserlo stata lei stessa nei bordelli di calle Dos, sin da molto giovane e con successo. Li aveva accolti sulla porta e aveva salutato Johnny Abbes e il maggiore Figueroa Carrión come vecchi amici. Ad Amadito aveva stretto il mento: «Che bel giovanotto!» Li guidò al secondo piano e li fece sedere a un tavolino accanto al bar. Johnny Abbes le chiese di portare Giovannino il Camminatore.
– Soltanto dopo un bel po’ ho capito che era il whisky, signor colonnello, – confessò Amadito. – Johnny Walker. Giovannino il Camminatore. Facilissimo, e non me ne sono accorto.
– Questo è meglio degli psichiatri, – disse il colonnello. – Senza Giovannino il Camminatore io non conserverei l’equilibrio mentale, la cosa piú importante nel mio lavoro. Per farlo bene, bisogna avere serenità, sangue freddo, palle fredde. Non mescolare mai le emozioni con il ragionamento.
Non c’erano ancora clienti, tranne un pelatino con gli occhiali, seduto al banco, che beveva una birra. Nel juke-box suonavano un bolero e Amadito riconobbe la voce densa di Toña la Negra. Il maggiore Figueroa Carrión si alzò per invitare a ballare una delle donne che chiacchieravano in un angolo, sotto un grande manifesto di un film messicano con Libertad Lamarque e Tito Guizar.
– Lei ha i nervi ben saldi, – ammise il colonnello Abbes García. – Non tutti gli ufficiali sono cosí. Ne ho visti molti coraggiosi che, al momento critico, scompaiono. Ne ho visti cacarsi addosso dalla paura. Perché, anche se nessuno lo crederebbe, per uccidere ci vogliono piú coglioni che per morire.
Versò da bere e disse: «Salute». Amadito bevve, con avidità. Quanti bicchieri? Tre, cinque, presto perse la nozione di tempo e di spazio. Oltre a bere, ballò, con una india che accarezzò e seguí in una stanzetta illuminata da una lampadina avvolta in un cellofan rosso, sospesa su un letto con una coperta tutta colorata. Non riuscí a scoparla. «Per quanto sono ubriaco, bella», si scusò. La vera ragione era il nodo allo stomaco, il ricordo di quello che aveva appena fatto. Alla fine, si armò di coraggio per dire al colonnello e al maggiore che se ne andava, che si sentiva sottosopra per tutto quel bere.
Uscirono tutt’e tre. Alla porta c’erano, ad aspettare Johnny Abbes, la sua Cadillac nera blindata, con l’autista, e una jeep con una scorta di guardaspalle armati. Il colonnello gli diede la mano.
– Non è curioso di sapere chi era?
– Preferisco non saperlo, signor colonnello.
La faccia molle di Abbes García si distese in una risatina ironica, mentre si asciugava la faccia con il suo fazzoletto color fuoco.
– Sarebbe facile se si facessero queste cose senza sapere di chi si tratta. Non provi a fottermi, tenente. Se uno si butta in acqua, deve bagnarsi. Era uno del 14 de Junio, il fratellino della sua ex fidanzata, credo. Luisa Gil, no? Be’, alla prossima, faremo delle cose insieme. Se ha bisogno di me, sa dove trovarmi.
Il tenente sentí di nuovo la mano del Turco sul suo ginocchio.
– È una bugia, Amadito, – provò a rianimarlo Salvador. – Poteva essere chiunque altro. Ti ha ingannato. Per distruggerti del tutto, per farti sentire piú coinvolto, piú schiavo. Dimentica quello che ti ha detto. Dimentica quello che hai fatto.
Amadito fece cenno di sí. Molto lentamente, indicò il revolver nel suo cinturone.
– La prossima volta che sparerò, sarà per ammazzare Trujillo, Turco, – disse. – Tu e Tony Imbert potete contare su di me per qualunque cosa. Non c’è piú bisogno che cambiate argomento quando io arrivo in questa casa.
– Attenzione, attenzione, questo sembra lui, – disse Antonio de la Maza, alzando la canna mozza verso il finestrino, pronto a sparare.
Amadito e Estrella Sadhalá impugnarono le armi a loro volta. Antonio Imbert accese il motore. Ma l’automobile che veniva lungo il Malecón verso di loro, avanzando lentamente, come se cercasse qualcosa, non era la Chevrolet ma una piccola Volkswagen. Cominciò a rallentare, fino a superarli. Allora, curvò nella direzione opposta, verso dove erano parcheggiati. Si fermò accanto a loro, con le luci spente.