– Non sale a vederlo? – dice alla fine l’infermiera.
Urania sa che quella domanda preme per uscire dalla bocca della donna da quando, entrata nella casetta di calle César Nicolás Penson, lei, anziché chiederle di accompagnarla nella stanza del signor Cabral, si era diretta verso la cucina e si era preparata un caffè. Lo assapora a piccoli sorsi da dieci minuti.
– Prima, finisco la mia colazione, – risponde, senza sorridere, e l’infermiera abbassa lo sguardo, confusa. – Sto riprendendo le forze per salire quella scala.
– Lo so che c’è stato un allontanamento tra lei e lui, ho sentito dire qualcosa, – si scusa la donna, senza sapere dove mettere le mani. – Era soltanto per domandare. Al signore ho già dato la colazione e gli ho fatto la barba. Si sveglia sempre molto presto.
Urania fa cenno di sí. Adesso è tranquilla e sicura. Esamina ancora una volta lo sfacelo che la circonda. Oltre alla vernice delle pareti tutta scrostata, il ripiano del tavolo, il lavandino, l’armadio, tutto sembra rattrappito e contorto. Erano gli stessi mobili? Non riconosceva niente.
– Viene qualcuno a trovarlo? Della famiglia, voglio dire.
– Le figlie della signora Adelina, la signora Lucindita e la signora Manolita vengono sempre, verso mezzogiorno, – la donna, alta, avanti con gli anni, con i pantaloni sotto l’uniforme bianca, in piedi davanti alla porta della cucina, non nasconde il proprio disagio. – Sua zia veniva a trovarlo tutti i giorni, prima. Ma da quando si è fratturata l’anca non esce piú.
La zia Adelina aveva parecchi anni in meno rispetto a suo padre, poteva averne al massimo settantacinque. E cosí si era fratturata l’anca. Sarà stata ancora cosí di chiesa? Faceva la comunione tutti i giorni, allora.
– È in camera da letto? – Urania beve l’ultimo sorso di caffè. – Certo, dove altro potrebbe stare. No, non mi accompagni.
Sale la scala con il corrimano scolorito e senza i portavasi pieni di fiori che lei ricordava, sempre con la sensazione che la casa si sia rattrappita. Arrivata al piano di sopra, nota le piastrelle scheggiate, alcune traballanti. Questa era una casetta moderna, agiata, arredata con gusto; è andata giú in picchiata, è un tugurio in confronto con le residenze e i condomini che ha potuto vedere il giorno prima a Bella Vista. Si ferma davanti alla prima porta – quella era la sua stanza – e, prima di entrare, bussa con le nocche un paio di volte.
La accoglie una luce viva, che irrompe dalla finestra spalancata. Il riverbero l’acceca per qualche secondo; poi, si va delineando il letto con una coperta grigia, il cassettone antico con lo specchio ovale, le fotografie appese al muro – come avrà fatto a trovare la foto della sua laurea a Harvard? – e, per ultimo, sulla vecchia poltrona di cuoio dalla spalliera e dai braccioli ampi, quell’anziano con un pigiama azzurro e le pantofole. Sembra perso nella poltrona. Si è incartapecorito e rattrappito, come la casa. La distrae un oggetto bianco, ai piedi di suo padre: un orinale pieno a metà.
Allora aveva i capelli tutti neri, tranne eleganti canizie alle tempie; adesso, le rade ciocche della sua calvizie sono giallastre, sporche. I suoi occhi erano grandi, sicuri di sé, padroni del mondo (quando il Capo non era vicino); ma quelle due fessure che la guardano fisso sono rimpicciolite, da topo e piuttosto spaventate. Aveva i denti e adesso non li ha; devono avergli tolto la dentiera (lei ne aveva pagato la fattura alcuni anni prima) perché ha le labbra sprofondate e le guance sporgenti che quasi si toccano. È sprofondato nella poltrona, i suoi piedi sfiorano appena il pavimento. Per guardarlo lei doveva sollevare la testa, allungare il collo; adesso, se si alzasse in piedi, le arriverebbe alla spalla.
– Sono Urania, – mormora, avvicinandosi. Si siede sul letto, a un metro dal padre. – Ti ricordi che hai una figlia?
Nel vecchietto c’è un’agitazione interiore, movimenti delle manine ossute, pallide, delle dita affilate, che riposano sulle gambe. Ma i minuscoli occhi, sebbene non si distacchino da Urania, rimangono inespressivi.
– Nemmeno io ti riconosco, – sussurra Urania. – Non so perché sono venuta, che cosa ci faccio qui.
Il vecchietto ha cominciato a muovere la testa, dall’alto in basso, dal basso in alto. La sua gola emette un lamento aspro, lungo, spezzato, come un canto lugubre. Ma in pochi momenti si calma, i suoi occhi sempre puntati su di lei.
– La casa era piena di libri –. Urania lancia occhiate alle pareti spoglie. – Che fine hanno fatto? Non puoi piú leggere, è chiaro. Avevi il tempo di leggere, allora? Non ricordo di averti mai visto leggere. Eri un uomo troppo occupato. Anch’io lo sono adesso, quanto o forse piú di te a quell’epoca. Dieci, dodici ore in ufficio o a visitare clienti. Ma mi concedo il tempo per leggere ogni tanto. Molto presto di mattina, vedendo l’alba arrivare tra i grattacieli di Manhattan, o di notte, spiando le luci di quegli alveari di vetro. Mi piace molto. Di domenica leggo tre o quattro ore, dopo Meet the Press, alla televisione. I vantaggi di essere rimasta nubile, papà. Lo sapevi, no? La tua figliola è rimasta zitella. Cosí dicevi tu: «Che fallimento! Non ha acchiappato un marito!» Io nemmeno, papà. O meglio, non ho voluto. Proposte ne ho avute. All’università. Alla Banca Mondiale. In ufficio. Pensa che ancora adesso all’improvviso mi si presenta qualche pretendente. Con quarantanove anni sulle spalle! Non è cosí tremendo essere nubile. Ad esempio, ho tempo per leggere, anziché stare dietro al marito, ai figli.
Sembra che capisca e che, interessato, non osi muovere un solo muscolo per non interromperla. Sta immobile, il suo piccolo petto si muove ritmicamente, gli occhietti sospesi alle labbra di lei. In strada, di tanto in tanto si sente un’automobile, passi, voci, brani di conversazioni, si avvicinano, salgono, si abbassano e si perdono in lontananza.
– Il mio appartamento a Manhattan è pieno di libri, – riprende Urania. – Come questa casa, quando ero bambina. Di diritto, di economia, di storia. Ma nella mia camera da letto, soltanto dominicani. Testimonianze, saggi, memorie, molti libri di storia. Lo indovini di quale epoca? L’Era di Trujillo, quale altra sennò. La cosa piú importante che ci sia capitata in cinquecento anni. Lo dicevi con una tale convinzione. È vero, papà. In quei trentuno anni si è cristallizzato tutto ciò che di male trascinavamo con noi, dalla conquista. In alcuni di quei libri compari anche tu, come un personaggio. Segretario di Stato, senatore, presidente del Partido Dominicano. C’è qualcosa che non sei stato, papà? Mi sono trasformata in un’esperta su Trujillo. Anziché giocare a bridge, a golf, montare a cavallo o andare all’opera, il mio hobby è stato informarmi su quello che è accaduto in quegli anni. Peccato che non possiamo chiacchierare. Quante cose potresti chiarirmi, tu che li hai vissuti a braccetto con il tuo amato Capo, che cosí male ha ripagato la tua lealtà. Per esempio, mi sarebbe piaciuto che mi chiarissi se Sua Eccellenza è andato a letto anche con mamma.
Coglie un sussulto nel vecchio. Il suo corpiciattolo fragile, rinsecchito, ha avuto un sobbalzo sulla poltrona. Urania avvicina il capo e lo osserva. È una falsa impressione? Sembra che stia ad ascoltarla, che compia degli sforzi per capire quello che dice.
– Lo hai permesso? Ti sei rassegnato? Ne hai approfittato per la tua carriera?
Urania respira profondamente. Esamina la stanza. Ci sono due foto con le cornici d’argento, sul comodino. Quella della sua prima comunione, l’anno in cui morí la madre. Forse se n’era andata da questo mondo con l’immagine della sua bambina avvolta nel tulle di quel delicato vestito e di quello sguardo serafico. L’altra foto è di sua madre: giovane, i capelli neri pettinati con la riga, le sopracciglia depilate, gli occhi malinconici e sognanti. È una vecchia foto ingiallita, un po’ sciupata. Si avvicina al comodino, se la porta alle labbra e la bacia.
Sente l’automobile frenare davanti alla porta di casa. Il suo cuore ha un sobbalzo; senza muoversi, percepisce attraverso le tendine le cromature rilucenti, la carrozzeria lucidata, i riflessi lampeggianti del lussuoso veicolo. Ascolta i passi, il campanello risuona due o tre volte e – ipnotizzata, atterrita, senza muoversi – sente la domestica che apre la porta. Coglie, senza capire, il breve dialogo ai piedi della scala. Il suo cuore impazzito sta per scoppiare. Le nocche sulla porta. Giovane, india, con la cuffia, l’espressione spaventata, la ragazza di servizio si affaccia dalla porta socchiusa:
– È venuto a trovarla il Presidente, signora. Il Generalissimo, signora!
– Digli che mi dispiace, ma non posso riceverlo. Digli che la signora Cabral non riceve visite quando Agustín non è in casa. Va’, diglielo.
I passi della ragazza si allontanano, timidi, indecisi, per la scala con il corrimano pieno di portavasi ardenti di gerani. Urania depone la foto di sua madre sul comodino, torna all’angolo del letto. Rincantucciato nella poltrona, il padre la guarda allarmato.
– Questo è quello che il Capo ha fatto con il suo segretario all’Istruzione, all’inizio del suo governo, e tu lo sai molto bene, papà. Con quel giovane colto, don Pedro Henríquez Ureña, raffinato e geniale. Andò a trovare sua moglie mentre lui era al lavoro. Lei ebbe il coraggio di mandargli a dire che non riceveva visite quando il marito non era in casa. All’inizio dell’Era, era ancora possibile che una donna rifiutasse di ricevere il Capo. Quando lei glielo raccontò, don Pedro si dimise, partí e non rimise piú piede in quest’isola. Grazie a questo diventò cosí famoso, come maestro, storico, critico e filologo, in Messico, Argentina e Spagna. Fu una vera fortuna che il Capo volesse andare a letto con sua moglie. In quei primi tempi, un ministro poteva dimettersi e non subire incidenti, non cadere nel precipizio, non essere accoltellato da un pazzo, non essere divorato dagli squali. Fece bene, non ti sembra? Il suo gesto lo salvò dal diventare come te, papà. Avresti fatto come lui, o avresti guardato dall’altra parte? Come il tuo odiato e amato amico, il tuo detestato e caro collega, don Froilán, il nostro vicino. Te lo ricordi, papà?
Il vecchietto comincia a tremare e a lamentarsi, con quel suo canto macabro. Urania aspetta che si calmi. Don Froilán! Chiacchierava nel salottino, sulla terrazza o in giardino con suo padre, che veniva a trovare diverse volte al giorno nelle epoche in cui erano alleati nelle lotte intestine delle fazioni trujilliste, lotte che il Benefattore attizzava per neutralizzare i suoi collaboratori, tenendoli occupatissimi a guardarsi le spalle dai pugnali di quei nemici che erano, in pubblico, amici, fratelli e correligionari. Don Froilán abitava nella casa di fronte, sul cui tetto di tegole c’è, in questo istante, allineata in posizione di allerta, mezza dozzina di colombe. Urania si avvicina alla finestra. Non è cambiata molto nemmeno la casa di quel potente signore, anche lui ministro, senatore, intendente, cancelliere, ambasciatore e tutto quello che si poteva essere in quegli anni. Addirittura segretario di Stato, nel maggio 1961, all’epoca dei grandi avvenimenti.
La casa ha ancora la facciata dipinta di grigio e bianco, ma a sua volta sembra diventata nana. Le hanno addossato un’ala di quattro o cinque metri, che stona con quel portico sporgente e triangolare, da palazzo gotico, dove lei aveva visto molte volte, andando o tornando da scuola, di pomeriggio, la figura distinta della moglie di don Froilán. Non appena la vedeva, la chiamava: «Urania, Uranita! Vieni qua, lascia che ti guardi, amore. Che occhi, piccola mia! Bella come tua madre, Uranita». Le carezzava i capelli con le sue mani curate, dalle lunghe unghie dipinte di rosso intenso. Lei provava la sensazione di addormentarsi quando quelle dita scivolavano tra i suoi capelli e le sfioravano il cuoio capelluto. Eugenia? Laura? Aveva il nome di un fiore? Magnolia? Le si è cancellato dalla memoria. Ma non la sua faccia, la sua pelle candida, i suoi occhi di seta, la sua figura di regina. Sembrava sempre vestita da festa. Urania le voleva bene, perché era affettuosa, per i regali, perché la portava al Country Club a fare il bagno in piscina, e, soprattutto, perché era stata amica di sua madre. Immaginava che, se non fosse salita in cielo, sua madre sarebbe stata bella e signorile come la moglie di don Froilán. Lui, invece, non aveva nulla di elegante. Bassino, calvo, grassoccio, nessuna donna avrebbe dato un soldo per lui. Era stata la fretta di trovare marito o l’interesse che l’aveva indotta a sposarlo?
È quello che si domanda, impressionata, aprendo la scatola di cioccolatini avvolta nella stagnola che la signora le ha appena dato, con un bacino sulla guancia, dopo essere uscita alla porta di casa per chiamarla – «Uranita! Vieni, ho una sorpresa per te, amore!» – mentre la bambina scendeva dal pulmino della scuola. Urania entra in casa, bacia la signora – indossa un abito di tulle celeste, scarpe con il tacco alto, è truccata come per un ballo, porta una collana di perle e anelli alle mani –, apre il pacchetto rivestito di carta fantasia e legato con un nastro rosa. Rimira i bonbon tutti agghindati, impaziente di assaggiarli, ma non osa farlo perché non sarebbe forse una mancanza di educazione?, quando l’automobile si ferma in strada, molto vicino. La signora ha un sussulto, uno di quelli strani che hanno i cavalli all’improvviso come se avessero ascoltato un comando misterioso. È diventata pallida e la sua voce si è fatta perentoria: «Devi andare via». La mano appoggiata sulla sua spalla si contrae, la spinge verso l’uscita. Quando lei, obbediente, prende la cartella con i quaderni e sta per andarsene, la porta si spalanca: l’invadente figura dell’uomo nel suo abito scuro, con i polsini bianchi inamidati e i gemelli d’oro che sporgono dalle maniche della giacca, le blocca il passaggio. Un signore con gli occhiali neri e che sta dappertutto, anche nella sua memoria. Rimane paralizzata, a bocca aperta, guardando, guardando. Sua Eccellenza le rivolge un sorriso tranquillizzante.
– Questa chi è?
– Uranita, la figlia di Agustín Cabral, – risponde la padrona di casa. – Stava andando via.
E, in effetti, Urania va via, senza nemmeno salutare, per quanto è rimasta impressionata. Attraversa la strada, entra in casa, sale le scale e, dalla sua camera da letto, spia attraverso le tendine, aspettando, aspettando che il Presidente esca dalla casa di fronte.
– E tua figlia era cosí ingenua che non si domandava nemmeno che cosa ci andasse a fare lí il Padre della Patria quando don Froilán non era in casa, – suo padre, adesso calmo, l’ascolta, o sembra che l’ascolti, senza staccare gli occhi da lei. – Cosí ingenua che quando sei tornato dal Congresso sono corsa a raccontartelo. Ho visto il Presidente, papà! È venuto a trovare la moglie di don Froilán. Che faccia hai fatto!
Come se gli avessero appena comunicato la morte di qualcuno amatissimo. Come se gli avessero diagnosticato un cancro. Congestionato, livido, congestionato. E i suoi occhi che continuavano a guardare la faccia della bambina. Come spiegarglielo? Come metterla sull’avviso a proposito del pericolo che correva la famiglia?
Gli occhietti dell’invalido vorrebbero aprirsi, spalancarsi.
– Piccola mia, ci sono cose che non puoi sapere, che ancora non capisci. Ci sono io a saperle al tuo posto, a proteggerti. Sei ciò che di piú caro ho al mondo. Non domandarmi perché, ma devi dimenticare. Non sei stata da Froilán. Non hai visto sua moglie. E, tanto meno, quello che hai sognato di vedere. Per il tuo bene, piccola. E per il mio. Non ripeterlo, non raccontarlo a nessuno. Me lo prometti? Mai? A nessuno? Me lo giuri?
– Te l’ho giurato, – dice Urania. – Ma neppure allora sospettai niente. E nemmeno quando hai minacciato i domestici che se avessero ripetuto quell’invenzione della bambina, avrebbero perso il lavoro. Ero ingenua a tal punto. Quando ho scoperto perché il Generalissimo andava a trovare le loro mogli, i ministri non potevano piú fare quello che aveva fatto Henríquez Ureña. Come don Froilán, dovevano rassegnarsi alle corna. E, visto che non c’era alternativa, trarne vantaggio. Lo hai fatto? Il Capo venne a trovare la mamma? Prima che io nascessi? Quando ero troppo piccola per ricordare? Lo faceva quando le mogli erano belle. La mamma lo era, no? Io non ricordo che sia venuto, ma potrebbe essere venuto prima. Che cosa fece mamma? Si rassegnò? Si compiacque, orgogliosa di quell’onore? Quella era la norma, non è vero? Le brave dominicane erano grate che il Capo si degnasse di sbatterle. Ti sembra una volgarità? Ma se quello era il verbo che usava il tuo caro Capo.
Sí, quello. Urania lo sa, lo ha letto nella sua copiosa biblioteca sull’Era. Trujillo, cosí attento, raffinato, elegante nel parlare – un incantatore di serpenti, quando se lo proponeva –, all’improvviso, la notte, dopo qualche bicchiere di brandy spagnolo Carlos I, poteva pronunciare le parole piú sconce, parlare come si parla in un impianto zuccheriero, nei bateyes1, tra gli scaricatori del porto sul fiume Ozama, negli stadi o nei bordelli, parlare come parlano gli uomini quando hanno bisogno di sentirsi piú maschi di quanto sono. A volte, il Capo poteva essere orrendamente volgare e ripetere le stridenti parolacce della sua gioventú, quando era sorvegliante di tenute agricole a San Cristóbal o guardia stabularia. I suoi cortigiani le elogiavano con lo stesso entusiasmo riservato ai discorsi che gli scrivevano il senatore Cabral e il Costituzionalista Sbronzo. Arrivava al punto di vantarsi delle «femmine che si era sbattuto», altra cosa che i cortigiani elogiavano, sebbene questo li rendesse potenziali nemici di doña María Martínez, la Prestante Dama, e sebbene quelle femmine fossero le loro mogli, sorelle, madri o figlie. Non era un’esagerazione dell’esaltata fantasia dominicana, irrefrenabile nell’accrescere le virtú e i vizi e nel potenziare gli aneddoti reali fino a farli diventare fantastici. C’erano storie inventate, ingigantite, colorate dalla vocazione truculenta dei compatrioti. Ma quella di Barahona doveva essere vera. Questa, Urania non l’ha letta, l’ha ascoltata (provando nausee), nel racconto di qualcuno che era stato sempre vicino, vicinissimo, al Benefattore.
– Il Costituzionalista Sbronzo, papà. Sí, il senatore Henry Chirinos, il giuda che ti ha tradito. Dalla sua viva voce l’ho sentita. Ti meravigli che io abbia avuto a che fare con lui? Non ho avuto scelta, come funzionaria della Banca Mondiale. Il direttore mi aveva chiesto di andare in sua rappresentanza a quel ricevimento dato dal nostro ambasciatore. O meglio, l’ambasciatore del Presidente Balaguer. Del governo democratico e civile del Presidente Balaguer. Chirinos ha saputo cavarsela meglio di te, papà. Ti ha tolto di mezzo, non è mai caduto in disgrazia con Trujillo e alla fine ha dato una bella sterzata e si è sistemato con la democrazia nonostante fosse stato trujillista quanto te. Era lí, a Washington, piú brutto che mai, gonfio come un rospo, che accoglieva gli ospiti e beveva come una spugna. Si concedeva anche il lusso di intrattenere i commensali con aneddoti sull’Era di Trujillo. Proprio lui!
L’invalido ha chiuso gli occhi. Si è addormentato? Appoggia la testa contro la spalliera e gli rimane aperta la bocca, contratta e vuota. È piú smunto e vulnerabile cosí; attraverso la vestaglia, si scorge una parte del suo petto privo di peli, la pelle bianchiccia, da cui spuntano le ossa. Respira con un ritmo lieve. Soltanto ora nota che il padre non ha le calze; il collo del piede e le caviglie sono come quelli di un bambino.
Non l’ha riconosciuta. Come avrebbe potuto immaginare che quella funzionaria della Banca Mondiale, che adesso gli porge in inglese il saluto del direttore, fosse la figlia del suo vecchio collega e compagno, Cerebrito Cabral? Urania fa il possibile per rimanere a distanza dall’ambasciatore dopo quel saluto protocollare, scambiando banalità con persone che sono anche loro lí, come lei, obbligate dai rispettivi incarichi. Dopo un po’, si prepara ad andarsene. Si avvicina al gruppo che ascolta l’ambasciatore della democrazia, ma ciò che lui sta raccontando la blocca. Pelle color cenere e pustolosa, fauci da fiera apoplettica, triplo mento, ventre elefantiaco sul punto di far scoppiare l’abito azzurro, con gilè fantasia e cravatta rossa, dentro al quale è costretto, l’ambasciatore Chirinos dice che tutto quello accadde a Barahona, nell’epoca finale, quando Trujillo, in una di quelle smargiassate alle quali era cosí affezionato, annunciò, per dare l’esempio e attivare la democrazia dominicana, che lui, ritiratosi dal governo (aveva messo a Presidente fantoccio suo fratello Héctor Bienvenido, soprannominato Negro), avrebbe concorso non alla Presidenza, ma a un’oscura gobernación di provincia. E come candidato dell’opposizione!
L’ambasciatore della democrazia ansima, riprende fiato, spia con gli occhietti vicini l’effetto delle sue parole. «Ma vi rendete conto, signori, – ironizza: – Trujillo, candidato dell’opposizione al suo stesso regime!» Sorride e riprende, spiegando che, in quella campagna elettorale, don Froilán Arala, uno dei bracci destri del Generalissimo, pronunciò un discorso esortando il Capo a presentarsi non per la gobernación ma per quello che continuava a essere nel cuore del popolo dominicano: Presidente della Repubblica. Tutti credettero che don Froilán avesse seguito le istruzioni del Capo. Non era cosí. O, almeno – l’ambasciatore Chirinos beve l’ultimo sorso di whisky con una luce malevola negli occhi –, non era piú cosí quella sera, perché poteva anche essere che don Froilán avesse fatto quello che il Capo aveva ordinato e che lui avesse cambiato opinione e avesse deciso di far durare ancora qualche giorno la farsa. Cosí faceva a volte, anche se questo metteva in ridicolo i suoi piú talentosi collaboratori. La testa di don Froilán Arala esibiva forse un barocco trofeo di corna, ma, anche, un cervello assai fine. Il Capo lo aveva penalizzato per quel discorso agiografico com’era solito fare: umiliandolo dove poteva fargli piú male, nel suo onore di maschio.
Tutta la società del posto partecipò al ricevimento offerto al Capo dal comitato direttivo del Partido Dominicano di Barahona, nel club. Si ballò e si bevve. A un tratto, il Capo, tutto allegro, quando ormai era un’ora tarda, di fronte a un folto pubblico di soli uomini – militari del presidio locale, ministri, senatori e deputati che lo accompagnavano nella campagna politica, governatori e notabili – che aveva intrattenuto con ricordi della sua prima campagna, tre decenni prima, mostrando quello sguardo sentimentale, nostalgico, che assumeva di solito alla fine delle feste, come se cedesse a un impeto di debolezza, esclamò:
– Io sono stato un uomo molto amato. Un uomo che ha stretto tra le braccia le donne piú belle di questo paese. Loro mi hanno dato l’energia per guidarlo. Senza di loro, mai avrei fatto quel che ho fatto. (Sollevò il bicchiere verso la luce, esaminò il liquido, ne verificò la trasparenza, la nitidezza del colore). Lo sapete qual è stata la migliore tra tutte le femmine che mi sono sbattuto? («Perdonate, amici miei, questo pesante verbo, – si scusò il diplomatico, – cito Trujillo testualmente»). (Fece un’altra pausa, spirò l’aroma della sua coppa di brandy. La testa dai capelli argentei cercò e trovò, nel gruppo di signori che lo stava ad ascoltare, la faccia livida e grassoccia del ministro. E concluse:) La moglie di Froilán!
Urania fa una smorfia di disgusto, come la sera in cui aveva sentito l’ambasciatore Chirinos aggiungere che don Froilán aveva eroicamente sorriso, riso, apprezzato con gli altri, la battuta del Capo. «Bianco come la carta, senza svenire, senza cadere fulminato da una sincope», precisava il diplomatico.
– Com’era possibile, papà? Che un uomo come Froilán Arala, colto, preparato, intelligente, arrivasse ad accettare una cosa del genere. Che cosa vi faceva? Che cosa vi dava, per riuscire a trasformare don Froilán, Chirinos, Manuel Alfonso, te, tutti i suoi bracci destri e sinistri, in panni sporchi?
Non lo capisci, Urania. Ci sono molte cose dell’Era che sei arrivata a capire; alcune, dapprima, ti sembravano inestricabili, ma, a forza di leggere, ascoltare, confrontare e pensare, sei arrivata a capire come mai tanti milioni di persone, martellate dalla propaganda, dalla mancanza di informazioni, abbrutite dall’indottrinamento, dall’isolamento, spogliate del libero arbitrio, della volontà e perfino della curiosità con la paura e con la pratica del servilismo e dell’ossequio, abbiano potuto divinizzare Trujillo. Non soltanto temerlo, ma amarlo, come i figli possono arrivare ad amare i padri autoritari, a convincersi che frustate e castighi sono per il loro bene. Ciò che non sei riuscita a capire è come mai i dominicani piú preparati, le teste pensanti del paese, avvocati, medici, ingegneri, usciti a volte da ottime università degli Stati Uniti o d’Europa, sensibili, colti, con esperienza, letture, idee, presumibilmente uno sviluppato senso del ridicolo, sentimenti, ansie, accettassero di essere vessati in modo tanto selvaggio (lo furono tutti prima o poi) come quella sera, a Barahona, don Froilán Arala.
– Peccato che tu non possa parlare, – ripete, tornando al presente. – Potremmo provare a capirlo, insieme. Che cosa ha fatto sí che don Froilán rimanesse fedele come un cane nei confronti di Trujillo? È stato leale fino all’ultimo, come te. Non ha partecipato alla cospirazione, e tu nemmeno. Ha continuato a leccare la mano del Capo dopo che lui si era vantato a Barahona di essersi sbattuto sua moglie. Il Capo che lo mandava in giro per l’America del Sud, a visitare governi, come cancelliere della Repubblica, da Buenos Aires a Caracas, da Caracas a Rio o a Brasilia, da Brasilia a Montevideo, da Montevideo a Caracas, soltanto per poter continuare a sbattersi in tutta tranquillità la nostra bella vicina.
È un’immagine che insegue Urania da molto tempo, che suscita in lei riso e indignazione. Quella del segretario di Stato agli Esteri dell’Era che sale e scende dagli aerei, percorre le capitali sudamericane, obbedisce a ordini perentori che lo attendono in ogni aeroporto, affinché prosegua in quella traiettoria isterica, incalzando governi con vani pretesti. E soltanto perché non torni a Ciudad Trujillo mentre il Capo gli fotte la moglie. Lo raccontava lo stesso Crassweller, il piú noto biografo di Trujillo. Cosicché tutti lo sapevano, anche don Froilán.
– Ne valeva la pena, papà? Era in nome dell’illusione di godersi il potere? A volte penso di no, che affermarsi fosse secondario. Che, a dire la verità, a te, a Arala, a Pichardo, a Chirinos, a Álvarez Pina, a Manuel Alfonso, vi piacesse sporcarvi. Che Trujillo tirò fuori dal fondo delle vostre anime una vocazione masochista, di esseri che avevano bisogno di ricevere sputi, maltrattamenti, che sentendosi abietti si realizzavano.
L’invalido la guarda senza batter ciglio, senza muovere le labbra, neppure le minuscole manine che tiene sulle ginocchia. Lo si direbbe una mummia, un ometto imbalsamato, un bambolotto di cera. La sua vestaglia è scolorita e, in parte, sfilacciata. Dev’essere molto vecchia, di dieci o quindici anni prima. Bussano alla porta. Dice «Avanti», e spunta l’infermiera, portando un piattino con pezzetti di mango tagliati a forma di mezzaluna e una pappetta di mela o di banana.
– A metà mattina gli do sempre un po’ di frutta, – spiega, senza entrare. – Il dottore dice che non deve stare molte ore a stomaco vuoto. Dato che si alimenta appena, bisogna dargli qualcosa tre o quattro volte al giorno. Di sera, soltanto un brodino. Posso?
– Sí, venga.
Urania guarda il padre e gli occhi di lui rimangono fissi su lei; non si girano a guardare l’infermiera nemmeno quando, seduta di fronte a lui, comincia a dargli piccole cucchiaiate del suo spuntino.
– Dov’è la sua dentiera?
– Gliel’abbiamo dovuta togliere. Dato che è dimagrito cosí tanto, gli faceva sanguinare le gengive. Per quello che mangia, brodini, frutta a pezzetti, purè e frullati, non ne ha bisogno.
Per un bel po’ rimangono in silenzio. Quando l’invalido finisce di ingoiare, l’infermiera gli accosta il cucchiaio alla bocca e aspetta, paziente, che il vecchio l’apra. Allora, con delicatezza, gli dà il boccone successivo. Farà sempre cosí? O quella delicatezza è dovuta alla presenza della figlia? Di sicuro. Quando è da sola con lui, lo sgriderà, gli darà dei pizzichi, come le bambinaie con i bambini che ancora non parlano, quando la mamma non le vede.
– Gliene dia qualche boccone, – dice l’infermiera. – Lui lo sta aspettando. Non è cosí, don Agustín? Vuole che sua figlia le dia la pappa, non è vero? Sí, sí, gli piacerebbe. Gliene dia qualche boccone mentre scendo a prendere il bicchiere d’acqua, l’ho dimenticato.
Consegna il piatto ormai a metà nelle mani di Urania, che lo prende in modo meccanico, e se ne va, lasciando la porta aperta. Dopo un istante di esitazione, Urania gli accosta alla bocca il cucchiaio con una fettina di mango. L’invalido, che non le ha ancora tolto gli occhi di dosso, chiude la bocca, serrando le labbra, come un bambino difficile.