Capitolo nono

– Che notizie ci sono di Segundo? – domandò Antonio de la Maza.

Appoggiato contro il volante, Antonio Imbert rispose, senza voltarsi:

– L’ho visto ieri. Adesso mi permettono di andarlo a trovare tutte le settimane. Una visita breve, mezz’ora. A volte, a quel figlio di puttana del direttore de La Victoria gli viene in mente di ridurre le visite a quindici minuti. Per rompere i coglioni.

– Come sta?

Come poteva stare uno che, fidatosi di una promessa di amnistia, aveva lasciato Puerto Rico, dove s’era fatto una buona posizione lavorando per la famiglia Ferré, a Ponce, ed era tornato nella propria terra per scoprire che lo aspettavano al varco per processarlo per il presunto delitto di un sindacalista compiuto a Puerto Plata secoli prima, e condannarlo a trent’anni di carcere? Come si poteva sentire un uomo che se aveva ucciso lo aveva fatto per il regime e che, come ricompensa, Trujillo teneva ormai da cinque anni a marcire in una galera?

Ma non gli rispose cosí, perché Imbert sapeva che Antonio de la Maza non gli aveva fatto quella domanda in quanto interessato al fratello Segundo, ma per rompere l’interminabile attesa. Si strinse nelle spalle:

– Segundo è uno con le palle. Se se la passa male, non lo dà a vedere. Certe volte, si prende il lusso di tirar su il morale a me.

– Non gli hai mica detto niente di tutto questo.

– Certo che no. Per prudenza e perché non si faccia illusioni. E se la cosa fallisce?

– Non fallirà, – intervenne, dal sedile posteriore, il tenente García Guerrero. – Il Chivo viene.

Sarebbe venuto? Tony Imbert consultò l’orologio. Poteva ancora venire, non c’era da disperare. Lui non si spazientiva mai, da molti anni. Da giovane, sí, purtroppo, e questo lo aveva portato a fare cose di cui si pentiva con tutte le cellule del suo corpo. Come quel telegramma del 1949 che aveva spedito, pazzo di rabbia, all’epoca dello sbarco di antitrujillisti capeggiato da Horacio Julio Ornes sulla spiaggia di Luperón, nella provincia di Puerto Plata, di cui era gobernador. «Lei dia l’ordine e io brucio Puerto Plata, Capo». La frase che piú rimpiangeva nella sua vita. L’aveva vista riportata da tutti i giornali, perché il Generalissimo aveva voluto che tutti i dominicani sapessero fino a che punto era un trujillista convinto e fanatico il giovane gobernador.

Perché Horacio Julio Ornes, Félix Córdoba Boniche, Tulio Hostilio Arvelo, Gugú Henríquez, Miguelucho Feliú, Salvador Reyes Valdez, Federico Horacio e gli altri avevano scelto Puerto Plata, quel lontano 19 giugno del 1949? La spedizione risultò un totale fallimento. Uno degli aerei invasori non era nemmeno riuscito ad arrivare ed era tornato indietro all’isola di Cozumel. Il Catalina con Horacio Julio Ornes e i suoi compagni poté ammarare sulla riva limacciosa di Luperón, ma, prima che gli uomini della spedizione avessero finito di sbarcare, un guardacoste li aveva presi a cannonate e ridotti in pezzi. Le pattuglie dell’Esercito catturarono in poche ore gli invasori. Tutto ciò era servito per una di quelle pagliacciate che piacevano a Trujillo. Amnistiò coloro che erano stati catturati, compreso Horacio Julio Ornes, e, per dimostrare potenza e magnanimità, permise che prendessero di nuovo la strada dell’esilio. Ma, mentre compiva questo gesto generoso tutto rivolto all’esterno, destituí, arrestò e perseguí Antonio Imbert, il gobernador di Puerto Plata, e suo fratello, il maggiore Segundo Imbert, mentre veniva condotta una repressione spietata di presunti complici, che furono arrestati, torturati e molti di loro fucilati in segreto. «Complici che non erano complici, – pensa. – Credevano che tutti sarebbero insorti a vederli sbarcare. Non avevano nessuno, in realtà». Quanti innocenti avevano pagato per quella fantasticheria.

Quanti innocenti avrebbero pagato se fosse fallita la faccenda di quella notte? Antonio Imbert non era ottimista quanto Amadito o Salvador Estrella Sadhalá, i quali, da quando avevano saputo da Antonio de la Maza che il generale José René Román, capo delle Forze Armate, era coinvolto nella congiura, erano convinti che, morto Trujillo, tutto sarebbe filato via liscio, dato che i militari, obbedendo agli ordini di Román, avrebbero arrestato i «fratellissimi» del Chivo, avrebbero ammazzato Johnny Abbes e i trujillisti piú accaniti e avrebbero insediato una Giunta civile-militare. Il popolo sarebbe sceso nelle strade ad ammazzare caliés, felice di aver ottenuto la libertà. Le cose sarebbero andate cosí? Le delusioni, dopo la stupida imboscata in cui era caduto Segundo, avevano reso Antonio Imbert allergico agli entusiasmi frettolosi. Lui voleva vedere il cadavere di Trujillo ai propri piedi; il resto, gli importava meno. Liberare il paese da quell’uomo, questo era l’essenziale. Rimosso quell’ostacolo, anche se le cose non fossero andate bene immediatamente, si sarebbe aperta una porta. Questo giustificava la faccenda di quella notte, anche se loro non ne fossero usciti vivi.

No, Tony non aveva detto una parola su questa cospirazione al fratello Segundo nelle visite settimanali che gli faceva a La Victoria. Parlavano della famiglia, del calcio, della boxe, Segundo trovava la forza d’animo di raccontargli aneddoti della routine carceraria, ma l’unico argomento importante lo evitavano. All’ultima visita, al momento di salutarsi, Antonio gli aveva sussurrato: «Le cose stanno per cambiare, Segundo». A buon intenditore, poche parole. Chissà se aveva indovinato. Come Tony, Segundo, che, a furia di giravolte, da trujillista entusiasta era passato a essere indifferente e, poi, un cospiratore, era arrivato da tempo alla conclusione che l’unico modo per mettere il punto conclusivo alla tirannia era farla finita con il tiranno; tutto il resto, era inutile. Bisognava liquidare la persona su cui convergevano tutti i fili di quella tenebrosa ragnatela.

– Che cosa sarebbe successo se quella bomba fosse esplosa in avenida Máximo Gómez, all’ora della passeggiata del Chivo? – fantasticò Amadito.

– Fuochi artificiali di trujillisti nel cielo, – rispose Imbert.

– Io sarei potuto essere uno di quelli che volavano, se fossi stato di guardia, – rise il tenente.

– Avrei ordinato una grossa corona di rose per il tuo funerale, – disse Tony.

– Bel piano, – commentò Estrella Sadhalá. – Far volare il Chivo con tutti gli accompagnatori. Senza cuore!

– Be’, sapevo che tu non ci saresti stato lí, al momento del regalo, – disse Imbert. – Del resto, a quell’epoca, quasi non ti conoscevo, Amadito. Adesso, ci avrei pensato due volte.

– Che sollievo, – lo ringraziò il tenente.

Durante quell’ora e poco piú che erano stati lí in attesa, sulla strada per San Cristóbal, diverse volte avevano cercato di chiacchierare, o di scherzare come adesso, ma quei tentativi svanivano nel nulla e ognuno tornava a rinchiudersi nelle sue angosce, nelle sue speranze o nei suoi ricordi. A un certo momento, Antonio de la Maza accese la radio, ma non appena giunse loro la voce caramellosa dell’annunciatore de La Voz del Trópico che presentava un programma dedicato allo spiritismo, la spense.

Sí, in quel fallito piano per uccidere il Chivo di due anni e mezzo prima, Antonio Imbert sarebbe stato pronto a ridurre in polvere, insieme a Trujillo, un buon numero dei leccapiedi che lo scortavano ogni pomeriggio nella sua camminata da casa di doña Julia, l’Excelsa Matrona, lungo la Máximo Gómez e l’Avenida, fino all’obelisco. Non erano, forse, quelli che camminavano insieme a lui gli stessi che piú si erano macchiati di sangue e di lerciume? Un buon servizio per il paese, liquidare un pugno di sbirri oltre che il tiranno.

Quell’attentato lo aveva preparato lui da solo, senza metterne al corrente nemmeno il suo migliore amico, Salvador Estrella Sadhalá, perché, sebbene il Turco fosse antitrujillista, Tony temeva che, a causa del suo essere cattolico, lo avrebbe disapprovato. Progettò e calcolò ogni cosa, nella propria testa, mettendo al servizio del piano tutte le risorse a sua disposizione, convinto che meno persone avessero partecipato tante piú possibilità di successo avrebbe avuto. Soltanto nell’ultima fase aveva messo al corrente del suo progetto due ragazzi di quello che sarebbe stato chiamato, in seguito, Movimiento 14 de Junio; allora, era un gruppo clandestino di giovani professionisti e studenti, che cercava di organizzarsi per lottare contro la tirannia, seppure senza sapere come.

Il piano era semplice ed efficace. Approfittare di quella disciplina maniacale con cui Trujillo svolgeva le sue attività di routine, in questo caso la camminata vespertina per la Máximo Gómez e per l’Avenida. Aveva studiato scrupolosamente il terreno, percorrendo in un senso e nell’altro la strada dov’erano disposte una accanto all’altra le case dei notabili del regime, passati e presenti. La sontuosa casa di Héctor Trujillo, Negro, ex Presidente fantoccio del fratello in due diversi periodi. La rosea residenza di Mamá Julia, l’Excelsa Matrona, che il Capo andava a trovare tutti i pomeriggi prima di iniziare la sua passeggiata. Quella di Luis Rafael Trujillo Molina, soprannominato el Nene, pazzo per i combattimenti di galli. Quella del generale Arturo Espaillat, Navajita. Quella di Joaquín Balaguer, l’attuale Presidente fantoccio, vicina alla nunziatura. Il vecchio palazzetto di Anselmo Paulino, adesso una delle case di Ramfis Trujillo. La grande casa della figlia del Chivo, la bella Angelita, e di suo marito, Pechito, il colonnello Luis José León Estévez. Quella dei Cáceres Troncoso e una dimora di potenti: i Vicini. Con la Máximo Gómez confinava un campo di calcio che Trujillo aveva fatto costruire per i suoi figli di fronte all’Estancia Radhamés e all’area su cui sorgeva la casa del generale Ludovino Fernández, che il Chivo aveva ordinato di ammazzare. Tra una costruzione e l’altra c’erano terreni con erbe selvatiche e spazi deserti, protetti da recinzioni di rete metallica dipinte di verde, innalzate a filo della strada. E, sul marciapiede di destra, su cui passava sempre la comitiva, alcuni spazi incolti circondati da quelle recinzioni che Antonio Imbert aveva studiato per molte ore.

Aveva scelto il pezzo di recinzione che partiva dalla casa di Nene Trujillo. Con il pretesto di rinnovare parte del reticolato dell’industria di conglomerati Malta Rapida, di cui era direttore (apparteneva a Paco Martínez, fratello della Prestante Dama), comprò alcune decine di metri di quella rete con i relativi paletti di tubo che, ogni quindici metri, servivano a tenere tesa la recinzione. Lui stesso aveva verificato che i tubi fossero vuoti e che il loro interno potesse essere riempito di candelotti di dinamite. Poiché Malta Rapida possedeva, nei dintorni di Ciudad Trujillo, due cave da cui estraeva materia prima, gli risultò facile, nelle sue periodiche visite, sottrarre di volta in volta qualche candelotto di dinamite, che nascondeva nel suo ufficio, dove arrivava sempre prima di chiunque altro e da cui usciva dopo l’ultimo impiegato.

Quando tutto era predisposto, parlò del suo piano con Luis Gómez Pérez e con Iván Tavárez Castellanos. Erano piú giovani di lui, studenti universitari, di giurisprudenza il primo e di ingegneria il secondo. Facevano parte della sua stessa cellula nei gruppi clandestini antitrujillisti; dopo averli tenuti d’occhio per molte settimane, aveva concluso che erano seri, affidabili, ansiosi di passare all’azione. Tutt’e due avevano accettato con entusiasmo. Convennero di non farne parola ai compagni con cui, ogni volta in un posto diverso, si trovavano in riunioni di otto o dieci persone, a discutere il modo migliore per mobilitare il popolo contro la tirannia.

Insieme a Luis e a Iván, che risultarono anche migliori di quanto si aspettasse, riempí i tubi con i candelotti di dinamite e sistemò i detonatori, dopo averli provati con il comando a distanza. Per avere la certezza che l’orario venisse rispettato, verificarono nello sterrato della fabbrica, dopo l’uscita di operai e impiegati, quanto tempo occorresse loro per demolire una parte della recinzione esistente e sistemare quella nuova, cambiando i tubi vecchi con quelli imbottiti di dinamite. Meno di cinque ore. Tutto era pronto per il 12 giugno. Avevano progettato di agire il 15, quando Trujillo sarebbe tornato da un giro nel Cibao. Avevano già a disposizione il carro ribaltabile per buttare giú la recinzione all’alba, per avere cosí il pretesto – infagottati nelle tute blu dei Servizi Municipali – di sostituire i vecchi tubi con quelli minati. Segnarono i due punti, ognuno a meno di cinquanta passi dall’esplosione, da dove, Imbert a destra, Luis e Iván a sinistra, avrebbero azionato i comandi, a breve intervallo uno dall’altro, il primo per uccidere Trujillo nell’istante in cui fosse passato davanti ai tubi, e il secondo per finirlo.

E, allora, alla vigilia del giorno indicato, il 14 giugno 1959, si verificò sulle montagne di Constanza quel sorprendente atterraggio di un aereo venuto da Cuba, decorato con i colori e le scritte dell’Aviazione Dominicana, con guerriglieri antitrujillisti, invasione cui seguirono gli sbarchi sulle spiagge di Maimón e di Estero Hondo una settimana dopo. L’arrivo di quel piccolo distaccamento, di cui faceva parte il barbuto comandante cubano Delio Gómez Ochoa, fece correre un brivido lungo la spina dorsale del regime. Tentativo strampalato, scoordinato. I gruppi clandestini non avevano ricevuto la minima informazione su quello che si preparava a Cuba. L’appoggio di Fidel Castro alla rivoluzione contro Trujillo era, dalla caduta di Batista, sei mesi prima, argomento ossessivo delle riunioni. Si contava su quell’aiuto in tutti i piani che venivano orditi e disfatti, per i quali si raccoglievano doppiette da caccia, revolver, qualche vecchio fucile. Ma nessuno di quelli che Imbert conosceva era in contatto con Cuba né aveva la minima idea che il 14 giugno si sarebbe verificato l’arrivo di quelle decine di rivoluzionari che, dopo aver messo fuori combattimento il ridottissimo corpo di guardia dell’aeroporto di Constanza, si erano sparpagliati per le montagne circostanti, soltanto per essere cacciati come conigli nei giorni seguenti, e ammazzati a man salva, o portati a Ciudad Trujillo, dove, seguendo gli ordini di Ramfis, furono assassinati quasi tutti (ma non il cubano Gómez Ochoa e il suo figlio adottivo, Pedrito Mirabal, che il regime, con un altro gesto di teatrale arroganza, restituí tempo dopo a Fidel Castro).

Nessuno poteva immaginare, tanto meno, la portata della repressione che il governo scatenò a seguito dello sbarco. Nelle settimane e nei mesi seguenti, anziché ridursi, si aggravò. I caliés prendevano chiunque ritenessero sospetto e lo portavano al Sim, dove veniva sottoposto a torture – castrarlo, strappargli le orecchie e gli occhi, farlo sedere sul Trono – perché facesse dei nomi. La Victoria, La Cuarenta e El Nueve erano zeppi di giovani di entrambi i sessi, studenti, professionisti e impiegati, molti dei quali erano figli o parenti di uomini del governo. Trujillo ne avrebbe ricavato una grande sorpresa: era mai possibile che complottassero contro di lui i figli e i nipoti di persone che dal regime avevano ricavato benefici piú di chiunque altro? Non ebbero riguardi nei loro confronti, nonostante i loro cognomi, le loro facce bianche e l’aspetto da classe media.

Luis Gómez Pérez e Iván Tavárez Castellanos caddero nelle mani dei caliés del Sim la mattina del giorno previsto per l’attentato. Con il suo abituale realismo, Antonio Imbert capí che non aveva alcuna possibilità di chiedere asilo: tutte le ambasciate erano circondate da barriere di poliziotti in divisa, di soldati, di caliés. Calcolò che, sotto le torture, Luis e Iván, o chiunque altro dei gruppi clandestini, avrebbero fatto il suo nome e sarebbero andati a prenderlo. Allora, come questa sera, aveva saputo perfettamente che cosa fare: accogliere sparando i caliés. Avrebbe cercato di portarsene piú di uno all’altro mondo, prima che lo crivellassero di colpi. Lui non avrebbe lasciato che gli strappassero le unghie con le pinze, gli tagliassero la lingua o lo mettessero a sedere sulla sedia elettrica. Potevano ucciderlo, questo sí; tormentarlo, mai.

Con delle scuse, mandò Guarina, sua moglie, e la figlia Leslie, che non ne sapevano nulla, nella finca di alcuni parenti a La Romana, e, con un bicchiere di ron in mano, si sedette ad aspettare. Aveva in tasca il revolver carico e senza sicura. Ma né quel giorno, né quello dopo, né quello ancora dopo si presentarono i caliés a casa sua e nemmeno al suo ufficio alla Malta Rapida, dove continuò ad andare puntualmente con tutto il sangue freddo di cui era capace. Luis e Iván non lo avevano denunciato, e non lo avevano fatto neppure le persone che aveva frequentato nei gruppi clandestini. Miracolosamente, poté evitare una repressione che si abbatteva su colpevoli e innocenti, stava riempiendo le carceri e, per la prima volta nei ventinove anni del regime, terrorizzando le famiglie della classe media, tradizionali pilastri di Trujillo, da cui proveniva la maggior parte dei prigionieri di quello che fu chiamato, a causa dell’invasione fallita, il Movimiento 14 de Junio. Un cugino di Tony, Ramón Imbert Rainieri – Moncho –, era uno dei dirigenti.

Perché riuscí a scamparla? Grazie al coraggio di Luis e di Iván, senza dubbio – due anni dopo, erano ancora nelle celle de La Victoria –, e, senza dubbio, di altre ragazze e di altri ragazzi del 14 de Junio che avevano dimenticato di fare il suo nome. Forse lo consideravano soltanto un curioso, non un attivista. Perché, con la sua timidezza, Tony Imbert raramente apriva bocca in quelle riunioni cui lo aveva portato per la prima volta Moncho; si limitava ad ascoltare e a interloquire con monosillabi. Oltretutto, era improbabile che fosse schedato al Sim, se non come fratello del maggiore Segundo Imbert. Il suo stato di servizio era pulito. Aveva passato la vita a lavorare per il regime – come ispettore generale delle Ferrovie, gobernador di Puerto Plata, supervisore generale della Lotteria Nazionale, direttore dell’ufficio che rilasciava il documento personale d’identità – e adesso era responsabile di Malta Rapida, fabbrica del cognato di Trujillo. Perché avrebbero dovuto sospettare di lui?

Con prudenza, nei giorni seguenti al 14 giugno, trattenendosi diverse notti in fabbrica, smontò i candelotti e riportò la dinamite nelle cave, e intanto congetturava su come e con chi avrebbe messo in atto il prossimo piano per farla finita con Trujillo. Confessò tutto quello che era successo (e mancato di succedere) al suo amico del cuore, il Turco Salvador Estrella Sadhalá. Lui lo rimproverò per non averlo fatto partecipare al complotto dell’avenida Máximo Gómez. Salvador era arrivato, per conto proprio, alla stessa conclusione: nulla sarebbe cambiato fino a quando Trujillo fosse rimasto vivo. Cominciarono a immaginare possibili attentati, ma senza farne parola con Amadito, il terzo del trio: sembrava difficile che un assistente militare potesse voler uccidere il Benefattore.

Non molto dopo avvenne quel traumatico episodio nella carriera di Amadito, quando, per ottenere la promozione, dovette uccidere un prigioniero (il fratello della sua ex fidanzata, credeva), e questo lo fece entrare nella partita. Presto sarebbero stati due anni da quello sbarco a Constanza, Maimón e Estero Hondo. Un anno, undici mesi e quattordici giorni, per la precisione. Antonio Imbert guardò l’orologio. Non sarebbe venuto piú.

Quante cose erano successe nella Repubblica Dominicana, nel mondo e nella sua vita personale. Molte. Le retate di massa del gennaio 1960, nelle quali erano caduti tanti ragazzi e tante ragazze del Movimiento 14 de Junio, tra cui le sorelle Mirabal e i loro mariti. La rottura di Trujillo con la sua vecchia complice, la Chiesa cattolica, a partire dalla Lettera Pastorale dei vescovi che denunciava la dittatura, del gennaio 1960. L’attentato contro il Presidente del Venezuela Betancourt, nel giugno 1960, che aveva mobilitato contro Trujillo tanti paesi, compreso il suo grande alleato di sempre, gli Stati Uniti, che, il 6 agosto 1960, alla Conferenza di Costa Rica, avevano votato a favore delle sanzioni. E, il 25 novembre 1960 – Imbert sentí quella fitta nel petto, inevitabile ogni volta che ricordava il lugubre giorno –, l’assassinio delle tre sorelle, Minerva, Patria e María Teresa Mirabal, e dell’autista che le accompagnava, a La Cumbre, lassú sulla cordillera settentrionale, mentre tornavano dall’aver fatto visita ai mariti di Minerva e di María Teresa, incarcerati nella Fortezza di Puerto Plata.

Tutta la Repubblica Dominicana fu informata di quel massacro nel modo rapido e misterioso con cui le notizie circolavano di bocca in bocca e di casa in casa e in poche ore arrivavano nei punti piú remoti, anche se non compariva una sola riga sulla stampa, e molte volte quelle notizie trasmesse dal tamtam umano si colorivano, si riducevano o si ingigantivano lungo il percorso fino a diventare miti, leggende, finzioni, quasi senza rapporto con quello che era accaduto. Ricordava quella sera, sul Malecón, non molto lontano dal posto di adesso, sei mesi dopo, ad aspettare il Chivo – per vendicare anche loro. Stavano seduti sul muretto di pietra, come facevano ogni sera – lui, Salvador e Amadito, e, quella volta, anche Antonio de la Maza –, a prendere il fresco e a chiacchierare lontano da orecchi indiscreti. A tutt’e quattro quello che era accaduto alle Mirabal faceva digrignare i denti e provocava conati di vomito, mentre commentavano la morte, lassú sulle alture della cordillera, in un presunto incidente automobilistico, di quelle tre incredibili sorelle.

– Ci ammazzano i nostri padri, i nostri fratelli, i nostri amici. Adesso anche le nostre donne. E noi, rassegnati, ad aspettare il nostro turno, – sentí dire dalla propria voce.

– Basta con la rassegnazione, Tony, – reagí Antonio de la Maza. Era arrivato da Restauración; era lui che aveva portato la notizia delle Mirabal, raccolta lungo il cammino. – Trujillo la pagherà anche per loro. Tutto ormai si è messo in moto. Ma bisogna fare le cose per bene.

A quell’epoca, l’attentato avrebbe dovuto avvenire a Moca, durante una visita di Trujillo alla terra dei de la Maza nel corso delle visite che, dopo la condanna dell’Osa e le sanzioni economiche, andava facendo per il paese. Una bomba sarebbe scoppiata nella chiesa principale, dedicata al Sacro Cuore di Gesú, e una pioggia di scariche di fucile si sarebbe rovesciata dai balconi, dalle terrazze e dalla torre dell’orologio su Trujillo, mentre parlava dal palco innalzato sul sagrato, di fronte alle persone ammassate attorno alla statua di San Giovanni Bosco ricoperta a metà dalle trinitarias. Lo stesso Imbert aveva ispezionato la chiesa e si era offerto di appostarsi sulla torre dell’orologio, il luogo piú rischioso.

– Tony conosceva le Mirabal, – spiegò il Turco a Antonio. – Per questo si comporta cosí.

Le conosceva, anche se non poteva dire che fossero sue amiche. Loro tre, e i mariti di Minerva e di Patria, Manolo Tavares Justo e Leandro Guzmán, li aveva incontrati occasionalmente, nelle riunioni di quei gruppi in cui, prendendo a modello la storica Trinitaria di Duarte1, si organizzò il Movimiento 14 de Junio. Tutt’e tre erano dirigenti di quella organizzazione diffusa ed entusiasta, ma disordinata e inefficace, che la repressione stava smantellando. Le sorelle lo avevano impressionato per la loro determinazione e per l’audacia con cui si impegnavano in quella lotta cosí impari e incerta; soprattutto, Minerva Mirabal. Capitava a tutti quelli che s’imbattevano in lei e la sentivano ragionare, discutere, fare proposte o prendere decisioni. Anche se non aveva pensato a quello, Tony Imbert si disse dopo l’assassinio che, fino a quando non aveva conosciuto Minerva Mirabal, non gli era mai passato per la mente che una donna potesse dedicarsi a cose tanto virili come preparare una rivoluzione, procurarsi o nascondere armi, dinamite, bottiglie molotov, coltelli, baionette, parlare di attentati, di strategia e tattica, e discutere con freddezza se, qualora fossero caduti nelle mani del Sim, i militanti dovevano ingoiare un veleno per non correre il rischio di denunciare i compagni durante la tortura.

Minerva parlava di quelle cose e del modo migliore di fare propaganda clandestina, o di reclutare studenti all’università, e tutti la stavano a sentire. Per quanto era intelligente e per la chiarezza con cui si esprimeva. Le sue convinzioni, cosí salde, e la sua eloquenza davano alle sue parole una forza contagiosa. Era, oltretutto, bellissima, con quei capelli e quegli occhi cosí neri, quei tratti sottili, quel naso e la bocca cosí ben delineati e la bianchissima dentatura che contrastava con il tono azzurrato della sua carnagione. Bellissima, sí. C’era in lei qualcosa di possentemente femminile, una delicatezza, una civetteria naturale nei movimenti del suo corpo e nei suoi sorrisi, nonostante la sobrietà con cui si vestiva quando partecipava a quelle riunioni. Tony non ricordava di averla vista truccata. Sí, bellissima, ma mai – pensò – nessuno dei partecipanti avrebbe osato rivolgerle uno di quei complimenti, farle una di quelle moine o di quei giochi che erano normali, naturali – obbligatori – tra dominicani, tanto piú se giovani e uniti dall’intensa fraternità che veniva loro dagli ideali, dalle illusioni e dai rischi condivisi. Qualcosa, nella figura attraente di Minerva Mirabal, impediva che gli uomini si prendessero con lei quelle confidenze e quelle libertà che si permettevano con le altre donne.

Allora, era già una leggenda nel piccolo mondo della lotta clandestina contro Trujillo. Quali delle cose che si dicevano erano vere, quali esagerate, quali inventate? Nessuno avrebbe osato domandarglielo, per non ricevere uno di quegli sguardi profondi, sprezzanti, e una di quelle repliche taglienti con cui, a volte, metteva a tacere un interlocutore. Si diceva che da adolescente avesse osato umiliare Trujillo in persona, rifiutandosi di ballare con lui, e che per questo suo padre era stato privato del titolo di sindaco di Ojo de Agua e mandato in galera. Altri insinuavano che non era stato soltanto uno sgarbo, ma che lo aveva colpito con uno schiaffo perché ballando con lei l’aveva palpata o le aveva detto qualcosa di volgare, una possibilità che molti scartavano («Non sarebbe viva, l’avrebbe ammazzata o fatta ammazzare lí per lí»), ma non Antonio Imbert. Sin dalla prima volta che l’aveva vista e ascoltata, non aveva esitato per un attimo a credere che, se quello schiaffo non era stato vero, avrebbe potuto esserlo. Bastava guardare e ascoltare per qualche minuto Minerva Mirabal (ad esempio, mentre parlava con naturalezza glaciale della necessità di preparare psicologicamente i militanti a resistere alla tortura) per sapere che era capace di schiaffeggiare lo stesso Trujillo se le avesse mancato di rispetto. Era stata arrestata un paio di volte e si raccontavano aneddoti sulla sua temerarietà a La Cuarenta, prima, e poi a La Victoria, dove aveva fatto uno sciopero della fame, aveva resistito all’isolamento a pane e acqua putrida, e dove, si diceva, l’avevano sottoposta a maltrattamenti tremendi. Lei non parlava mai del suo passaggio in carcere, né delle torture, né del calvario che, da quando si era saputo che era antitrujillista, aveva vissuto la sua famiglia, perseguitata, espropriata dei pochi beni e con residenza forzata in casa. La dittatura consentí a Minerva di studiare giurisprudenza, soltanto per negarle, alla fine del corso di studi – vendetta ben progettata –, l’abilitazione professionale, cioè condannarla a non lavorare, a non guadagnarsi da vivere, a sentirsi frustrata in piena gioventú, con cinque anni di studio gettati al vento. Ma nulla di tutto questo la amareggiava; era sempre lí, infaticabile, a dare coraggio a tutti quanti, un motore in moto, preludio – si disse molte volte Imbert – di quel paese giovane, bello, entusiasta, idealista che sarebbe stato un giorno la Repubblica Dominicana.

Sentí, vergognandosi, che gli si riempivano gli occhi di lacrime. Accese una sigaretta e aspirò diverse volte, buttando fuori il fumo verso un mare in cui la luce della luna risplendeva, giocherellando. Non c’era vento, adesso. Ogni tanto i fari di qualche macchina apparivano in lontananza, provenienti da Ciudad Trujillo. Tutt’e quattro si drizzavano sui sedili, allungavano il collo, scrutavano nel buio, tesi, ma, ogni volta, a venti o trenta metri, scoprivano che non era la Chevrolet e tornavano e stendersi sui loro sedili, delusi.

Quello che meglio sapeva trattenere le proprie emozioni era Imbert. Era sempre stato taciturno, ma, negli ultimi anni, da quando l’idea di uccidere Trujillo si era impadronita di lui, e, come una tenia, si era andata nutrendo di tutte le sue energie, la sua laconicità si era accentuata. Non aveva mai avuto molti amici; negli ultimi mesi, la sua vita non aveva conosciuto altri confini che il suo ufficio alla Malta Rapida, la sua casa e le riunioni quotidiane con Estrella Sadhalá e il tenente García Guerrero. Dopo la morte delle sorelle Mirabal, di fatto le assemblee clandestine erano cessate. La repressione distrusse il Movimiento 14 de Junio. Quelli che riuscirono a scamparla, si ripiegarono sulla vita famigliare, cercando di passare inosservati. Di tanto in tanto, una domanda lo angosciava: «Perché non sono stato arrestato?» L’incertezza lo faceva sentire male, come se avesse qualche colpa, come se fosse responsabile di quello che soffrivano coloro che si trovavano nelle mani di Johnny Abbes mentre lui continuava a godersi la sua libertà.

Una libertà molto relativa, certo. Da quando aveva cominciato a capire in quale regime vivesse, quale governo avesse servito sin da giovane e continuasse ancora a servire – che altro era se non il responsabile di una delle fabbriche del clan? – si sentiva un prigioniero. Forse era stato per liberarsi dalla sensazione di avere tutti i passi sotto controllo, tutti i percorsi e i movimenti tracciati, che l’idea di eliminare Trujillo aveva fatto presa con tanta forza nella sua coscienza. La disillusione nei confronti del regime, nel suo caso, era stata graduale, lunga e segreta, molto precedente ai conflitti politici del fratello Segundo, che pure era stato ancora piú trujillista di lui. Chi non lo era attorno a lui, venti, venticinque anni prima? Tutti credevano che il Chivo fosse il salvatore della Patria, colui che aveva messo fine alle guerre dei caudillos, al pericolo di una nuova invasione haitiana, colui che aveva posto fine alla dipendenza umiliante dagli Stati Uniti – la quale teneva sotto controllo le dogane, impediva che esistesse una moneta dominicana e dava l’approvazione al Bilancio – e che, nel bene o nel male, aveva portato al governo le teste pensanti del paese. Che cosa importava, a fronte di tutto questo, se Trujillo si sbatteva tutte le donne di cui gli veniva voglia? O che avesse fatto il pieno di fabbriche, tenute, allevamenti? Non faceva forse crescere la ricchezza dominicana? Non aveva dotato il paese delle Forze Armate piú potenti del Caribe? Tony Imbert aveva affermato e sostenuto queste cose per venti anni della propria vita. Era quello che adesso gli faceva contorcere lo stomaco.

Non ricordava piú come era cominciato, i primi dubbi, le congetture, le contraddizioni che lo avevano portato a domandarsi se davvero tutto andava cosí bene, o se, dietro quella facciata di un paese che sotto la severa ma ispirata conduzione di uno statista fuori del comune progrediva a marce forzate, non vi fosse un tetro spettacolo di persone distrutte, maltrattate e ingannate, l’intronizzazione mediante la propaganda e la violenza di una gigantesca menzogna. Goccioline instancabili che, a furia di cadere e cadere, avevano finito per forare il suo trujillismo. Quando aveva lasciato l’incarico di gobernador di Puerto Plata, nel fondo del suo cuore già non era piú trujillista, era convinto che il regime fosse dittatoriale e corrotto. Non lo aveva detto a nessuno, neppure a Guarina. Agli occhi del mondo continuava a essere un trujillista, dunque, anche se il fratello Segundo si era autoesiliato a Puerto Rico, il regime, come prova di magnanimità, aveva continuato ad assegnare incarichi a Antonio, e addirittura – quale maggiore dimostrazione di fiducia? – nelle aziende della famiglia Trujillo.

Era stato quel malessere di tanti anni, pensare una cosa e fare ogni giorno qualcosa che la contraddiceva, a condurlo, sempre nel segreto della sua mente, a condannare a morte Trujillo, a convincersi che, finché fosse rimasto in vita, lui e moltissimi dominicani sarebbero stati condannati a quell’orribile travaglio e disgusto di loro stessi, a mentirsi ogni momento e a ingannare tutti, a essere due in uno, una menzogna pubblica e una verità privata nell’impossibilità di esprimersi.

Questa decisione gli aveva fatto bene, gli aveva sollevato il morale. La sua vita aveva smesso di essere quella vergogna, quello sdoppiamento, quando aveva potuto condividere con qualcuno i suoi veri sentimenti. L’amicizia con Salvador Estrella Sadhalá sembrò quasi essere stata mandata dal cielo. Con il Turco poteva esprimersi a piacimento contro tutto quello che lo circondava; con la sua integrità morale e con l’onestà che cercava di praticare per adeguare il suo comportamento alla religione che professava con una dedizione che Tony non aveva visto in nessuno, si era trasformato nel suo modello, oltre che nel suo migliore amico.

Poco dopo essere entrato in intimità con lui, Imbert aveva cominciato a frequentare i gruppi clandestini, grazie a suo cugino Moncho. Anche se usciva dalle riunioni con la sensazione che quelle ragazze e quei ragazzi, sebbene rischiassero la libertà, il loro futuro, la vita, non trovavano un modo efficace per lottare contro Trujillo, stare una o due ore con loro, dopo essere arrivato in quella casa sconosciuta – una diversa ogni volta – facendo mille giri, seguendo staffette che riconosceva attraverso parole d’ordine sempre nuove, gli diede una ragione per vivere, gli ripulí la coscienza e rimise in piedi la sua vita.

Guarina rimase sconvolta quando, alla fine, perché non venisse colta di sorpresa da qualunque contrattempo, Tony le rivelò che, sebbene le apparenze affermassero il contrario, aveva smesso di essere trujillista e, addirittura, agiva in segreto contro il governo. Lei non aveva cercato di dissuaderlo. Non domandò che cosa sarebbe stato della figlia Leslie se lo avessero catturato e lo avessero condannato a trent’anni di carcere come Segundo, o, peggio, se lo avessero ucciso.

Né sua moglie né sua figlia sapevano di questa sera; credevano che stesse giocando a carte in casa del Turco. Che cosa ne sarebbe stato di loro se le cose fossero andate male?

– Tu hai fiducia nel generale Román? – disse, precipitosamente, per costringersi a pensare ad altro. – Sicuro che sia dei nostri? Anche se ha sposato una nipote in primo grado di Trujillo ed è cognato dei generali José e Virgilio García Trujillo, i nipoti favoriti del Capo?

– Se non stesse con noi, saremmo già tutti a La Cuarenta, – disse Antonio de la Maza. – Sta con noi, purché si rispetti la sua condizione: vedere il cadavere.

– Si stenta a crederlo, – mormorò Tony. – Che cosa ci guadagna in questa storia il segretario di Stato per le Forze Armate? Ha tutto da perdere.

– Odia Trujillo piú di te e me, – rispose de la Maza. – Come molti altri pezzi grossi. Il trujillismo è un castello di carte. Cadrà giú, vedrai. Pupo ha coinvolto molti militari; aspettano soltanto i suoi ordini. Li darà e, domani, questo sarà un altro paese.

– Sempre che il Chivo venga, – borbottò, sul sedile posteriore, Estrella Sadhalá.

– Verrà, Turco, verrà, – ripeté ancora una volta il tenente.

Antonio Imbert si sprofondò di nuovo nei propri pensieri. Domani mattina si sarebbe ridestata, questa sua terra, libera? Lo desiderava con tutte le sue forze, ma, ancora adesso, pochi minuti prima che succedesse, stentava a crederlo. Quanta gente faceva parte della congiura, oltre al generale Román? Non aveva mai voluto verificarlo. Sapeva di quattro o cinque persone, ma erano molte di piú. Meglio non saperlo. Gli era sempre parso indispensabile che i congiurati sapessero il meno possibile, per non mettere a rischio l’operazione. Aveva ascoltato con interesse tutto quello che Antonio de la Maza gli aveva rivelato a proposito dell’impegno assunto dal capo delle Forze Armate di prendere il potere se avessero giustiziato il tiranno. Cosí, i parenti prossimi del Chivo e i principali trujillisti sarebbero stati catturati o uccisi prima che potessero scatenare un’azione di rappresaglia. Meno male che i due figli, Ramfis e Radhamés, erano a Parigi. Con quanta gente doveva aver parlato Antonio de la Maza? A volte, nelle ininterrotte riunioni degli ultimi mesi, per modificare il piano, a Antonio sfuggivano allusioni, riferimenti, mezze parole, che gli facevano pensare che ci fosse molta gente implicata. Tony aveva spinto le cautele fino al punto di chiudere la bocca a Salvador, un giorno in cui questi, indignato, aveva cominciato a raccontare che lui e Antonio de la Maza, durante una riunione a casa del generale Juan Tomás Díaz, avevano avuto un alterco con un gruppo di cospiratori che erano contrari a che Imbert venisse accettato nella congiura. Non lo credevano sicuro, a causa del suo passato trujillista; qualcuno aveva ricordato il famoso telegramma a Trujillo, in cui si offriva di incendiare Puerto Plata. («Mi perseguiterà fino alla morte, e dopo la morte», pensò). Il Turco e Antonio protestarono, dicendo che mettevano la mano sul fuoco per Tony, ma lui non permise che Salvador continuasse:

– Non lo voglio sapere, Turco. Dopo tutto, quelli che non mi conoscono bene perché dovrebbero fidarsi di me? È vero, in tutta la mia vita ho lavorato per Trujillo, direttamente o indirettamente.

– E allora io che cosa faccio? – rispose il Turco. – Che cosa fa il trenta o quaranta per cento di noi dominicani? Non lavoriamo anche noi per il governo e per le sue imprese? Soltanto quelli che sono molto ricchi possono prendersi il lusso di non lavorare per Trujillo.

«Neppure loro», pensò. Anche i ricchi, se volevano continuare a essere ricchi, dovevano allearsi con il Capo, vendergli parte delle loro aziende o comprare parte delle sue e contribuire in questo modo alla sua grandezza e al suo potere. Con gli occhi semichiusi, cullato dal rumore calmo del mare, pensò a quale orrendo sistema Trujillo era stato capace di creare, cui tutti i dominicani prima o poi avrebbero dovuto partecipare come complici, un sistema dal quale potevano mettersi in salvo soltanto gli esuli (non sempre) e i morti. Nel paese, in un modo o nell’altro, tutti erano stati, erano o sarebbero stati parte del regime. «La cosa peggiore che può succedere a un dominicano è essere intelligente o capace, – aveva sentito dire una volta da Álvaro Cabral (“Un dominicano molto intelligente e capace”, si disse) e la frase gli rimase impressa: – Perché, allora, prima o poi, Trujillo lo chiamerà a servire il regime, o la sua persona, e quando chiama non è permesso dire di no». Lui era una dimostrazione di quella verità. Non gli era mai passato per la testa di opporre la minima resistenza a quelle nomine. Come diceva Estrella Sadhalá, il Chivo aveva privato gli uomini dell’attributo sacro che Dio aveva concesso loro: il libero arbitrio.

A differenza del Turco, la religione non aveva mai occupato un posto centrale nella vita di Antonio Imbert. Era cattolico alla maniera dominicana, aveva compiuto tutte le cerimonie religiose che segnavano la vita della gente – battesimo, confermazione, prima comunione, scuola cattolica, matrimonio in chiesa – e senza dubbio avrebbe avuto un funerale con il sermone e la benedizione del prete. Ma non era mai stato un credente troppo coscienzioso, né preoccupato per le implicazioni della sua fede nella vita di tutti i giorni, né si era impegnato a verificare se il suo comportamento si adeguava ai comandamenti, come faceva Salvador in un modo che a lui sembrava insano.

Ma la faccenda del libero arbitrio lo aveva colpito. Forse per questo aveva deciso che Trujillo doveva morire. Per riacquistare, lui e i dominicani, la capacità di accettare o rifiutare almeno il lavoro con cui ci si guadagna da vivere. Tony non sapeva che cosa fosse tutto questo. Da bambino forse lo aveva saputo, ma lo aveva dimenticato. Doveva essere una bella cosa. La tazza di caffè o il bicchiere di ron dovevano avere tutto un altro sapore, il fumo della sigaretta, il bagno al mare in un giorno di gran caldo, il film del sabato o il merengue alla radio, dovevano lasciare nel corpo e nell’animo una sensazione piú gradevole, quando si disponeva di ciò che Trujillo aveva portato via ai dominicani trentuno anni prima: il libero arbitrio.

1. Juan Pablo Duarte fondò la società segreta «la Trinitaria» per liberare il paese dal dominio haitiano, e nel 1844 guidò l’insurrezione da cui nacque la Repubblica Dominicana.