Capitolo ottavo

I capelli che gli mancavano sulla testa eccedevano dalle sue orecchie, i cui ciuffi di peli nerissimi sbucavano, aggressivi, come grottesca compensazione alla calvizie del Costituzionalista Sbronzo. Era stato sempre lui ad affibbiargli quel nomignolo, prima di ribattezzarlo, nel suo intimo, l’Inmundicia Viviente? Il Benefattore non lo ricordava. Molti di quei soprannomi feroci con cui bollava la gente diventavano carne delle loro vittime e finivano per sostituirne i nomi. Cosí era accaduto con il senatore Henry Chirinos, che nessuno nella Repubblica Dominicana, tranne i giornali, conosceva ormai con il suo nome, ma soltanto con il suo devastante epiteto: il Costituzionalista Sbronzo. Aveva l’abitudine di carezzare le untuose setole che gli si annidavano nelle orecchie e, sebbene il Generalissimo, con la sua mania ossessiva per la pulizia, gli avesse proibito di farlo davanti a lui, in quel momento lo stava facendo e, per di piú, alternava quella porcheria a un’altra: si lisciava i peli del naso. Era nervoso, molto nervoso. Lui sapeva perché: gli portava un rapporto negativo sull’andamento degli affari. Ma il colpevole del fatto che le cose andavano male non era Chirinos, erano le sanzioni imposte dall’Osa, che stavano soffocando il paese.

– Se continui a rimestare il naso e le orecchie, chiamo gli assistenti e ti faccio bastonare, – disse, di malumore. – Ti ho proibito di fare quelle porcherie, qui. Sei ubriaco?

Il Costituzionalista Sbronzo fece un balzo sulla sedia, davanti alla scrivania del Benefattore. Allontanò le mani dalla faccia.

– Non ho bevuto nemmeno una goccia d’alcol, – si scusò, confuso. – Lei sa che non sono un bevitore diurno, Capo. Soltanto crepuscolare e notturno.

Portava un vestito che al Generalissimo sembrò un monumento al cattivo gusto: tra il plumbeo e il verdastro, con riflessi cangianti; come tutto quello che indossava, sembrava forzato sul suo corpo obeso con il calzatoio. Sulla sua camicia bianca dondolava una cravatta azzurrina a pallini gialli su cui lo sguardo severo del Benefattore scoprí macchie di unto. Con disgusto, pensò che quelle macchie doveva essersele fatte mangiando, perché il senatore Chirinos mangiava ingoiando enormi bocconi che ingurgitava rapidamente come se temesse che i vicini gli potessero portare via il suo piatto, e masticando con la bocca semiaperta, da cui sputava fuori una pioggerellina di residui.

– Le giuro che non ho una sola goccia di alcol in corpo, – ripeté. – Soltanto il caffè della colazione.

Probabilmente, era vero. Vedendolo entrare nello studio un momento prima, dondolando la sua elefantiaca figura e avanzando lentamente, provando il terreno prima di appoggiarvi la pianta del piede, aveva pensato che fosse sbronzo. No; doveva aver somatizzato le ubriacature perché, anche da sobrio, si comportava con l’insicurezza e i tremiti dell’alcolizzato.

– Sei macerato nell’alcol, anche se non bevi sembri ubriaco, – disse, esaminandolo dall’alto in basso.

– È vero, – si affrettò ad ammettere Chirinos, facendo un gesto teatrale. – Io sono un poète maudit, Capo. Come Baudelaire e Rubén Darío.

Aveva la pelle color cenere, una doppia pappagorgia, capelli radi e untuosi e degli occhietti sprofondati dietro le palpebre rigonfie. Il naso, rimasto schiacciato dopo l’incidente, era da boxeur, e la bocca quasi senza labbra aggiungeva un tratto perverso alla sua insolente bruttezza. Era sempre stato sgradevolmente brutto, tanto che, dieci anni prima, all’epoca dell’incidente a cui era sopravvissuto per miracolo, i suoi amici avevano pensato che la chirurgia estetica lo avrebbe migliorato. Lo aveva peggiorato.

Il fatto che continuasse a essere uomo di fiducia del Benefattore, membro della ristretta cerchia di intimi, come Virgilio Álvarez Pina, Paíno Pichardo, Cerebrito Cabral (adesso in disgrazia) o Joaquín Balaguer, era una prova di come, al momento di scegliere i collaboratori, il Generalissimo non si lasciasse guidare dai suoi gusti o disgusti personali. Nonostante la ripugnanza che sempre gli avevano ispirato il suo fisico, la sua trascuratezza e i suoi modi, Henry Chirinos, sin dall’inizio del suo governo, era stato privilegiato di quei delicati incarichi che Trujillo affidava a persone, oltre che sicure, capaci. Era uno dei piú capaci, tra quanti avevano potuto accedere a quel club esclusivo. Avvocato, fungeva da costituzionalista. Ancora molto giovane, era stato insieme a Agustín Cabral il principale redattore della Costituzione che Trujillo aveva emanato agli inizi dell’Era, e di tutti gli emendamenti apportati da allora al testo costituzionale. Aveva redatto, inoltre, le principali leggi costituzionali e ordinarie, ed era stato relatore di quasi tutte le decisioni legali adottate dal Congresso per legittimare le esigenze del regime. Nessuno come lui era in grado di dare, in discorsi parlamentari intrisi di parole latine e di citazioni – spesso in francese –, apparenza di forza giuridica alle piú arbitrarie decisioni dell’Esecutivo, o per respingere, con logica demolitrice, ogni proposta che Trujillo disapprovasse. La sua mente, organizzata come un codice, trovava immediatamente un’argomentazione tecnica per dare parvenza di legalità a qualunque decisione di Trujillo, che si trattasse di un provvedimento della Corte dei Conti, della Corte Suprema o una legge del Congresso. Buona parte della ragnatela legale dell’Era l’aveva tessuta la perversa abilità di quel grande azzeccagarbugli (cosí lo aveva chiamato una volta, di fronte a Trujillo, il senatore Agustín Cabral, suo amico e nemico intimo all’interno della cerchia dei favoriti).

Grazie a tutti quegli attributi, il perpetuo parlamentare Henry Chirinos fu tutto quello che si poteva essere nei trent’anni dell’Era: deputato, senatore, ministro della Giustizia, membro della Corte Costituzionale, ambasciatore plenipotenziario e incaricato d’affari, governatore della Banca Centrale, presidente dell’Instituto Trujilloniano, membro della Giunta Centrale del Partido Dominicano, e, da un paio d’anni, l’incarico di maggior portata, ispettore dell’andamento delle aziende del Benefattore. In quanto tale, erano subordinati a lui Agricoltura, Commercio e Finanze. Perché affidare una cosí grande responsabilità a un alcolizzato incallito? Perché, oltre a essere un leguleio, sapeva di economia. Si era portato bene a capo della Banca Centrale, e alle Finanze, per alcuni mesi. E perché, in questi ultimi anni, a causa di numerose insidie, aveva bisogno di affidare quel posto a qualcuno di assoluta fiducia, che potesse mettere al corrente degli intrighi e delle rivalità famigliari. In questo, quella palla di grasso e di alcol era insostituibile.

Bevitore accanito, come aveva potuto non perdere la sua abilità all’intrigo giuridico, né la sua capacità di lavoro, l’unica, forse, insieme a quella dell’ormai caduto in disgrazia Anselmo Paulino, che il Benefattore potesse confrontare alla propria? L’Inmundicia Viviente poteva lavorare dieci o dodici ore senza fermarsi, ubriacarsi come una spugna e, il giorno dopo, arrivare al suo ufficio del Congresso, al Ministero o nel Palacio Nacional, fresco e lucido, dettare agli stenografi i suoi testi giuridici, o dissertare con fiorita eloquenza su temi politici, legali, economici e costituzionali. E ancora, scriveva poesie, acrostici e versi di circostanza, articoli e libri storici, ed era una delle penne piú affilate che Trujillo usava per spargere veleno da El Foro Público su «El Caribe».

– Come vanno gli affari.

– Molto male, Capo, – il senatore Chirinos respirò forte: – Di questo passo, presto saranno in condizioni agoniche. Mi dispiace dirglielo, ma lei non mi paga perché io la prenda in giro. Se non vengono revocate subito le sanzioni, sarà una catastrofe.

Si accinse, aprendo la sua rigonfia cartella ed estraendone pacchi di fogli e taccuini, a tracciare un’analisi delle principali aziende, cominciando dalle tenute della Corporación Azucarera Dominicana, e proseguendo con la Dominicana de Aviación, il cementificio, le compagnie di legname e le segherie, gli uffici di importazioni ed esportazioni e le organizzazioni commerciali. La musica di nomi e di cifre cullava il Generalissimo, che ascoltava appena: Atlas Comercial, Caribbean Motors, Compañía Anónima Tabacalera, Consorcio Algodonero Dominicano, Chocolatera Industrial, Dominicana Industrial del Calzado, Distribuidores de Sal en Grano, Fábrica de Aceites Vegetales, Fábrica Dominicana del Cemento, Fábrica Dominicana de Discos, Fábrica de Baterías Dominicanas, Fábrica de Sacos y Cordelería, Ferretería Read, Ferretería El Marino, Industrial Domínico-Suiza, Industrial Lechera, Industria Licorera Altagracia, Industria Nacional de Vidrio, Industria Nacional del Papel, Molinos Dominicanos, Pinturas Dominicanas, Planta de Reencauchado, Quisqueya Motors, Refinería de Sal, Sacos y Tejidos Dominicanos, Seguros San Rafael, Sociedad Inmobiliaria, quotidiano «El Caribe». L’Inmundicia Viviente lasciò alla fine, affermando che neppure lí c’era un «andamento positivo», gli affari in cui la famiglia Trujillo aveva partecipazioni di minoranza. Non disse nulla che il Benefattore già non sapesse: quel che non era paralizzato dalla mancanza di materia prima e di scorte, lavorava a un terzo e addirittura a un decimo della sua capacità. La catastrofe era già arrivata, e di quale portata. Ma, almeno – il Benefattore sospirò –, ai gringos non era riuscita quella che avevano creduto sarebbe stata la pugnalata finale: interrompere la fornitura di petrolio, come pure di ricambi per automobili e aerei. Johnny Abbes García si era dato da fare in modo che i combustibili arrivassero da Haití, passando di contrabbando la frontiera. Il sovrapprezzo era alto, ma il consumatore non lo pagava, il regime si faceva carico dell’integrazione. Lo Stato non avrebbe potuto sostenere a lungo quell’emorragia. La vita economica, a causa delle restrizioni in fatto di valuta e della paralisi di esportazioni e di importazioni, era in totale stagnazione.

– In pratica, nessuna azienda registra entrate, Capo. Soltanto uscite. Poiché erano in condizioni floride, sopravvivono. Ma non a tempo indeterminato.

Sospirò in maniera istrionesca, come quando pronunciava le sue elegie funebri, un’altra delle sue grandi specialità.

– Le ricordo che non è stato licenziato un solo operaio, un solo contadino, un solo impiegato, nonostante la guerra economica duri da piú di un anno. Queste aziende rappresentano il sessanta per cento dei posti di lavoro in tutto il paese. Si renda conto della gravità della situazione. Trujillo non può continuare a mantenere due terzi delle famiglie dominicane, mentre, a causa delle sanzioni, tutti gli affari sono quasi paralizzati. Cosicché…

– Cosicché…

– O lei mi autorizza a ridurre il personale, per poter tagliare i costi, in attesa di tempi migliori…

– Vuoi un’esplosione di migliaia di disoccupati? – lo interruppe Trujillo, perentorio. – Aggiungere un problema sociale a quelli che ho già?

– C’è un’alternativa, alla quale si è fatto ricorso in circostanze eccezionali, – replicò il senatore Chirinos, con un sorrisetto mefistofelico. – Questa non è forse una di quelle? Dunque. Che lo Stato, allo scopo di garantire l’occupazione e l’attività economica, assuma la gestione delle aziende strategiche. Lo Stato nazionalizza, diciamo, un terzo delle aziende industriali e metà di quelle impegnate nell’agricoltura e nell’allevamento. Ci sono ancora i fondi per farlo, nella Banca Centrale.

– Che cazzo ci guadagno con questo, – lo interruppe Trujillo, irritato. – Che cosa ci guadagno se i dollari passano dalla Banca Centrale a un conto intestato a mio nome.

– Che, a partire da questo momento, le perdite rappresentate da trecento aziende che lavorano in passivo non le sopporterà il suo portafoglio, Capo. Le ripeto, se continua cosí, finiranno tutte in bancarotta. Il mio consiglio è tecnico. L’unico modo per evitare che il suo patrimonio svanisca nel nulla per colpa dell’accerchiamento economico è trasferire le perdite allo Stato. A nessuno conviene che lei vada in rovina, Capo.

Trujillo provò una sensazione di stanchezza. Il sole era sempre piú caldo e, come tutti i visitatori nel suo studio, il senatore Chirinos già sudava. Di tanto in tanto si asciugava la faccia con un fazzoletto celeste. Anche a lui sarebbe piaciuto che il Generalissimo avesse l’aria condizionata. Ma Trujillo detestava quell’aria fasulla che faceva raffreddare, quell’atmosfera menzognera. Sopportava soltanto il ventilatore, in giorni estremamente caldi. Oltretutto, era orgoglioso di essere l’uomo-che-non-suda-mai.

Rimase un momento in silenzio, riflettendo, e la faccia gli si inacidí.

– Anche tu pensi, nel fondo del tuo cervello venale, che accaparro tenute e affari per spirito di lucro, – monologò, con tono stanco. – Non m’interrompere. Se tu, da tanti anni al mio fianco, non sei ancora riuscito a conoscermi, che cosa posso mai aspettarmi dagli altri. Che credano pure che il potere mi interessa per arricchirmi.

– So molto bene che non è cosí, Capo.

– Hai bisogno che te lo spieghi, per la centesima volta? Se quelle aziende non fossero della famiglia Trujillo, quei posti di lavoro non esisterebbero. E la Repubblica Dominicana sarebbe il paesetto africano che era quando me lo sono preso sulle spalle. Non te ne sei ancora reso conto.

– Me ne sono reso conto, perfettamente, Capo.

– Tu rubi del mio?

Chirinos ebbe un altro sussulto sulla sedia e il color cenere della sua faccia si oscurò. Batteva le palpebre, turbato.

– Ma che cosa dice, Capo? Dio mi è testimone…

– Lo so che non lo fai, – lo rassicurò Trujillo. – E perché non rubi, nonostante tutti i tuoi poteri che ti consentono di fare e disfare? Per lealtà? Forse. Ma innanzitutto per paura. Tu sai che, se tu mi derubassi e io lo scoprissi, ti darei nelle mani di Johnny Abbes, che ti porterebbe a La Cuarenta, ti metterebbe a sedere sul Trono e ti lascerebbe carbonizzare, prima di buttarti agli squali. Quelle cose che piacciono alla fantasia esaltata del capo del Sim e alla squadra che ha formato. Per questo non mi derubi. Per questo non mi derubano nemmeno i gerenti, gli amministratori, i contabili, gli ingegneri, i veterinari, i capisquadra, eccetera, eccetera, delle aziende che tu sorvegli. Per questo, lavorano con puntualità e con efficienza, e per questo le aziende hanno progredito e si sono moltiplicate, trasformando la Repubblica Dominicana in un paese moderno e prospero. Hai capito?

– Certo, Capo, – ammise una volta di piú il Costituzionalista Sbronzo. – Lei ha totalmente ragione.

– Invece, – proseguí Trujillo, come se non lo avesse sentito, – ruberesti tutto quello che potresti se il lavoro che fai per la famiglia Trujillo lo facessi per i Vicini, i Valdez o gli Armenteros. E anche molto di piú se le aziende fossero dello Stato. Allora sí che ti riempiresti le tasche. Lo capisce, adesso, il tuo cervello perché tutti quegli affari, quelle terre e quel bestiame?

– Per servire il paese, lo so fin troppo bene, Eccellenza, – esclamò il senatore Chirinos. Era allarmato e Trujillo poteva coglierlo dalla forza con cui stringeva contro il ventre la cartella con i documenti, e dalla maniera sempre piú untuosa in cui parlava. – Non ho voluto suggerire niente che andasse nella direzione opposta, Capo. Dio me ne liberi!

– È anche vero che non tutti i Trujillo sono come me, – allentò la tensione il Benefattore, con una smorfia di delusione. – Né i miei fratelli, né mia moglie, né i miei figli hanno la stessa passione per questo paese che ho io. Sono degli avidi. La cosa peggiore è che in momenti come questi mi facciano perdere tempo, per badare a che non si prendano gioco dei miei ordini.

Assunse lo sguardo belligerante e diretto con cui intimidiva la gente. L’Inmundicia Viviente si rannicchiò sulla sedia.

– Ah, vedo, qualcuno ha disobbedito, – mormorò.

Il senatore Henry Chirinos annuí, e non osò parlare.

– Hanno cercato di portare via valuta, di nuovo? – domandò, raffreddando la voce. – Chi? La vecchia?

La faccia spugnosa coperta di gocce di sudore tornò ad annuire, come suo malgrado.

– Mi ha preso da parte, ieri sera, durante la veglia poetica, – esitò e assottigliò la voce fin quasi a farla scomparire. – Ha detto che lo faceva pensando a lei, non a sé e nemmeno ai figli. Per assicurarle una vecchiaia tranquilla, se dovesse succedere qualcosa. Sono certo che è la verità, Capo. Lei l’adora.

– Che cosa voleva.

– Un altro accredito in Svizzera, – il senatore stava soffocando. – Soltanto un milione, questa volta.

– Spero per il tuo bene che tu non le abbia dato retta, – disse Trujillo, seccamente.

– Non l’ho fatto, – balbettò Chirinos, sempre con l’agitazione che deformava le sue parole, il corpo in preda a un lieve tremito. – Dove comanda capitano non comanda soldato. E perché, con tutto il rispetto e la devozione che merita da me doña María, la mia prima lealtà è nei suoi confronti. Questa situazione è molto delicata per me, Capo. A causa di questi rifiuti, sto perdendo l’amicizia di doña María. Per la seconda volta in una settimana le ho rifiutato quello che mi chiedeva.

Anche la Prestante Dama temeva che il regime finisse a pezzi? Quattro mesi prima aveva preteso da Chirinos un accredito di cinque milioni di dollari in Svizzera; adesso di uno. Pensava che da un momento all’altro sarebbero dovuti scappare via di gran carriera, che bisognava avere ben forniti i conti all’estero, per godere di un esilio dorato. Come Pérez Jiménez, Batista, Rojas Pinilla o Perón, quella spazzatura. Vecchia avida. Come se non avesse le spalle piú che coperte. Per lei, niente bastava. Era stata avara sin da giovane, e, con gli anni, niente piú bastava. E se li sarebbe portati all’altro mondo, quei conti? Era l’unico punto su cui aveva sempre osato sfidare l’autorità del marito. Due volte, questa settimana. Complottava alle sue spalle, né piú né meno. Cosí aveva comprato, senza che Trujillo ne fosse informato, quella casa in Spagna, dopo la visita ufficiale che avevano fatto a Franco nel 1954. Cosí aveva preso ad aprire e a rimpolpare conti cifrati in Svizzera e a New York, dei quali lui finiva per accorgersi, a volte casualmente. Dapprima, non ci aveva badato granché, limitandosi a sbraitare un po’, per poi stringersi nelle spalle di fronte al capriccio di quella vecchia in menopausa, alla quale doveva considerazione in quanto era la sua sposa legittima. Adesso era diverso. Lui aveva dato ordini perentori, nessun dominicano, compresa la famiglia Trujillo, portasse via un solo peso dal paese fino a quando fossero durate le sanzioni. Non avrebbe permesso quella corsa di topi che cercavano di scappare via da una barca che, in effetti, avrebbe finito per affondare se tutto l’equipaggio, a cominciare dagli ufficiali e dal capitano, fosse scappato. Cazzo, no. Era lí che dovevano rimanere parenti, amici e nemici, con tutto quello che avevano, a combattere o a lasciare la pelle sul campo d’onore. Come i marines, cazzo. Quella vecchia cogliona e taccagna! Come sarebbe stato meglio ripudiarla e sposare qualcuna delle magnifiche donne che erano passate tra le sue braccia; la bella, la docile Lina Lovatón, ad esempio, che aveva sacrificato, anche lei, a questo paese ingrato. La Prestante Dama avrebbe dovuto rimproverarla, quello stesso pomeriggio, e ricordarle che Rafael Leónidas Trujillo Molina non era Batista, né quel maiale di Pérez Jiménez, né quel bacchettone di Rojas Pinilla, neppure l’imbrillantinato generale Perón. Lui non avrebbe passato i suoi ultimi anni come statista straniero all’estero. Avrebbe vissuto fino all’ultimo momento in questo paese che grazie a lui aveva cessato di essere una tribú, un’orda, una caricatura, e si era trasformato in una Repubblica.

Si accorse che il Costituzionalista Sbronzo continuava a tremare. Gli si era formata un po’ di schiuma sulla bocca. I suoi occhietti, dietro le due palle di grasso delle palpebre, si aprivano e si chiudevano, frenetici.

– C’è dell’altro, dunque. Che cosa?

– La settimana scorsa, l’avevo informata che eravamo riusciti a evitare che bloccassero il pagamento dei Lloyd’s di Londra per la partita di zucchero venduta in Gran Bretagna e nei Paesi Bassi. Poca cosa. Circa sette milioni di dollari, dei quali quattro di competenza delle sue aziende, e il resto agli impianti dei Vicini e al Central Romana. Secondo le sue istruzioni, ho chiesto ai Lloyd’s di accreditare quella valuta alla Banca Centrale. Questa mattina mi hanno informato di avere ricevuto un contrordine.

– Da chi?

– Dal generale Ramfis, Capo. Ha telegrafato di inviare il totale dovuto a Parigi.

– E i Lloyd’s di Londra sono pieni di imbecilli che obbediscono ai contrordini di Ramfis?

Il Generalissimo parlava lentamente, sforzandosi per non scoppiare. Quella stupidaggine gli stava portando via troppo tempo. Oltretutto, gli faceva male che, di fronte a estranei, per quanto di fiducia, venissero allo scoperto le pecche della sua famiglia.

– Non hanno ancora eseguito le indicazioni del generale Ramfis, Capo. Sono disorientati, per questo mi hanno chiamato. Ho riconfermato che il denaro dev’essere mandato alla Banca Centrale. Ma poiché il generale Ramfis ha avuto una procura da lei, e in altre occasioni ha ritirato dei fondi, sarebbe opportuno far sapere ai Lloyd’s che c’è stato un malinteso. Una questione di immagine, Capo.

– Chiamalo e digli di scusarsi con i Lloyd’s. Oggi stesso.

Chirinos si agitò sulla sedia, a disagio.

– Se lei lo ordina, lo farò, – bisbigliò. – Ma mi consenta di rivolgerle una preghiera, Capo. Come suo vecchio amico. Come il piú fedele dei suoi servitori. Mi sono già guadagnato il livore di doña María. Non mi faccia diventare anche nemico del suo figlio maggiore.

Il malessere che provava era cosí visibile che Trujillo gli sorrise.

– Chiamalo, non temere. Non muoio per adesso. Vivrò ancora dieci anni, per completare la mia opera. È il tempo di cui ho bisogno. E tu rimarrai con me, fino all’ultimo giorno. Perché, brutto, ubriaco e sporco, tu sei uno dei miei migliori collaboratori, – fece una pausa e, guardando l’Inmundicia Viviente con la tenerezza con cui un mendicante guarda il proprio cane rognoso, aggiunse qualcosa di inconsueto per la sua bocca: – Se qualcuno dei miei fratelli o dei miei figli valesse quanto te, Henry.

Il senatore, annichilito, non riusciva a rispondere.

– Quel che ha detto ricompensa tutte le mie inquietudini, – balbettò, chinando il capo.

– Sei stato fortunato a non sposarti, a non avere famiglia, – proseguí Trujillo. – Molte volte avrai pensato che è una disgrazia non avere eredi. Fesserie! L’errore della mia vita è stata la mia famiglia. I miei fratelli, la mia stessa moglie, i miei figli. Hai mai visto disastri simili? Senza altro orizzonte che il bere, i pesos e scopare. Ce n’è uno solo capace di continuare la mia opera? Non è forse una vergogna che Ramfis e Radhamés, in questi momenti, anziché stare qui, al mio fianco, se ne stiano a Parigi per giocare al polo?

Chirinos ascoltava a occhi bassi, immobile, con la faccia seria, solidale, senza dire una parola, temendo senza dubbio di compromettere il proprio futuro se si fosse lasciato sfuggire un’opinione contro i figli e i fratelli del Capo. Era strano che lui si fosse abbandonato a riflessioni tanto amare: non parlava mai della sua famiglia, neppure agli intimi, e tanto meno in termini cosí duri.

– L’ordine è sempre valido, – disse, cambiando tono oltre che argomento. – Nessuno, e tanto meno un Trujillo, porta via soldi dal paese finché ci saranno le sanzioni.

– Mi è chiaro, Capo. A dire il vero, anche se volessero, non potrebbero. A meno che non si portino via i loro dollari nella valigetta a mano, non ci sono transazioni con l’estero. L’attività finanziaria è a un punto morto. Il turismo è scomparso. Le riserve diminuiscono giorno per giorno. Lei scarta, tout court, che lo Stato debba prendere qualche azienda? Neppure quelle che stanno peggio?

– Vedremo, – cedette un poco Trujillo. – Lasciami la tua proposta, la studierò. Che altro c’è, di urgente?

Il senatore consultò il suo taccuino, accostandolo agli occhi. Assunse un’espressione tragicomica.

– C’è una situazione paradossale, lí negli Stati Uniti. Che cosa faremo con i presunti amici? I congressisti, i politici, i lobbysti che ricevono stipendi per difendere il nostro paese. Manuel Alfonso ha continuato a dargliene fino a quando non si è ammalato. Da allora, si sono interrotti. Alcuni hanno avanzato discrete proteste.

– Chi ha detto di sospenderli?

– Nessuno, Capo. È una domanda. I fondi in valuta destinati a quello scopo, a New York, vanno esaurendosi a loro volta. Non hanno potuto essere rifinanziati, date le circostanze. Sono diversi milioni di pesos al mese. Continuerà a essere cosí generoso con quei gringos incapaci di aiutarci a far revocare le sanzioni?

– Delle sanguisughe, l’ho sempre saputo, – il Generalissimo fece un gesto di disprezzo. – Ma, anche, la nostra unica speranza. Se la situazione politica cambia negli Stati Uniti, quelli là possono far sentire la loro influenza, fare in modo che vengano revocate o ridotte le sanzioni. E, immediatamente, ottenere che Washington ci paghi almeno lo zucchero che ha ricevuto.

Chirinos non sembrava sperarci. Scuoteva il capo, scuro in volto.

– Anche se gli Stati Uniti accettassero di versare ciò che hanno trattenuto, servirebbe a poco, Capo. Che cosa sono ventidue milioni di dollari? Qualche settimana di valuta per materia prima e per importazioni di prima necessità. Ma se lei ha deciso cosí indicherò ai consoli Mercado e Morales di rinnovare i pagamenti a quei parassiti. A proposito, Capo. I fondi di New York potrebbero essere congelati. Se va avanti quel progetto di tre membri del Partito Democratico per congelare i conti di dominicani non residenti negli Stati Uniti. So che si trovano alla Chase Manhattan e alla Chemical intestati a società anonime. Ma se quelle banche non rispettano il segreto bancario? Mi permetto di suggerirle il trasferimento in un paese piú sicuro. Canada, per esempio, o Svizzera.

Il Generalissimo sentiva un vuoto allo stomaco. Non era la collera a produrgli acidità, ma la delusione. Non aveva mai perso tempo, nella sua lunga vita, a leccarsi le ferite, ma quello che stava accadendo negli Stati Uniti, il paese al quale il suo regime aveva sempre dato il voto all’Onu ogni volta che era stato necessario, lo rivoltava. A che cosa era servito accogliere come un principe e dare decorazioni a qualunque yanqui avesse messo piede in quell’isola?

– È difficile capire i gringos, – mormorò. – Non riesce a entrarmi nella testa che si comportino cosí con me.

– Ho sempre diffidato di quei cafoni, – fece eco l’Inmundicia Viviente. – Sono tutti uguali. Non si può nemmeno dire che questo accanimento sia dovuto soltanto a Eisenhower. Kennedy ci è contro allo stesso modo.

Trujillo lo interruppe – «Al lavoro, cazzo» – e ancora una volta cambiò argomento.

– Abbes García ha preparato ogni cosa per tirare fuori quel coglione del vescovo Reilly dal suo nascondiglio in mezzo alle sottane delle suore, – disse. – Ha presentato due proposte. Arrestarlo o fare in modo che il popolo lo linci, come punizione per i preti cospiratori. Quale ti piace di piú?

– Nessuna, Capo, – il senatore Chirinos riassunse il suo aplomb. – Lei già conosce la mia opinione. Questo conflitto bisogna sfumarlo. La Chiesa, con i suoi duemila anni sulle spalle, nessuno l’ha ancora sconfitta. Guardi che cosa è successo a Perón per averla voluta affrontare.

– Me l’ha detto lui stesso, seduto proprio dove sei tu adesso, – ammise Trujillo. – Questo è il tuo consiglio? Che mi cali i pantaloni di fronte a quei sacramenti?

– Che li corrompa con delle prebende, Capo, – chiarí il Costituzionalista Sbronzo. – O, nel peggiore dei casi, li spaventi, ma senza gesti irreparabili, lasciando le porte aperte alla riconciliazione. Quello che propone Johnny Abbes sarebbe un suicidio, Kennedy ci manderebbe i marines immediatamente. Questo è il mio parere. Sarà lei a decidere, e la sua decisione sarà quella buona. La difenderò con la penna e con la parola. Come sempre.

Le libertà poetiche cui l’Inmundicia Viviente era portato divertivano il Benefattore. Questo riuscí a scuoterlo dallo sconforto che cominciava a prenderlo.

– Lo so, – gli sorrise. – Sei leale e per questo ti apprezzo. Dimmi, in confidenza. Quanto hai all’estero, nel caso dovessi scappare di qua dalla sera alla mattina?

Il senatore, per la terza volta, sobbalzò, come se la sedia fosse diventata ribelle.

– Molto poco, Capo. Be’, relativamente, voglio dire.

– Quanto? – insistette Trujillo, affettuoso. – E dove?

– Circa quattrocentomila dollari, – confessò, in fretta, abbassando la voce. – In due conti separati. A Panamá. Aperti prima delle sanzioni, ovviamente.

– Una miseria, – lo rimproverò Trujillo. – Con gli incarichi che hai avuto, avresti potuto risparmiare di piú.

– Non sono dedito al risparmio, Capo. Oltretutto, lei lo sa, i soldi non mi hanno mai interessato. Ho sempre avuto il necessario per vivere.

– Per bere, vorrai dire.

– Per vestirmi bene, per mangiare bene, per bere bene e per comprarmi i libri che mi piacciono, – annuí il senatore, guardando il soffitto a cassettoni e il lampadario di cristallo dello studio. – Grazie a Dio, accanto a lei ho sempre svolto lavori interessanti. Quel denaro lo devo far rientrare in patria? Lo farò oggi stesso, se me lo ordina.

– Lascialo dov’è. Se, nel mio esilio, avrò bisogno di aiuto, mi darai una mano.

Rise, di buonumore. Ma, mentre rideva, improvvisamente tornò il ricordo della ragazzetta timorosa della Casa de Caoba, testimone scomodo, accusatore, che gli mise in subbuglio l’anima. Sarebbe stato meglio spararle un colpo, regalarla alle guardie, che l’avrebbero estratta a sorte o se la sarebbero condivisa. Il ricordo di quella faccetta stupida che lo osservava mentre lui soffriva, gli arrivava all’anima.

– Chi è stato il piú accorto? – disse, nascondendo il proprio turbamento. – Chi ha portato piú denaro all’estero? Paíno Pichardo? Álvarez Pina? Cerebrito Cabral? Modesto Díaz? Balaguer? Chi ha accumulato di piú? Nessuno di voi mi ha creduto quando dicevo che io verrò via di qui soltanto per andare al cimitero.

– Non lo so, Capo. Ma, se mi permette, credo che nessuno di loro abbia molto denaro all’estero. Per una ragione molto semplice. Nessuno ha mai pensato che il regime possa finire, che ci si debba trovare nella necessità di partire. Chi potrebbe mai pensare che un giorno la terra smetta di girare attorno al sole?

– Tu, – rispose Trujillo, con noncuranza. – Per questo ti sei portato i tuoi bravi pesos a Panamá, calcolando che io non sarei stato eterno, che una qualche cospirazione potrebbe risultare vittoriosa. Ti sei fatto scoprire, fesso.

– Farò tornare in patria i miei risparmi oggi pomeriggio, – protestò Chirinos, gesticolando. – Le farò vedere le ricevute della Banca Centrale per l’entrata della valuta. Quei risparmi sono a Panamá da diverso tempo. Le missioni diplomatiche mi hanno consentito di fare qualche risparmio. Per disporre di valuta nei viaggi che faccio al suo servizio, Capo. Non ho mai esagerato con le spese di rappresentanza.

– Ti sei spaventato, pensi che ti potrebbe capitare quello che è capitato a Cerebrito, – proseguí sorridendo Trujillo. – È uno scherzo. Ho già dimenticato il segreto che mi hai confessato. Dài, vieni qua, raccontami qualche pettegolezzo prima di andartene. Di letto, non politici.

L’Inmundicia Viviente sorrise, risollevato. Ma appena cominciò a raccontare che il divertimento di Ciudad Trujillo, in quelle ore, era la manica di botte che il console tedesco aveva dato alla moglie, credendo che lo tradisse, il Benefattore si distrasse. Quanti soldi dovevano aver portato via dal paese i suoi collaboratori piú stretti? Se lo aveva fatto il Costituzionalista Sbronzo, dovevano averlo fatto tutti. Erano davvero solo quattrocentomila dollari quelli che aveva messo via per sicurezza? Sicuramente erano di piú. Tutti, nell’angolo piú meschino del loro animo, avevano vissuto temendo che il regime crollasse. Ba’, mondezze. La lealtà non era una virtú dominicana. Lui lo sapeva. Per trent’anni lo avevano adulato, applaudito, idolatrato, ma, al primo mutare di vento, avrebbero tirato fuori i pugnali.

– Chi ha inventato lo slogan del Partido Dominicano usando le iniziali del mio nome? – domandò, all’improvviso. – «Rectitud, Libertad, Trabajo y Moralidad». Tu o Cerebrito?

– Questo suo servitore, Capo, – esclamò il senatore Chirinos, orgoglioso. – Nel decimo anniversario. Ha fatto presa, vent’anni dopo è ancora in tutte le strade e le piazze del paese. E nell’immensa maggioranza delle case.

– Dovrebbe essere nelle coscienze e nella memoria dei dominicani, – disse Trujillo. – Quelle quattro parole riassumono tutto quello che ho dato loro.

E, in quel momento, come una randellata sulla testa, fu colto dal dubbio. La certezza. Era successo. Facendo finta di niente, senza ascoltare le affermazioni di elogio all’Era in cui si era imbarcato Chirinos, abbassò la testa, come per concentrarsi su un’idea, e, aguzzando la vista, ansiosamente spiò. Le ossa gli vennero meno. Eccola lí: la macchia scura si allargava sulla patta e copriva una parte della gamba destra. Doveva essere recente, era ancora bagnaticcio, in quello stesso istante l’insensibile vescica continuava a emettere. Non l’aveva sentito, non lo stava sentendo. Fu scosso da una sferzata di rabbia. Poteva dominare gli uomini, mettere in ginocchio tre milioni di dominicani, ma non controllare il suo sfintere.

– Non posso continuare ad ascoltare pettegolezzi, me ne manca il tempo, – si rammaricò, alzando lo sguardo. – Va’ e sistema la storia dei Lloyd’s, quei soldi non devono essere accreditati a Ramfis. Domani, alla stessa ora. Arrivederci.

– Arrivederci, Capo. Se me lo permette, la incontrerò questo pomeriggio, nell’Avenida.

Appena sentí che il Costituzionalista Sbronzo chiudeva la porta, telefonò a Sinforoso. Gli ordinò di portare un vestito nuovo, grigio anche quello, e un cambio di biancheria. Si alzò e, rapidamente, inciampando in un divano, andò a chiudersi in bagno. Provava nausea e schifo. Si tolse i pantaloni, le mutande e la maglietta, macchiati dall’involontaria minzione. La camicia non era bagnata, ma se la tolse lo stesso e andò a sedersi sul bidè. S’insaponò con cura. Mentre si asciugava, maledisse ancora una volta i brutti scherzi del suo corpo. Stava conducendo una battaglia contro diversi nemici, non poteva distrarsi ogni momento per questo diavolo di sfintere. Si spruzzò del talco sulle pudenda e tra le gambe e, seduto sul water, aspettò Sinforoso.

Ricevere l’Inmundicia Viviente lo lasciava con una certa inquietudine. Era vero ciò che gli aveva detto: a differenza di quella banda di canaglie dei suoi fratelli, della Prestante Dama, vampiro insaziabile, e dei suoi figli, parassiti succhiatori, a lui non era mai importato molto del denaro. Lo usava al servizio del potere. Senza denaro non avrebbe potuto farsi strada all’inizio, perché era nato da una famiglia modestissima di San Cristóbal, e per questo, da ragazzo, aveva dovuto procurarsi in qualche modo l’indispensabile per vestirsi con decenza. Poi, il denaro gli era servito per essere piú efficace, per sbarazzarsi di ostacoli, comprare, lusingare o corrompere la gente necessaria e per punire quelli che intralciavano il suo lavoro. A differenza di María, che, da quando aveva ideato l’affare della lavanderia per la Guardia Stabularia all’epoca in cui erano ancora amanti, sognava soltanto di accumularne, a lui il denaro piaceva per poterlo distribuire.

Se non fosse stato cosí, avrebbe fatto quei regali al popolo, quelle elargizioni di massa ogni 24 ottobre, affinché i dominicani festeggiassero il compleanno del Capo? Quanti milioni di pesos aveva speso durante quegli anni in sacchi di caramelle, cioccolatini, giocattoli, frutta, vestiti, pantaloni, scarpe, braccialetti, collane, bibite, camicette, dischi, guayaberas1, spille, riviste, nelle interminabili processioni che si avvicinavano al Palacio nel giorno del compleanno del Capo? E quanto di piú in regali a suoi compari e figliocci, in quei battesimi collettivi, nella cappella del Palacio, in cui, da tre decenni, una e perfino due volte alla settimana diventava padrino di almeno un centinaio di neonati? Milioni di milioni di pesos. Un investimento redditizio, naturalmente. Una sua trovata, nel primo anno di governo, grazie alla sua profonda conoscenza della psicologia dominicana. Stabilire una relazione come tra compari con un contadino, con un operaio, con un artigiano, con un commerciante, significava assicurarsi la lealtà di quel pover’uomo, di quella povera donna, che, dopo il battesimo, abbracciava e a cui regalava duemila pesos. Duemila in epoca di prosperità. Man mano che la lista dei figliocci saliva a venti, cinquanta, cento, duecento per settimana, i regali – a causa in parte delle urla di protesta di doña María e, anche, del declino dell’economia dominicana a partire dalla Fiera della Pace e della Fratellanza del Mondo Libero del 1955 – si erano andati riducendo, a millecinquecento, a mille, a cinquecento, a duecento, a cento pesos per figlioccio. Adesso, l’Inmundicia Viviente insisteva nel dire che i battesimi collettivi dovevano essere sospesi o che il regalo doveva essere simbolico, una torta o dieci pesos per figlioccio, fino a quando non fossero finite le sanzioni. Maledetti yanquis!

Aveva fondato aziende e fatto affari per creare lavoro e far progredire quel paese, per poter contare su delle risorse e fare regali a dritta e a manca, e cosí far stare contenti i dominicani.

E, con i suoi amici, collaboratori e servitori – chi poteva negarlo? – era stato munifico quanto il Petronio di Quo vadis? Li aveva sommersi di denaro, facendo loro regali cospicui per compleanni, matrimoni, nascite, incarichi ben svolti, o, semplicemente, per mostrare loro che sapeva ricompensare la lealtà. Aveva regalato pesos, case, terreni, azioni, aveva creato per loro attività con cui potessero guadagnare dei bei soldi senza saccheggiare lo Stato.

Sentí dei colpetti discreti alla porta. Sinforoso, con il vestito e la biancheria. Glieli porse a occhi bassi. Era al suo fianco da oltre vent’anni; dopo che era stato suo attendente nell’Esercito, lo aveva promosso maggiordomo, portandolo con sé al Palacio. Non temeva nulla da Sinforoso. Era muto, sordo e cieco per tutto quello che riguardava Trujillo e aveva olfatto sufficiente per sapere che, su certi argomenti intimi, come le minzioni involontarie, la minima indiscrezione lo avrebbe privato di tutto quello che aveva – una casa, una piccola finca con del bestiame, un’automobile, una famiglia numerosa – e, forse, perfino della vita. Il vestito e la biancheria, ricoperti da un sacchetto, non avrebbero richiamato l’attenzione di nessuno, il Benefattore era solito cambiarsi d’abito diverse volte al giorno nel suo studio.

Si vestí, mentre Sinforoso – robusto, i capelli tagliati a zero, impeccabilmente vestito con la sua uniforme dai pantaloni neri, giacca bianca e gilè bianco dai bottoni dorati – raccoglieva gli indumenti sparsi sul pavimento.

– Che cosa devo fare con quei due vescovi terroristi, Sinforoso? – gli domandò, mentre si abbottonava i pantaloni. – Espellerli dal paese? Mandarli in galera?

– Ammazzarli, Capo, – rispose Sinforoso, senza esitare. – La gente li odia e, se non lo fa lei, lo farà il popolo. Nessuno perdona a quello yanqui né allo spagnolo che siano venuti in questo paese a mordere la mano da cui mangiavano.

Il Generalissimo già non lo stava piú ad ascoltare. Doveva rimproverare Pupo Román. Quella mattina, dopo aver ricevuto Johnny Abbes e i ministri degli Esteri e dell’Interno, era dovuto andare alla Base Aerea di San Isidro per una riunione con i capi dell’Aviazione. E si era imbattuto in uno spettacolo che gli aveva fatto torcere le budella: proprio all’entrata, a pochi metri dal picchetto di guardia, sotto la bandiera e lo stemma della Repubblica, una tubatura vomitava acqua nerastra che aveva formato un’ampia pozza di fango sul limitare della strada. Aveva fatto fermare l’automobile. Era sceso e si era avvicinato. Era un tubo di scolo, dai liquami spessi e pestilenziali – dovette tapparsi il naso con il fazzoletto –, e, naturalmente, aveva attirato una nube di mosche e zanzare. Le acque versate continuavano a spargersi, sommergendo quel che trovavano tutt’attorno, avvelenando l’aria e la terra della prima guarnigione dominicana. Provò rabbia, una lava ardente che gli saliva per il corpo. Trattenne il suo primo impeto, tornare alla base e aggredire i capi presenti, domandare loro se quella era l’immagine che volevano dare delle Forze Armate: una istituzione annegata da acque putride e da insetti. Ma, immediatamente, aveva deciso che il rimprovero doveva andare dritto alla testa del problema. E di far ingoiare a Pupo Román in persona un po’ della merda liquida che usciva da quel tubo di scolo. Decise di chiamarlo immediatamente. Ma, tornato nel suo studio, aveva dimenticato di farlo. Cominciava a indebolirglisi la memoria, come lo sfintere? Cazzo. Le due cose che gli avevano risposto meglio nel corso di tutta la sua vita, adesso, a settant’anni, cominciavano a fargli difetto.

Ormai vestito e sistemato, tornò alla scrivania e sollevò il telefono che comunicava direttamente con il comando delle Forze Armate. Non ci mise molto prima di sentire il generale Román:

– Sí, pronto? È lei, Eccellenza?

– Vieni all’Avenida, questo pomeriggio, – disse, secco, a mo’ di saluto.

– Naturalmente, Capo, – si allarmò la voce del generale Román. – Non preferisce che venga adesso al Palacio? È successo qualcosa?

– Saprai al momento opportuno quello che è successo, – disse, lentamente, immaginando il nervosismo del marito di sua nipote Mireya, nel cogliere la freddezza con cui gli parlava. – Novità?

– Tutto normale, Eccellenza, – si precipitò il generale Román. – Stavo ricevendo i rapporti di routine dalle regioni. Ma, se lei preferisce…

– All’Avenida, – lo interruppe. E riagganciò.

Lo rallegrò immaginare il crepitio di domande, supposizioni, timori, sospetti che aveva messo nella testa di quel coglione che era il ministro delle Forze Armate. Che cosa avranno detto di me al Capo? Quale pettegolezzo, quale calunnia gli hanno portato i miei nemici? Sarò caduto in disgrazia? Ho trascurato qualcosa che mi aveva ordinato? Fino al pomeriggio, sarebbe vissuto nell’inferno.

Ma questo pensiero lo tenne occupato soltanto per qualche secondo, perché ancora una volta la sua memoria tornò al ricordo umiliante di quella ragazzetta. Collera, tristezza, nostalgia si mescolarono nel suo animo, lasciandolo in uno stato di totale inquietudine. E, allora, gli venne in mente: «Un rimedio uguale alla malattia». Il volto di una bella femmina, che si disfa di piacere tra le sue braccia, e lo ringrazia di quanto a lungo l’ha fatta godere. Tutto questo non avrebbe cancellato la faccettina spaventata di quella idiota? Sí: andare la sera a San Cristóbal, alla Casa de Caoba, lavare l’affronto nello stesso letto e con le stesse armi. Questa decisione – si toccò la patta in una sorta di scongiuro – gli risollevò lo spirito e gli diede coraggio per proseguire con l’agenda della giornata.

1. Giacca-camicia da uomo, in tessuto leggero, con taschini e, talvolta, dei plissé.