– Buongiorno, – rispose.
Il colonnello Johnny Abbes aveva lasciato sulla scrivania il rapporto di ogni mattina, con fatti del giorno prima, previsioni e suggerimenti. Gli piaceva leggerli; il colonnello non perdeva tempo in coglionate, come il precedente capo del Servicio de Inteligencia Militar, il generale Arturo R. Espaillat, Navajita, diplomato alla Scuola Militare di West Point, che lo annoiava con i suoi deliri strategici. Forse che Navajita lavorava per la Cia? Glielo avevano dato per certo. Ma Johnny Abbes non poté confermarlo. Se c’era qualcuno che non lavorava per la Cia era il colonnello: odiava gli yanquis.
– Caffè, Eccellenza?
Johnny Abbes era in uniforme. Sebbene si sforzasse di portarla con l’impeccabilità che Trujillo pretendeva, non poteva fare piú di quello che gli consentiva il suo fisico molle e storto. Era piú basso che alto, la pancetta faceva il paio con la sua pappagorgia, al di sopra della quale svettava il mento sporgente, solcato da una fenditura profonda. Anche le sue guance erano molli. Soltanto gli occhietti mobili e crudeli rivelavano l’intelligenza di quella nullità fisica. Aveva trentacinque o trentasei anni ma sembrava un vecchio. Non era stato a West Point né in nessun’altra scuola militare; non lo avrebbero ammesso perché era privo del fisico e della vocazione militare. Era quello che l’istruttore Gittleman, quando il Benefattore era marine, chiamava, per la sua mancanza di muscoli, per l’eccesso di grasso e per la dedizione all’intrigo, «un rospo nell’anima e nel corpo». Trujillo lo aveva fatto colonnello dalla sera alla mattina nello stesso tempo in cui, in uno di quegli impeti che costellavano la sua carriera politica, decise di nominarlo capo del Sim in sostituzione di Navajita. Perché lo aveva fatto? Non per la sua crudeltà; piuttosto, per la sua freddezza: l’essere piú glaciale che avesse conosciuto in questo paese di persone dall’anima e dal corpo caldi. Era stata una decisione felice? Ultimamente, lasciava da dubitare. Il fallimento dell’attentato contro il Presidente Betancourt non era stato l’unico; aveva sbagliato anche nella presunta ribellione contro Fidel Castro dei comandanti Eloy Gutiérrez Menoyo e William Morgan, che risultò un’imboscata del barbudo per attirare esuli cubani sull’isola e servirsene ai propri fini. Il Benefattore rifletteva, sfogliando il rapporto tra un sorso di caffè e l’altro.
– Lei insiste nel voler tirar fuori il vescovo Reilly dal Colegio Santo Domingo, – mormorò. – Si sieda, si versi del caffè.
– Con il suo permesso, Eccellenza.
La melodiosa voce del colonnello proveniva dai suoi anni giovanili, quand’era commentatore radiofonico di calcio, pallacanestro e corse di cavalli. Di quell’epoca, aveva conservato soltanto la passione per le letture esoteriche – confessava di essere rosacrociano –, quei fazzoletti che faceva tingere di rosso perché, diceva, era il colore della fortuna per gli Ariete, e la disposizione a cogliere l’aura di ogni persona (fesserie che nel Generalissimo suscitavano il riso). Si sistemò di fronte alla scrivania del Capo, con una tazzina di caffè in mano. Fuori era ancora scuro e lo studio quasi buio, illuminato appena da una lampada che racchiudeva in un cerchio dorato le mani di Trujillo.
– Bisogna far scoppiare quell’ascesso, Eccellenza. Il problema maggiore non è Kennedy, è troppo occupato con il fallimento della sua invasione a Cuba. È la Chiesa. Se non facciamo piazza pulita di queste quinte colonne, avremo dei problemi. Reilly funziona a meraviglia per quelli che chiedono l’invasione. Ogni giorno gli danno piú peso, e intanto fanno pressioni sulla Casa Bianca perché mandi i marines in soccorso del povero vescovo perseguitato. Kennedy è cattolico, non lo dimentichi.
– Tutti siamo cattolici, – sospirò Trujillo. E sbaragliò quell’argomento: – È una ragione per non toccarlo, semmai. Sarebbe come dare ai gringos il pretesto che vanno cercando.
Sebbene vi fossero momenti in cui Trujillo provava fastidio per la franchezza del colonnello, finiva per tollerarla. Il capo del Sim aveva l’ordine di parlargli con totale sincerità, a costo di risultare sgradito. Navajita non aveva avuto il coraggio di usare quella prerogativa come Johnny Abbes.
– Non credo possibile una marcia indietro nei rapporti con la Chiesa, quell’idillio di trent’anni è finito, – parlava lentamente, con gli occhietti agitati nelle orbite, come se esplorasse intorno a sé in cerca di qualcuno in agguato. – Ci ha dichiarato guerra il 25 gennaio 1960, con la Lettera Pastorale dell’Episcopato, e la sua meta è farla finita con il regime. Ai preti non basterà qualche concessione. Non torneranno a darle il loro appoggio, Eccellenza. Allo stesso modo degli yanquis, la Chiesa vuole la guerra. E, nelle guerre, ci sono soltanto due strade: arrendersi o sconfiggere il nemico. I vescovi Panal e Reilly sono in aperta ribellione.
Il colonnello Abbes aveva preparato due piani. Nel primo, usando come scudo i paleros, sicari armati di randelli e coltellacci da Balá, ex recluso al suo servizio, i caliés avrebbero fatto irruzione, come gruppi incontrollati provenienti da una grande manifestazione di protesta contro i vescovi terroristi, nel vescovado de La Vega e nel Colegio Santo Domingo, e avrebbero dato il colpo di grazia ai prelati prima che le forze dell’ordine potessero liberarli. Questa formula era rischiosa; avrebbe potuto provocare l’invasione. Presentava il vantaggio che la morte dei due vescovi avrebbe paralizzato il resto del clero per un bel po’ di tempo. Nell’altro piano, le guardie avrebbero dovuto liberare Panal e Reilly prima che venissero linciati dal popolo scatenato e il governo li avrebbe espulsi alla volta della Spagna e degli Stati Uniti, adducendo a pretesto che era l’unico modo per garantirne l’incolumità. Il Congresso avrebbe approvato una legge secondo cui tutti i sacerdoti che esercitavano il ministero nel paese dovevano essere dominicani di nascita. Quelli stranieri o naturalizzati sarebbero stati riconsegnati ai rispettivi paesi. In questo modo – il colonnello consultò un taccuino – il clero cattolico si sarebbe ridotto a un terzo. La minoranza di preti criollos sarebbe stata manovrabile.
Tacque quando il Benefattore, che se ne stava a capo chino, si sollevò.
– È quello che ha fatto Fidel Castro a Cuba.
Johnny Abbes fece cenno di sí:
– Anche lí la Chiesa aveva cominciato con le proteste, e, alla fine, si era messa a cospirare, preparando il terreno per gli yanquis. Castro ha mandato via i preti stranieri e ha adottato misure draconiane contro quelli che sono rimasti. Che cosa gli è successo? Niente.
– Non ancora, – lo corresse il Benefattore. – Kennedy farà sbarcare i marines a Cuba da un momento all’altro. E questa volta non sarà la fesseria che hanno fatto il mese scorso, alla Baia dei Porci.
– In questo caso, il barbudo morirà combattendo, – convenne Johnny Abbes. – Non è nemmeno impossibile che i marines sbarchino qui. E lei ha deciso che anche noi moriremo combattendo.
Trujillo rise con un tono di beffa. Se si doveva morire combattendo contro i marines, quanti dominicani si sarebbero sacrificati con lui? I soldati, senza dubbio. Lo avevano dimostrato con l’invasione che aveva mandato Fidel, il 14 giugno 1959. Avevano combattuto bene, avevano sterminato gli invasori in pochi giorni, sulle montagne di Constanza, e sulle spiagge di Maimón e di Estero Hondo. Ma, contro i marines…
– Non ce ne saranno molti accanto a me, temo. La fuga dei topi solleverà un grande polverone. Lei, sí, non avrà altra scelta che cadere con me. Dovunque possa andare, l’aspetta il carcere, o di essere assassinato dai nemici che ha in giro per il mondo.
– Me li sono fatti difendendo questo regime, Eccellenza.
– Tra tutti quelli che mi circondano, l’unico che non potrebbe tradirmi, pure se volesse, è lei, – insistette Trujillo, divertito. – Sono l’unica persona a cui può appoggiarsi, che non la odia e che non sogna di ammazzarla. Siamo sposati fino a quando morte non ci separi.
Rise ancora, di buonumore, esaminando il colonnello, come un entomologo con un insetto difficile da catalogare. Si dicevano molte cose su di lui, soprattutto sulla sua crudeltà. Era conveniente per uno che esercitava un incarico come il suo. Per esempio, che il padre, nordamericano di origine tedesca, scoprí che il piccolo Johnny, ancora con i pantaloni corti, bucava con le spille gli occhi ai galletti del pollaio. Che, da giovane, vendeva agli studenti di Medicina cadaveri che rubava dalle tombe del Cementerio Independencia. Che, nonostante fosse sposato con Lupita, quell’orribile e aggressiva messicana che andava in giro con una pistola nella borsetta, era una checca. E che addirittura andava a letto con il fratellastro del Generalissimo, Nene Trujillo.
– Lei sa quante dicerie si fanno da queste parti, – buttò lí, guardandolo negli occhi e sempre ridendo. – Qualcuna dev’essere vera. Giocava a strappare gli occhi alle galline? Saccheggiava le tombe del Cementerio Independencia per vendere cadaveri?
Il colonnello sorrise appena.
– La prima cosa non deve essere vera, non la ricordo. La seconda è una mezza verità. Non erano cadaveri, Eccellenza. Ossa, teschi, già mezzo dissepolti dalla pioggia. Per guadagnare qualche peso. Adesso dicono che, come capo del Sim, sto restituendo quelle ossa.
– E quella secondo cui lei sarebbe una checca?
Neppure questa volta si alterò il colonnello. La sua voce continuava a essere di una indifferenza clinica.
– La cosa non mi ha mai interessato, Eccellenza. Non sono mai andato a letto con un uomo.
– Bene, basta con queste coglionate, – tagliò corto, facendosi serio. – Non tocchi i vescovi, per adesso. Poi vedremo, a seconda di come evolvono le cose. Se li si può punire, lo si farà. Per il momento, che siano tenuti d’occhio attentamente. Continui con la guerra dei nervi. Non devono dormire né mangiare tranquilli. Vediamo se decidono di andarsene da soli.
L’avrebbero spuntata quel paio di vescovi e ne sarebbero usciti baldanzosi come quel sorcio nero di Betancourt? Ancora una volta, lo prese la collera. Quella bestia di Caracas aveva ottenuto che l’Osa stabilisse sanzioni contro la Repubblica Dominicana, che tutti i paesi interrompessero le relazioni e applicassero pressioni economiche che stavano asfissiando il paese. Giorno dopo giorno, ora dopo ora, provocavano danni a quella che era stata una economia risplendente. E Betancourt, ancora vivo, che si ammantava di libertà, mostrando alla televisione le sue mani bruciate, orgoglioso di essere sopravvissuto a quell’attentato stupido, che non si sarebbe mai dovuto lasciare nelle mani di quei militari venezuelani coglioni. Il prossimo sarebbe stato affidato per intero al Sim. In maniera tecnica, impersonale. Abbes gli spiegò il nuovo piano operativo, che sarebbe culminato nella potente esplosione, azionata con un comando a distanza, dell’ordigno comprato a peso d’oro in Cecoslovacchia, che adesso si trovava già nel consolato dominicano a Haití. Da là sarebbe stato facile portarlo a Caracas al momento opportuno.
Dal 1958, quando aveva deciso di promuoverlo all’incarico che ricopriva, il Benefattore si riuniva ogni giorno con il colonnello, in questo ufficio, nella Casa de Caoba, o nel posto in cui Trujillo si trovava, sempre a quella stessa ora. Come il Generalissimo, Johnny Abbes non prendeva mai vacanze. Trujillo aveva sentito parlare di lui, per la prima volta, dal generale Espaillat. Il precedente capo del Servicio de Inteligencia lo aveva sorpreso con un rapporto preciso e dettagliato sugli esuli dominicani a Città del Messico: che cosa facevano, che cosa tramavano, dove abitavano, dove si riunivano, chi erano quelli che li aiutavano, quali diplomatici andavano a trovare.
– Quante persone ha mandato in Messico, per essere cosí informato su tutte quelle canaglie?
– Tutte le mie informazioni provengono da una persona sola, Eccellenza –. Navajita fece un gesto di soddisfazione personale. – Molto giovane. Johnny Abbes García. Forse lei ha conosciuto il padre, un gringo mezzo tedesco che era venuto a lavorare nella compagnia elettrica e aveva sposato una dominicana. Il ragazzo faceva il giornalista sportivo e anche un po’ il poeta. Ho cominciato a usarlo come informatore sulla gente della radio e della stampa, e sugli incontri della Farmacia Gómez, ai quali partecipano molti intellettuali. Lo ha fatto cosí bene che l’ho mandato a Città del Messico, con una falsa borsa di studio. E, come vede, si è guadagnato la fiducia di tutto il gruppo degli esuli. Se la cava bene con cani e con gatti. Non so come faccia, Eccellenza, ma a Città del Messico è riuscito addirittura a entrare in confidenza con Lombardo Toledano, il leader sindacale di sinistra. La racchia che ha sposato era la segretaria di quel comunista, s’immagini.
Povero Navajita! Parlando con tanto entusiasmo, cominciava a perdere l’incarico di capo di quel Servicio de Inteligencia per il quale lo avevano preparato a West Point.
– Lo faccia venire qui, gli dia un posto dove io lo possa osservare, – ordinò Trujillo.
Cosí aveva fatto la sua apparizione nei corridoi del Palacio Nacional quella figura goffa, preoccupata, dagli occhietti in perenne agitazione. Andò a svolgere un incarico infimo nell’ufficio informazioni. Trujillo, a distanza, lo studiava. Sin da molto giovane, a San Cristóbal, seguiva quelle intuizioni che, dopo una semplice occhiata, una breve conversazione o soltanto un accenno, gli davano la certezza che quella persona avrebbe potuto servirgli. Cosí aveva scelto un buon numero di collaboratori e non gli era andata male. Johnny Abbes García lavorò diverse settimane in un ufficio buio, sotto la direzione del poeta Ramón Emilio Jiménez, con Dipp Velarde Font, Querol e Grimaldi, scrivendo lettere di presunti lettori a El Foro Público del quotidiano «El Caribe». Prima di metterlo alla prova attese, senza sapere che cosa, un’indicazione del caso. Il segnale arrivò nel modo piú inatteso, il giorno in cui sorprese in un corridoio del Palacio Johnny Abbes che conversava con uno dei suoi segretari di Stato. Di che cosa poteva parlare l’irreprensibile, devoto e austero Joaquín Balaguer con l’informatore di Navajita?
– Niente di speciale, Eccellenza, – spiegò Balaguer, durante la presentazione del rapporto ministeriale. – Non conoscevo quel giovane. Vedendolo tutto concentrato nella lettura, dato che leggeva mentre camminava, fui preso dalla curiosità. Lei lo sa, la mia grande passione sono i libri. Ero rimasto sorpreso. Non dev’essere del tutto a posto. Lo sa che cosa lo divertiva tanto? Un libro sulle torture cinesi, con fotografie di decapitati e scuoiati.
Quella sera lo mandò a chiamare. Abbes sembrava cosí annebbiato – di allegria, di paura o di entrambe le cose – a causa dell’inatteso onore che a stento gli uscivano le parole mentre salutava il Benefattore.
– Ha fatto un buon lavoro in Messico, – gli disse, con la vocina flautata e tagliente che, allo stesso modo del suo sguardo, esercitava anche un effetto paralizzante sui suoi interlocutori. – Espaillat mi ha informato. Penso che lei possa assumere incarichi piú seri. È disposto?
– Qualunque cosa ordini Sua Eccellenza, – stava fermo, a piedi uniti, come uno scolaro di fronte al maestro.
– Ha conosciuto José Almoina, là a Città del Messico? Un galiziano venuto qui con gli spagnoli repubblicani esiliati.
– Sí, Eccellenza. Be’, lui soltanto di vista. Ma ho conosciuto bene molti del gruppo con il quale si riunisce, al Café Comercio. Gli «spagnoli dominicani», come si definiscono loro stessi.
– Quel soggetto ha pubblicato un libro contro di me, Una satrapía en el Caribe, pagato dal governo guatemalteco. Lo ha firmato con lo pseudonimo Gregorio Bustamante. Poi, per disorientare, ha avuto la disinvoltura di pubblicare un altro libro, in Argentina, questo con il suo vero nome, Yo fui secretario de Trujillo, in cui mi innalza alle stelle. Poiché sono passati diversi anni, si sente al sicuro là a Città del Messico. Crede che io abbia potuto dimenticare che ha diffamato la mia famiglia e il regime che gli ha dato da mangiare. Queste sono colpe che non cadono in prescrizione. Se ne vuole occupare?
– Sarebbe un grande onore, Eccellenza, – rispose Abbes García immediatamente, con una sicurezza che non aveva mostrato fino a quel momento.
Qualche tempo dopo, l’ex segretario del Generalissimo, precettore di Ramfis e scribacchino di doña María Martínez, la Prestante Dama, moriva nella capitale messicana crivellato di pallottole. Vi fu il clamore prevedibile da parte degli esuli e della stampa, ma nessuno poté provare, come dicevano quelli, che l’assassinio fosse stato eseguito dalla «lunga mano di Trujillo». Un’operazione rapida, impeccabile, e che costò appena millecinquecento dollari, stando al conto che Johnny Abbes García presentò, al suo ritorno dal Messico. Il Benefattore lo fece entrare nell’Esercito con il grado di colonnello.
La scomparsa di José Almoina fu soltanto una nella lunga sequenza di brillantissime operazioni compiute dal colonnello, che uccisero o lasciarono storpi o feriti dozzine di esuli, tra quelli che piú facevano sentire la loro voce, a Cuba, in Messico, in Guatemala, a New York, in Costa Rica e in Venezuela. Lavori lampo, senza tracce, che impressionarono il Benefattore. Ognuno di essi un piccolo capolavoro per l’abilità e la discrezione, un lavoro di orologeria. La maggior parte delle volte, oltre a farla finita con il nemico, Abbes García si diede da fare anche per rovinare la sua reputazione. Il sindacalista Roberto Lamada, rifugiato a La Habana, morí in seguito alle botte ricevute in un postribolo del Barrio Chino, per mano di alcuni ruffiani che lo accusarono di fronte alla polizia di aver tentato di accoltellare una prostituta che si era rifiutata di sottostare alle perversioni sadomasochistiche che l’esule pretendeva da lei; la donna, una mulatta con i capelli tinti di rosso, apparve su «Carteles» e «Bohemia», in lacrime, mostrando le ferite che il degenerato le aveva inferto. L’avvocato Bayardo Cipriota morí a Caracas in una rissa tra checche: lo trovarono pugnalato in una pensione sordida, con reggipetto e mutande da donna, e il rossetto sulle labbra. Il referto legale precisò che aveva dello sperma nel retto. Come riusciva il colonnello Abbes a entrare in contatto cosí rapidamente in città che conosceva appena con quelle bestie dei bassifondi, pistoleros, sicari, trafficanti, accoltellatori, prostitute, magnaccia, ladruncoli che partecipavano sempre a quelle operazioni sanguinolente, che facevano la gioia della stampa scandalistica, in cui si vedevano coinvolti i nemici del regime? Come è riuscito a montare per quasi tutta l’America Latina e gli Stati Uniti una rete cosí efficiente di informatori e manovali spendendo cosí pochi soldi? Il tempo di Trujillo era troppo prezioso perché potesse perderne a verificare i dettagli. Ma, a distanza, ammirava, come un intenditore ammira un gioiello prezioso, l’astuzia e l’originalità con cui Johnny Abbes García liberava il regime dai suoi nemici. Neppure i gruppi di esuli né i governi avversari poterono stabilire alcun nesso tra questi incidenti e fatti orrendi e il Generalissimo. Una delle realizzazioni piú perfette fu quella di Ramón Marrero Aristy, l’autore di Over, il romanzo sui tagliatori di canna de La Romana conosciuto in tutta l’America Latina. Già direttore de «La Nación», quotidiano freneticamente trujillista, Marrero fu segretario di Stato per il Lavoro, nel 1956, e nel 1959 lo era per la seconda volta, quando cominciò a passare informazioni al giornalista Tad Szulc, affinché infangasse il regime nei suoi articoli per il «New York Times». Vedendosi scoperto, mandò lettere di rettifica al giornale gringo. E andò con la coda tra le gambe nell’ufficio di Trujillo, a umiliarsi, a piangere, a chiedere perdono, a giurare che lui non l’aveva tradito né mai lo avrebbe tradito. Il Benefattore lo ascoltò senza aprire bocca e poi, freddamente, lo schiaffeggiò. Marrero, che sudava, cercò di prendere un fazzoletto, e il capo degli assistenti militari, colonnello Guarionex Estrella Sadhalá, lo uccise con un solo colpo lí nello studio. Incaricato Abbes García di concludere l’operazione, meno di un’ora dopo un’auto rotolava giú – di fronte a testimoni – per un precipizio nella Cordillera Central, mentre viaggiava in direzione di Constanza; Marrero Aristy e il suo autista risultarono irriconoscibili dopo l’impatto. Non era ovvio che il colonnello Johnny Abbes García avrebbe dovuto sostituire Navajita alla guida del Servicio de Inteligencia? Se lui fosse stato a capo di quell’organismo all’epoca del sequestro di Galíndez a New York, che era stato diretto da Espaillat, probabilmente non sarebbe scoppiato quello scandalo che aveva provocato tanti danni all’immagine internazionale del regime.
Trujillo indicò il rapporto sulla scrivania con aria indispettita:
– Un’altra cospirazione per uccidermi, con Juan Tomás Díaz alla testa? Organizzata anche questa dal console Henry Dearborn, il coglione della Cia?
Il colonnello Abbes García abbandonò la sua immobilità per sistemare le sue natiche sulla sedia.
– Cosí sembra, Eccellenza, – assentí, senza dare importanza alla cosa.
– Bell’affare, – lo interruppe Trujillo. – Hanno rotto le relazioni con noi, per rispettare la risoluzione dell’Osa. E si sono ripresi i diplomatici, ma ci hanno lasciato Henry Dearborn e i suoi agenti, per continuare a tramare complotti. È certo che Juan Tomás stia complottando?
– No, Eccellenza, soltanto vaghi indizi. Ma da quando lei lo ha destituito, il generale Díaz è un mare di risentimento e per questo lo sorveglio da vicino. Fa quelle riunioni, nella sua casa di Gazcue. Da uno che nutre risentimento, ci si deve sempre aspettare il peggio.
– Non è stato per quella destituzione, – commentò Trujillo, a voce alta, come se parlasse tra sé. – È stato perché gli ho detto che è un codardo. Per avergli ricordato che aveva disonorato la divisa.
– Ho partecipato a quel pranzo, Eccellenza. Ho pensato che il generale Díaz si sarebbe alzato e se ne sarebbe andato. Ma ha sopportato, livido, sudando. È uscito incespicando, come se fosse stato ubriaco.
– Juan Tomás è stato sempre molto orgoglioso e aveva bisogno di una lezione, – disse Trujillo. – Il suo comportamento, a Constanza, è stato quello di un debole. Io non ammetto che vi siano generali deboli nelle Forze Armate dominicane.
L’incidente era accaduto alcuni mesi dopo che erano stati sventati gli sbarchi di Constanza, Maimón e Estero Hondo, quando tutti i membri della spedizione – nella quale, oltre a dominicani, c’erano cubani, nordamericani e venezuelani – erano morti o imprigionati, nei giorni in cui, nel gennaio 1960, il regime scopriva una vasta rete di oppositori clandestini, che, in omaggio a quell’invasione, si chiamava 14 de Junio. Ne facevano parte studenti e giovani professionisti della classe media e alta, molti dei quali provenivano da famiglie del regime. Nel pieno di quella operazione di pulizia contro l’organizzazione sovversiva, in cui erano attive le tre sorelle Mirabal e i loro mariti – il solo ricordo smuoveva la bile del Generalissimo –, Trujillo invitò a quel pranzo nel Palacio Nacional circa cinquanta personaggi militari e civili del regime, per dare una lezione al suo amico d’infanzia, compagno nella carriera militare, che aveva occupato le piú alte cariche nelle Forze Armate durante l’Era, e che aveva destituito dal comando della Regione de La Vega, che comprendeva Constanza, quando ancora non erano stati sterminati gli ultimi focolai di invasori disseminati su quelle montagne. Il generale Tomás Díaz aveva chiesto invano un’udienza al Generalissimo da allora. Dovette rimanere sorpreso nel ricevere l’invito per quel pranzo, dopo che sua sorella Gracita aveva chiesto asilo nell’ambasciata del Brasile. Il Capo non lo salutò né gli rivolse la parola durante il pranzo, né diede una sola occhiata all’angolo della lunga tavola dove era stato fatto sedere il generale Díaz, molto lontano dal capotavola, simbolica indicazione del suo essere caduto in disgrazia.
Mentre servivano il caffè, all’improvviso, al di sopra del brusio delle conversazioni che sovrastavano la lunga tavola, i marmi delle pareti e i cristalli del lampadario acceso – unica donna era Isabel Mayer, caudilla trujillista del nord-ovest –, la vocina acuta che tutti i dominicani conoscevano si alzò, con il tono metallico che preannunciava tempesta:
– Non vi sorprende, signori, la presenza a questa tavola, tra i piú rinomati militari e civili del regime, di un ufficiale destituito dall’incarico per non essere stato all’altezza del suo compito sul campo di battaglia?
Scese il silenzio. Il mezzo centinaio di teste che circondava l’immenso quadrilatero di tovaglie ricamate si fece immobile. Il Benefattore non guardava verso l’angolo del generale Díaz. Il suo viso passava in rassegna gli altri commensali, uno per uno, con espressione di sorpresa, gli occhi spalancati e le labbra socchiuse, chiedendo ai suoi invitati di aiutarlo a decifrare il mistero.
– Sapete di chi parlo? – continuò, dopo quella pausa teatrale. – Il generale Juan Tomás Díaz, capo della Regione Militare de La Vega durante l’invasione cubano-venezuelana, è stato destituito in piena guerra per condotta indegna di fronte al nemico. In qualunque altro posto, un comportamento simile viene punito con il giudizio sommario e la fucilazione. Nella dittatura di Rafael Leónidas Trujillo Molina, il generale fellone viene invitato a pranzo al Palacio con il fior fiore del paese.
Disse l’ultima frase molto lentamente, scandendo le parole, per rafforzare il loro sarcasmo.
– Se lei permette, Eccellenza, – balbettò, con uno sforzo sovrumano, il generale Juan Tomás Díaz. – Vorrei ricordare che quando sono stato destituito, gli invasori erano stati sconfitti. Io ho compiuto il mio dovere.
Era un uomo forte e tarchiato, ma si era come rimpicciolito sulla sua sedia. Era molto pallido e continuava a deglutire saliva. Guardava il Benefattore, ma lui, quasi che non lo avesse visto né sentito, scorreva per la seconda volta con lo sguardo sugli invitati con una nuova tirata:
– E non soltanto viene invitato al Palacio. Lo si manda in pensione con lo stipendio intero e con le sue prerogative di generale a tre stelle, perché possa riposare con la coscienza del dovere compiuto. E si gode, nelle sue tenute dove alleva il bestiame, in compagnia di Chana Díaz, la sua quinta moglie che è anche sua nipote di primo grado, il meritato riposo. Quale maggiore prova di magnanimità da parte di questa dittatura sanguinaria?
Quando ebbe finito di parlare, la testa del Benefattore aveva completato il giro della tavola. A quel punto, si soffermò sull’angolo del generale Juan Tomás Díaz. La faccia del Capo non era piú quella ironica, melodrammatica, di qualche momento prima. L’aveva invasa una serietà mortale. I suoi occhi avevano assunto la fissità oscura, perforante, implacabile, con cui ricordava alla gente chi comandava in quel paese e sulle vite dominicane. Juan Tomás Díaz abbassò lo sguardo.
– Il generale Díaz ha rifiutato di eseguire un mio ordine e si è permesso di riprendere un ufficiale che lo stava compiendo, – disse, lentamente, con disprezzo. – In piena invasione. Quando i nemici armati da Fidel Castro, da Muñoz Marín, Betancourt e Figueres, quella banda di invidiosi, erano sbarcati mettendo tutto a ferro e fuoco, e assassinato soldati dominicani, pronti a staccare la testa di tutti noi che siamo seduti a questa tavola. Allora, il capo militare de La Vega scoprí di essere un uomo compassionevole. Un uomo delicato, nemico delle emozioni forti, che non poteva veder scorrere il sangue. E si è permesso di disattendere il mio ordine di fucilare sul posto ogni invasore catturato con il fucile in mano. E di insultare un ufficiale che, rispettoso del comando, dava quel che meritavano a coloro che erano venuti qui a insediare una dittatura comunista. Il generale si è permesso, in quei momenti di pericolo per la Patria, di seminare la confusione e di debilitare il morale dei nostri soldati. Per questo non fa piú parte dell’Esercito, anche se ancora indossa la divisa.
Tacque, per bere un sorso d’acqua. Ma, appena lo ebbe fatto, anziché proseguire, in modo del tutto improvviso, si alzò in piedi e si accomiatò, dando per concluso il pranzo: «Buonasera, signori».
– Juan Tomás non ha neppure provato ad andare via, perché sapeva che non sarebbe arrivato vivo alla porta, – disse Trujillo. – Allora, in quale cospirazione è coinvolto.
Niente di concreto, in realtà. Nella sua casa di Gazcue, da qualche tempo, il generale Díaz e la moglie Chana ricevevano molte visite. Il pretesto era vedere dei film, che si proiettavano nel patio, all’aria aperta, con un’attrezzatura manovrata dal genero del padrone di casa. Una curiosa mescolanza, i suoi ospiti. Da noti uomini del regime, come il suo suocero e fratello, Modesto Díaz Quesada, fino a ex funzionari allontanati dal governo, come Amiama Tió e Antonio de la Maza. Il colonnello Abbes García aveva trasformato in calié uno dei domestici, da un paio di mesi. Ma la sola cosa che aveva scoperto era che quei signori, mentre vedevano i film, parlavano incessantemente, come se i film li interessassero soltanto perché facevano abbassare il tono delle conversazioni. Insomma, non erano riunioni in cui si parlava male del governo tra un bicchiere e l’altro di ron o di whisky, tanto da doverle prendere in considerazione. Se non che, il giorno prima, il generale Díaz aveva avuto un incontro segreto con un emissario di Henry Dearborn, il presunto diplomatico yanqui, che, come Sua Eccellenza sapeva, era il capo della Cia a Ciudad Trujillo.
– Gli avrà chiesto un milione di dollari per la mia testa, – commentò Trujillo. – Il gringo dev’essere disgustato da un simile imbecille che gli chiede un aiuto economico per farla finita con me. Dove si sono visti?
– All’Hotel El Embajador, Eccellenza.
Il Benefattore rifletté, un momento. Poteva essere capace, Juan Tomás, di mettere in piedi qualcosa di serio? Vent’anni prima, forse. Era un uomo d’azione, allora. Poi, si era abbandonato ai sensi. Gli piacevano troppo il bere e i combattimenti di galli, mangiare, divertirsi con gli amici, sposarsi e separarsi, per rischiare tutto questo cercando di rovesciarlo. Non stavano puntando su un buon cavallo, i gringos. Ba’, non c’era da preoccuparsi.
– D’accordo, Eccellenza, credo che, per il momento, non vi sia pericolo con il generale Díaz. Sto sui suoi passi. Sappiamo chi lo va a trovare e chi va a trovare lui. Il suo telefono è sotto controllo.
C’era qualcos’altro? Il Benefattore diede un’occhiata alla finestra: era ancora buio come prima, sebbene presto sarebbero state le sei. Ma non regnava piú il silenzio. In lontananza, nei dintorni del Palacio Nacional, separato dalle strade da una vasta estensione di prati e alberi e circondato da un’alta inferriata con le lance, passava ogni tanto un’automobile che suonava il clacson e, all’interno dell’edificio, sentiva gli addetti alle pulizie che spolveravano, spazzavano, inceravano. Avrebbe trovato uffici e corridoi puliti e splendenti quando avrebbe dovuto attraversarli. Questa idea gli suscitò benessere.
– Mi perdoni se insisto, Eccellenza, ma vorrei reintrodurre le misure di sicurezza. In avenida Máximo Gómez e lungo il Malecón, mentre lei fa la sua passeggiata. E per la strada che percorre per andare alla Casa de Caoba.
Un paio di mesi prima aveva ordinato, in modo intempestivo, di sospendere le misure di sicurezza. Perché? Forse perché, un pomeriggio, durante una delle sue passeggiate all’ora del tramonto, scendendo lungo Máximo Gómez in direzione del mare, aveva avvertito la presenza, a tutti gli incroci, di sbarramenti di polizia che impedivano a passanti e automobili di entrare nell’Avenida e sul Malecón finché durava la sua camminata. E aveva immaginato la miriade di cepillos, le Volkswagen con caliés che Johnny Abbes aveva sparpagliato per tutti i dintorni del suo percorso. Aveva provato oppressione, claustrofobia. Gli era successo anche qualche sera, mentre andava all’Hacienda Fundación, scorgendo lungo la strada i cepillos e gli sbarramenti militari che aspettavano il suo passaggio. O era il fascino che il pericolo aveva sempre esercitato su di lui – lo spirito indomito del marine – che lo portava a sfidare cosí la sorte nel momento di maggiore minaccia per il regime? In ogni caso, era una decisione che non avrebbe revocato.
– L’ordine rimane valido, – ripeté, in un tono che non ammetteva repliche.
– Bene, Eccellenza.
Rimase a guardare il colonnello negli occhi – che abbassò i suoi, immediatamente – e gli buttò lí, con una scintilla di sarcasmo:
– Lei crede che il suo ammirato Fidel Castro vada in giro per le strade come me, senza protezione?
Il colonnello fece cenno di no con il capo.
– Non credo che Fidel Castro sia romantico quanto lei, Eccellenza.
Romantico, lui? Forse con qualcuna delle donne che aveva amato, forse con Lina Lovatón. Ma, al di fuori del campo sentimentale, in quello politico, lui si era sentito sempre un classico. Razionalista, sereno, pragmatico, dalla mente fredda e dalla vista lunga.
– Quando l’ho conosciuto, in Messico, stava preparando la spedizione del Granma. Lo credevano un cubano mezzo matto, un avventuriero per niente serio. Mi ha impressionato sin dal primo momento per la sua totale mancanza di emozioni. Anche se nei suoi discorsi può apparire tropicale, esuberante, appassionato. Questo è per il pubblico. È l’opposto. Un’intelligenza di ghiaccio. Io ho sempre saputo che sarebbe arrivato al potere. Ma mi consenta di chiarire un punto, Eccellenza. Ammiro la personalità di Castro, il modo in cui ha saputo beffare i gringos, allearsi con i russi e con i paesi comunisti usandoli come paraurti contro Washington. Non ammiro le sue idee, io non sono comunista.
– Lei è un capitalista fatto e finito, – disse Trujillo prendendosi gioco di lui, con una risatina beffarda. – Con Ultramar ha fatto ottimi affari, importando prodotti dalla Germania, dall’Austria e dai paesi socialisti. Le rappresentanze in esclusiva non hanno perdite.
– Un’altra cosa di cui esserle grato, Eccellenza, – ammise il colonnello. – A dire la verità, non mi sarebbe venuto in mente. Non mi hanno mai interessato gli affari. Ho aperto Ultramar perché lei me lo ha ordinato.
– Preferisco che i miei collaboratori facciano buoni affari piuttosto che si dedichino a rubare, – spiegò il Benefattore. – I buoni affari servono al paese, danno lavoro, producono ricchezza, sollevano il morale del popolo. Invece, i furti lo demoralizzano. Immagino che, dopo le sanzioni, anche per Ultramar le cose vadano male.
– Praticamente, paralizzate. Non m’importa, Eccellenza. Adesso, le mie ventiquattro ore del giorno sono dedicate a impedire che i nemici distruggano questo regime e la uccidano.
Aveva parlato senza emozione, con lo stesso tono opaco, neutro, con cui si esprimeva normalmente.
– Ne devo concludere che mi ammira quanto ammira quel coglione di Castro? – aggiunse Trujillo, cercando i suoi occhietti evasivi.
– Non è che io l’ammiri, Eccellenza, – sussurrò il colonnello Abbes, chinando gli occhi verso terra. – Io vivo attraverso di lei. Per lei. Se me lo consente, io sono il suo cane da guardia.
Al Benefattore sembrò che, nel dire l’ultima frase, a Abbes García gli fosse tremata la voce. Sapeva che non era affatto emotivo, né portato a quelle effusioni cosí frequenti in bocca ad altri cortigiani, e cosí rimase a osservarlo, con il suo sguardo di coltello.
– Se mi uccidono, lo farà qualcuno che mi è molto prossimo, un traditore di famiglia, diciamo, – disse, come se stesse parlando di un’altra persona. – Per lei, sarebbe una grande disgrazia.
– Anche per il paese, Eccellenza.
– Per questo sono rimasto in sella, – approvò Trujillo. – Altrimenti, mi sarei ritirato, come sono venuti a consigliarmi, inviati dal Presidente Eisenhower, William Pawley, il generale Clark e il senatore Smathers, i miei amici yanquis. «Passi alla storia come uno statista magnanimo, che ha ceduto il timone ai giovani». Cosí mi ha detto Smathers, l’amico di Roosevelt. Era un messaggio della Casa Bianca. Per questo sono venuti. A chiedermi di andarmene e a offrirmi asilo negli Stati Uniti. «Lí le sarà assicurato il suo patrimonio». Quei coglioni mi confondono con Batista, con Rojas Pinilla, con Pérez Jiménez. A me, mi toglieranno di mezzo soltanto da morto.
Il Benefattore si distrasse di nuovo, perché si era ricordato di Guadalupe, Lupe per gli amici, la messicana corpulenta e mascolina con cui si era sposato Johnny Abbes in quel periodo misterioso e avventuroso della sua vita in Messico, quando, da un lato, inviava minuziosi rapporti a Navajita sull’operato degli esuli dominicani, e, dall’altro, frequentava circoli rivoluzionari, come quello di Fidel Castro, del Che Guevara e dei cubani del 26 de Julio, che preparavano la spedizione del Granma, e persone come Vicente Lombardo Toledano, molto legato al governo di Città del Messico, che era stato il suo protettore. Il Generalissimo non aveva mai avuto il tempo di interrogarlo con calma su quella fase della sua vita, in cui il colonnello aveva scoperto la sua vocazione e il suo talento per lo spionaggio e per le operazioni clandestine. Una vita gustosa, senza dubbio, piena di aneddoti. Perché mai si era sposato con quella donna orrenda?
– C’è una cosa che dimentico sempre di domandarle, – disse, con la crudezza con cui parlava ai suoi collaboratori. – Come mai si è sposato con una donna cosí brutta?
Non poté cogliere il minimo movimento di sorpresa sulla faccia di Abbes García.
– Non è stato per amore, Eccellenza.
– Questo l’ho sempre saputo, – disse il Benefattore, sorridendo. – Lei non è ricca, e quindi non è stato un matrimonio d’interesse.
– Per gratitudine. Lupe mi ha salvato la vita, una volta. Lei ha ucciso per me. Quando era segretaria di Lombardo Toledano, io ero appena arrivato in Messico. Grazie a Vicente ho cominciato a capire che cos’è la politica. Molto di quello che ho fatto non sarebbe stato possibile senza Lupe, Eccellenza. Lei non sa che cosa sia la paura. E, oltretutto, ha un istinto che finora ha sempre funzionato.
– Lo so che è risoluta, che sa lavorare, che si porta dietro una pistola e frequenta i casini, come i maschi, – disse il Generalissimo, di eccellente umore. – Ho perfino sentito dire che Puchita Brazobán le procura delle ragazzine. Ma quello che mi incuriosisce è che a quel mostro lei abbia potuto farle fare dei figli.
– Cerco di essere un bravo marito, Eccellenza.
Il Benefattore si mise a ridere, con la risata sonora di altri tempi.
– Lei sa essere divertente, quando vuole, – si rallegrò. – E cosí l’ha presa per gratitudine. È capace di trovare sempre le parole giuste, dunque.
– Per modo di dire, Eccellenza. In realtà, non amo Lupe né lei ama me. Non, almeno, nel modo in cui si intende l’amore. Siamo uniti da qualcosa di piú forte. Rischi condivisi spalla a spalla, guardando in faccia la morte. E molto sangue, che ci macchia tutt’e due.
Il Benefattore assentí. Capiva che cosa intendeva dire. A lui sarebbe piaciuto avere una donna come quello spaventapasseri, cazzo. Non si sarebbe sentito cosí solo, a volte, nel momento di prendere certe decisioni. Niente univa quanto il sangue, sicuro. Doveva essere per questo che lui si sentiva cosí legato a quel paese di ingrati, codardi e traditori. Perché, per tirarlo fuori dall’arretratezza, dal caos, dall’ignoranza e dalla barbarie, si era macchiato di sangue molte volte. Gliene sarebbero stati grati in futuro quei coglioni?
Ancora una volta cadde su di lui una certa demoralizzazione. Fingendo di guardare l’ora, si controllò con la coda dell’occhio i pantaloni. Non c’era nessuna macchia tra le gambe né sulla patta. Quella verifica non gli sollevò l’animo. Di nuovo passò per la sua mente il ricordo della ragazzetta della Casa de Caoba. Spiacevole episodio. Sarebbe stato meglio spararle un colpo, lí per lí, mentre lo guardava con quegli occhi? Sciocchezze. Lui non aveva mai sparato gratuitamente, e tanto meno per questioni di letto. Soltanto quando non c’era alternativa, quando era assolutamente indispensabile per portare avanti il paese, o per lavare un affronto.
– Mi scusi, Eccellenza.
– Sí.
– Il Presidente Balaguer ha annunciato ieri sera alla radio che il governo libererà un gruppo di prigionieri politici.
– Balaguer ha fatto quello che gli ho ordinato. Perché?
– Avrei bisogno dell’elenco di quelli che saranno liberati. Per fargli tagliare i capelli, farli radere e vestirli in modo decente. Immagino che saranno presentati alla stampa.
– Le manderò la lista appena l’avrò verificata. Balaguer pensa che questi gesti siano convenienti, in campo diplomatico. Vedremo. In ogni caso, ha presentato bene il provvedimento.
Aveva sulla scrivania il discorso di Balaguer. Lesse a voce alta il passo sottolineato: «L’opera di Sua Eccellenza il Generalissimo Dr. Rafael L. Trujillo Molina ha conseguito tale solidità che ci consente, dopo trent’anni di pace nell’ordine e di esercizio consecutivo della sua guida, di offrire all’America un esempio della capacità latinoamericana di praticare coscientemente la vera democrazia rappresentativa».
– Ben scritto, non è vero? – commentò. – È il vantaggio di avere un poeta e letterato per Presidente della Repubblica. Quando era mio fratello a occupare la Presidenza, i discorsi che il Negro leggeva erano soporiferi. Bene, so che Balaguer non le piace.
– Io non mescolo le mie simpatie o antipatie personali al mio lavoro, Eccellenza.
– Non ho mai capito perché diffida di lui. Balaguer è il piú inoffensivo tra i miei collaboratori. Per questo l’ho messo dove si trova.
– Io credo che il suo modo di essere, cosí discreto, sia una strategia. Che, in fondo, non è un uomo del regime, ma che lavora soltanto per Balaguer. Può darsi che sbagli. Per il resto, non ho trovato niente di sospetto nel suo comportamento. Ma non metterei la mano sul fuoco per la sua lealtà.
Trujillo guardò l’orologio. Due minuti alle sei. La sua riunione con Abbes García non durava piú di un’ora, tranne occasioni particolari. Si alzò in piedi e il capo del Sim lo imitò.
– Se cambio opinione sui vescovi, glielo farò sapere, – disse, per congedarlo. – Mantenga tutto pronto, comunque.
– Si può dare il via nell’istante in cui lei deciderà. Con il suo permesso, Eccellenza.
Appena Abbes García uscí dal suo studio, il Benefattore andò a spiare il cielo, dalla finestra. Nemmeno un raggio di luce, ancora.