Capitolo undicesimo

– Una domanda, Eccellenza, – disse Simon Gittleman, rubizzo a causa delle coppe di champagne e di vino, o, forse dell’emozione. – Tra tutti i provvedimenti che lei ha preso per fare grande questo paese, qual è stato il piú difficile?

Parlava uno spagnolo eccellente, con un vago accento, nulla che somigliasse a quel linguaggio caricaturale, pieno di errori e dall’intonazione sbagliata di tanti gringos che erano sfilati per gli uffici e i saloni del Palacio Nacional. Quanto era migliorato lo spagnolo di Simon dal 1921, quando Trujillo, giovane tenente della Guardia Nacional, era stato ammesso come allievo alla Scuola Ufficiali di Haina e aveva avuto come istruttore il marine; allora, biascicava una lingua barbara, infarcita di parolacce. Gittleman aveva formulato la domanda a voce cosí alta che le conversazioni si interruppero e venti teste – curiose, ridenti, serie – si girarono verso il Benefattore, aspettando la sua risposta.

– Posso risponderti, Simon, – Trujillo assunse la voce strascicata e concava delle occasioni solenni. Fissò lo sguardo sul lampadario dalle lampadine a forma di petali, e aggiunse: – Il 2 ottobre 1937, a Dajabón.

Vi furono rapidi scambi di occhiate tra i partecipanti al pranzo offerto da Trujillo a Simon e Dorothy Gittleman, dopo la cerimonia in cui l’ex marine era stato decorato con l’Ordine al Merito Juan Pablo Duarte. Nel ringraziare, Gittleman aveva la voce rotta dall’emozione. Adesso, cercava di indovinare a cosa si riferisse Sua Eccellenza.

– Ah, gli haitiani! – il colpo della sua mano sulla tavola fece tintinnare la fine cristalleria di coppe, piatti, bicchieri e bottiglie. – Il giorno in cui Sua Eccellenza decise di tagliare il nodo gordiano dell’invasione haitiana.

Tutti avevano davanti a sé bicchieri di vino, ma il Generalissimo beveva soltanto acqua. Era serio, assorto nei suoi ricordi. Il silenzio si fece denso. Ieratico, teatrale, il Generalissimo sollevò le mani e le mostrò agli invitati:

– Per questo paese, io mi sono macchiato di sangue, – affermò, scandendo le parole. – Affinché i negri non ci colonizzassero un’altra volta. Erano decine di migliaia, erano dappertutto. Oggi non esisterebbe la Repubblica Dominicana. Come nel 1840, tutta l’isola sarebbe Haití. La manciata di bianchi sopravvissuti, servirebbe i negri. Quella è stata la decisione piú difficile in trent’anni di governo, Simon.

– Seguendo le sue disposizioni, abbiamo percorso la frontiera da un confine all’altro, – il giovane deputato Henry Chirinos si chinò sull’enorme carta aperta sulla scrivania del Presidente e indicò: – Se continua cosí, non ci sarà futuro per Quisqueya, Eccellenza.

– La situazione è piú grave di come le hanno riferito, Eccellenza, – il sottile indice del giovane deputato Agustín Cabral accarezzò la linea rossa tratteggiata che scendeva tracciando delle esse da Dajabón a Pedernales. – Migliaia di migliaia, vivono nelle haciendas, nei terreni incolti, nelle fattorie. Hanno preso il posto della manodopera dominicana.

– Lavorano gratis, senza prendere un salario, soltanto in cambio del vitto. Dato che a Haití non c’è da mangiare, un po’ di riso e fagioli per loro basta e avanza. Costano meno degli asini e dei cani.

Chirinos gesticolò e cedette la parola all’amico e collega:

– È inutile discutere con proprietari di haciendas e di fincas, Eccellenza, – precisò Cabral. – Rispondono toccandosi la tasca. Che importa se sono haitiani, quando sono bravi macheteros per la raccolta della canna, e prendono una miseria? Per il patriottismo non andrò certo contro i miei interessi.

Tacque, guardò il deputato Chirinos e questi proseguí:

– Dalle parti di Dajabón, Elías Piña, Independencia e Pedernales, invece dello spagnolo si sentono soltanto i grugniti africani del creole.

Guardò Agustín Cabral e questi aggiunse:

– Il vudú, la santería, le superstizioni africane stanno sradicando la religione cattolica, il segno distintivo, come la lingua e la razza, della nostra nazionalità.

– Abbiamo visto parroci piangere per la disperazione, Eccellenza, – vibrò il giovane deputato Chirinos. – Il selvaggiume precristiano si impadronisce del paese di Diego Colón, di Juan Pablo Duarte e di Trujillo. Gli stregoni haitiani hanno piú influenza dei parroci. I curanderos, piú dei farmacisti e dei medici.

– L’Esercito non ha fatto niente? – Simon Gittleman bevve un sorso di vino. Uno dei camerieri in divisa bianca si affrettò a riempirgli il bicchiere.

– L’Esercito fa quello che comanda il Capo, Simon, lo sai, – soltanto il Benefattore e l’ex marine parlavano. Gli altri ascoltavano e le loro teste si muovevano, dall’uno all’altro. – La cancrena era avanzata fino a molto in alto. Montecristi, Santiago, San Juan, Azua, brulicavano di haitiani. La peste si era propagata senza che nessuno facesse niente. In attesa di uno statista che vedesse in lontananza, al quale non tremasse la mano.

– S’immagini un’idra dalle innumerevoli teste, Eccellenza, – il giovane deputato Chirinos poetizzava con le acrobazie dei suoi gesti. – Quella manodopera ruba il lavoro al dominicano, che, per sopravvivere, vende il suo terreno e la sua casetta. Chi gli compra quelle terre? L’haitiano arricchito, naturalmente.

– È la seconda testa dell’idra, Eccellenza, – precisò il giovane deputato Cabral. – Portano via lavoro a chi è di questa nazione e si appropriano, pezzo dopo pezzo, della nostra sovranità.

– Anche delle donne, – fece la voce piú grave ed emise un sospiro lussurioso il giovane Henry Chirinos: la sua lingua rossiccia spuntò, serpentina, tra le grosse labbra. – Niente attira la carne negra come quella bianca. Gli stupri di dominicane da parte di haitiani sono pane di tutti i giorni.

– Per non parlare dei furti, degli assalti alla proprietà, – insistette il giovane Agustín Cabral. – Le bande di facinorosi attraversano il fiume Masacre come se non esistessero dogane, controlli, pattuglie. La frontiera è un colabrodo. Le bande distruggono villaggi e haciendas come nuvole di cavallette. Poi, si portano dietro a Haití il bestiame e tutto quello che trovano per mangiare, per vestirsi e per ornarsi. Quella regione non è piú nostra, Eccellenza. Ormai abbiamo perso la nostra lingua, la nostra religione, la nostra razza. Adesso fa parte della barbarie haitiana.

Dorothy Gittleman parlava appena spagnolo e doveva annoiarsi a quel dialogo su cose successe ventiquattro anni prima, ma, molto seria, annuiva di tanto in tanto, guardando il Generalissimo e il marito come se non stesse perdendo una sola sillaba di quello che dicevano. L’avevano fatta sedere tra il Presidente fantoccio, Joaquín Balaguer, e il ministro delle Forze Armate, il generale José René Román. Era una vecchina sottile, fragile, diritta, che sembrava ringiovanita grazie al vestito estivo dai toni rosati. Durante la cerimonia, quando il Generalissimo aveva detto che il popolo dominicano non avrebbe dimenticato la solidarietà che gli avevano manifestato i coniugi Gittleman in quei momenti difficili, quando tanti governi lo pugnalavano alle spalle, versò anche qualche lacrima.

– Io sapevo quello che stava succedendo, – affermò Trujillo. – Ma ho voluto verificare, che non ci fossero dubbi. Neppure dopo aver ricevuto il rapporto del Costituzionalista Sbronzo e di Cerebrito, che avevo mandato sul posto, ho preso una decisione. Invece decisi di andare io stesso alla frontiera. L’ho percorsa a cavallo, accompagnato dai volontari della Guardia Universitaria. L’ho visto con questi occhi: ci avevano invasi di nuovo, come nel 1822. Questa volta, pacificamente. Avrei potuto permettere che gli haitiani rimanessero nel mio paese altri ventidue anni?

– Nessun patriota lo avrebbe permesso, – esclamò il senatore Henry Chirinos, alzando il bicchiere. – E, meno che mai, il Generalissimo Trujillo. Un brindisi per Sua Eccellenza!

Trujillo proseguí, come se non avesse sentito:

– Avrei potuto permettere che, come in quei ventidue anni di occupazione, i negri assassinassero, violentassero e sgozzassero perfino nelle chiese i dominicani?

Di fronte al fallimento del suo brindisi, il Costituzionalista Sbronzo sospirò, bevve un sorso di vino e si mise ad ascoltare.

– Nel corso di quella ispezione alla frontiera, con la Guardia Universitaria, il fior fiore della gioventú, ho richiamato alla memoria il passato, – proseguí il Generalissimo, con enfasi crescente. – Ho ricordato il massacro nella chiesa di Moca. L’incendio di Santiago. La marcia verso Haití di Dessalines e Cristóbal, con novecento notabili di Moca, che morirono lungo la strada o furono spartiti come schiavi tra i militari haitiani.

– Sono piú di due settimane che abbiamo presentato la nostra relazione e il Capo non fa niente, – si inquietò il giovane deputato Chirinos. – Prenderà una decisione, Cerebrito?

– Non sarò io a chiederglielo, – gli rispose il giovane deputato Cabral. – Il Capo agirà. Sa che la situazione è grave.

Tutt’e due avevano accompagnato Trujillo nell’ispezione a cavallo lungo la frontiera, con quel centinaio di volontari della Guardia Universitaria, e alla fine erano arrivati, boccheggiando piú delle loro bestie, alla città di Dajabón. Loro due, nonostante la giovane età, avrebbero preferito riposare le ossa maltrattate dalla cavalcata, ma Sua Eccellenza offriva un ricevimento alla società di Dajabón e mai e poi mai avrebbero potuto fargli uno sgarbo. Erano lí, asfissiati dal caldo nelle loro camicie dai colletti rigidi e nelle loro redingote, nel municipio addobbato a festa dove Trujillo, fresco come se non avesse cavalcato sin dall’alba, in un’impeccabile uniforme azzurra e grigia costellata di decorazioni e di alamari, faceva le sue evoluzioni tra i diversi gruppi, ricevendo omaggi, con una coppa di Carlos I nella mano destra. A quel punto, scorse un giovane ufficiale dagli stivali impolverati che entrava nel salone imbandierato.

– Ti sei presentato a quella festa di gala sudato e con abiti da campagna, – il Benefattore volse bruscamente lo sguardo verso il ministro delle Forze Armate. – Che schifo ho provato.

– Venivo a portare una notizia al capo del mio reggimento, Eccellenza, – si confuse il generale Román, dopo un momento di silenzio, in cui la sua memoria doveva essersi sforzata di identificare quel vecchio episodio. – Una banda di facinorosi haitiani era penetrata la notte prima in modo clandestino nel paese. All’alba avevano assaltato tre fattorie a Capotillo e Parolí, portando via tutto il bestiame. E avevano lasciato dietro di sé tre morti, oltretutto.

– Ti sei giocato la carriera, presentandoti in quelle condizioni di fronte a me, – lo rimproverò il Generalissimo, con irritazione retroattiva. – Va bene. È la goccia che fa traboccare il vaso. Vengano qui il ministro della Guerra, quello dell’Interno e tutti i militari presenti. Gli altri si allontanino, per favore.

Aveva alzato la vocetta stridula in un acuto isterico, come prima, quando impartiva ordini in caserma. Era stato obbedito immediatamente, tra un ronzare come di vespe. I militari formarono un fitto cerchio attorno a lui; i signori e le signore indietreggiarono fino alle pareti, lasciando uno spazio vuoto al centro del salone ornato con stelle filanti, fiori di carta e bandierine dominicane. Il Presidente Trujillo diede l’ordine in fretta:

– A partire da mezzanotte, le forze dell’Esercito e della Polizia procederanno a sterminare senza riguardi ogni persona di nazionalità haitiana che sia presente in modo illegale sul territorio dominicano, tranne coloro che si trovino negli ingenios zuccherieri –. Dopo essersi schiarito la gola, scorse il cerchio di ufficiali con uno sguardo grigio: – È chiaro?

Le teste annuirono, alcune con espressione di sorpresa, altre con scintillii di selvaggia allegria nelle pupille. Fecero risuonare i tacchi, quando si allontanarono.

– Capo di Reggimento di Dajabón: metta in carcere, a pane e acqua, l’ufficiale che si è presentato qui in quello stato schifoso. Che la festa continui. Divertitevi!

Nell’espressione di Simon Gittleman l’ammirazione si mescolava alla nostalgia.

– Sua Eccellenza non ha mai esitato nell’ora dell’azione, – l’ex marine si rivolse a tutta la tavola. – Io ho avuto l’onore di addestrarla, alla Scuola di Haina. Sin dal primo momento ho capito che sarebbe arrivato lontano. Certo, non immaginavo cosí lontano.

Rise, e risatine amabili gli fecero eco.

– Non hanno mai tremato, – ripeté Trujillo, mostrando di nuovo le mani. – Perché ho dato ordine di uccidere soltanto quando era assolutamente indispensabile per il bene del paese.

– Da qualche parte ho letto, Eccellenza, che lei ha dato ordine che i soldati usassero i machete, di non sparare, – domandò Simon Gittleman. – Per risparmiare munizioni?

– Per indorare la pillola, prevedendo le reazioni internazionali, – lo corresse Trujillo, con noncuranza. – Se si fossero usati soltanto i machete, l’operazione sarebbe potuta apparire un movimento spontaneo di contadini, senza l’intervento del governo. Noi dominicani siamo generosi, non abbiamo mai risparmiato in niente, e tanto meno nelle munizioni.

Tutta la tavolata rise. Simon Gittleman anche, ma tornò alla carica.

– È vera la storia del prezzemolo, Eccellenza? Che per distinguere i dominicani dagli haitiani si faceva pronunciare ai negri la parola «perejil»? E che a quelli che non la pronunciavano bene veniva tagliata la testa?

– Ho sentito questo aneddoto, – si strinse nelle spalle Trujillo. – Chiacchiere che girano da queste parti.

Chinò il capo, come se un pensiero profondo richiedesse all’improvviso da lui un grande sforzo di concentrazione. Non era successo; il suo sguardo era ancora aguzzo e i suoi occhi non individuarono sulla patta né tra le gambe la macchia rivelatrice. Rivolse un sorriso amichevole all’ex marine:

– Come quello che riguarda i morti, – disse, scherzoso. – Domanda a quelli che sono seduti a questa tavola e sentirai le cifre piú diverse. Tu, per esempio, senatore, quanti furono i morti?

La faccia scura di Henry Chirinos si sollevò, rigonfia per la soddisfazione di essere il primo cui il Capo aveva rivolto la domanda.

– Difficile saperlo, – gesticolò, come nei discorsi. – Si è esagerato molto. Tra cinque e ottomila, al massimo.

– Generale Arredondo, tu eri a Independencia in quei giorni, a tagliare teste. Quanti?

– Circa ventimila, Eccellenza, – rispose l’obeso generale Arredondo, che sembrava imprigionato dentro l’uniforme. – Soltanto nella zona di Independencia ce ne sono state diverse migliaia. Il senatore si è tenuto un po’ stretto. Io c’ero. Ventimila, non di meno.

– Quanti ne hai ammazzati tu stesso? – scherzò il Generalissimo e un’altra ondata di risate percorse la tavolata, facendo scricchiolare le sedie e cantare la cristalleria.

– Quello che ha detto a proposito delle chiacchiere è la pura verità, Eccellenza, – replicò l’adiposo ufficiale, e il suo sorriso diventò smorfia. – Adesso, danno a noi tutta la responsabilità. Falso, del tutto falso! L’Esercito ha eseguito il suo ordine. Abbiamo cominciato con il separare gli illegali dagli altri. Ma il popolo non ci ha lasciati fare. Tutti quanti si sono messi a dare la caccia agli haitiani. Contadini, commercianti e impiegati denunciavano dove si nascondevano, li impiccavano e li ammazzavano a bastonate. Li bruciavano, a volte. In molti posti, l’Esercito è dovuto intervenire per fermare gli eccessi. C’era risentimento contro di loro, perché erano ladri e saccheggiatori.

– Presidente Balaguer, lei è stato uno dei negoziatori con Haití, dopo i fatti, – Trujillo andava avanti con la sua inchiesta. – Quanti furono?

L’evanescente, minuta figurina del Presidente della Repubblica, mezzo inghiottita dalla sedia, sporse in avanti la benevola testa. Dopo che ebbe osservato da dietro i suoi occhiali da miope i presenti, emise quella soave e intonata vocina che recitava poesie nei Juegos Florales, celebrava l’incoronazione della Signorina Repubblica Dominicana (di cui era sempre Poeta del Regno), arringava le masse durante le trasferte politiche di Trujillo, o esponeva i programmi del governo di fronte all’Assemblea Nazionale.

– La cifra precisa non si è mai potuta conoscere, Eccellenza, – parlava piano, con aria professorale. – Un calcolo prudente va dai dieci ai quindicimila. In quel negoziato con il governo di Haití, convenimmo una cifra simbolica: 2750. Cosí, in teoria, ogni famiglia colpita avrebbe ricevuto cento pesos dei 275000 che pagò in contanti il governo di Sua Eccellenza, come gesto di buona volontà e sull’altare dell’armonia haitiano-dominicana. Ma, come lei ricorderà, le cose non andarono cosí.

Tacque, con un accenno di sorriso sulla sua faccia minuta e tonda, stringendo gli occhietti chiari dietro le spesse lenti.

– Perché quel risarcimento non arrivò alle famiglie? – domandò Simon Gittleman.

– Perché il Presidente di Haití, Sténio Vincent, che era un lestofante, si tenne i soldi per sé, – scoppiò a ridere Trujillo. – Ne furono pagati soltanto 275000? A quel che ricordo, avevamo convenuto 750000 dollari perché la smettessero di protestare.

– In effetti, Eccellenza, – replicò immediatamente, con la stessa calma e perfetta dizione, il dottor Balaguer. – Si era convenuto 750000 pesos, ma soltanto 275000 in contanti. Il mezzo milione rimanente avrebbe dovuto essere consegnato in quote annuali di centomila pesos, per cinque anni consecutivi. Tuttavia, lo ricordo molto bene, ero ministro degli Esteri ad interim in quel momento, con don Anselmo Paulino che mi assisteva nella trattativa, imponemmo una clausola secondo cui i versamenti erano subordinati alla presentazione, di fronte a un tribunale internazionale, dei certificati di morte, durante le prime due settimane dell’ottobre 1937, delle 2750 vittime riconosciute. Haití non tenne mai fede a questo impegno. Perciò, la Repubblica Dominicana si trovò a essere esonerata dal pagare la somma restante. Gli indennizzi ammontarono soltanto alla cifra iniziale. Il pagamento lo eseguí Sua Eccellenza, dal suo patrimonio, e quindi tutto quello non costò un centesimo allo Stato dominicano.

– Una piccola cifra per mettere a tacere un problema che avrebbe potuto farci scomparire, – concluse Trujillo, adesso serio. – È vero, morirono degli innocenti. Ma noi dominicani riacquistammo la nostra sovranità. Da allora, le nostre relazioni con Haití sono eccellenti, grazie a Dio.

Si asciugò le labbra e bevve un sorso d’acqua. Avevano cominciato a servire il caffè e a offrire i liquori. Lui non prendeva caffè e non beveva mai alcol a pranzo, tranne che a San Cristóbal, nella sua finca Hacienda Fundación o nella Casa de Caoba, insieme agli intimi. Mescolata alle immagini che la memoria gli restituiva di quelle settimane sanguinose dell’ottobre 1937, quando al suo ufficio arrivavano le notizie degli orrendi contorni che aveva assunto, alla frontiera, in tutto il paese, la caccia agli haitiani, tornò a infiltrarsi di contrabbando l’immagine odiosa, sorpresa e sbigottita, di quella ragazza che osservava la sua umiliazione. Si sentí oppresso.

– Dov’è il senatore Agustín Cabral, il famoso Cerebrito? – Simon Gittleman indicò il Costituzionalista Sbronzo: – Vedo il senatore Chirinos e non il suo inseparabile partner. Che n’è stato di lui?

Il silenzio durò molti secondi. I commensali portavano alle labbra la tazzina di caffè, bevevano un sorso e guardavano la tovaglia, gli addobbi floreali, la cristalleria, il lampadario.

– Ormai non è piú senatore e non mette piede in questo Palacio, – sentenziò il Generalissimo, con la lentezza delle sue collere fredde. – È vivo, ma per quanto riguarda questo regime, ha smesso di esistere.

L’ex marine, a disagio, vuotò la coppa di cognac. Doveva essere vicino agli ottanta, calcolò il Generalissimo. Magnificamente portati: con i radi capelli tagliati a zero, si teneva dritto e snello, senza un filo di grasso né di pelli raggrinzite sul collo, energico nei gesti e nei movimenti. La ragnatela di minuscole rughe che avvolgeva le palpebre e si prolungava sulla faccia abbronzata svelava la sua lunga vita. Fece una smorfia, cercando di cambiare argomento.

– Che cosa ha provato Sua Eccellenza nel dare l’ordine di eliminare quelle migliaia di haitiani illegali?

– Domanda al tuo ex Presidente Truman che cosa provò nel dare l’ordine di sganciare la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki. Cosí saprai che cosa ho provato quella sera, a Dajabón.

Tutti accolsero con entusiasmo la battuta del Generalissimo. La tensione suscitata dall’ex marine nel nominare Agustín Cabral si dissolse. A quel punto, fu Trujillo a cambiare argomento di conversazione:

– Un mese fa, gli Stati Uniti hanno subíto una sconfitta alla Baia dei Porci. Il comunista Fidel Castro ha catturato centinaia di membri della spedizione. Quali conseguenze avrà tutto questo nel Caribe, Simon?

– Quella spedizione di patrioti cubani è stata tradita dal Presidente Kennedy, – sussurrò, incupito. – Sono stati mandati allo sbaraglio. La Casa Bianca vietò di dare loro la copertura aerea e l’appoggio dell’artiglieria che erano stati promessi. I comunisti hanno fatto il tiro al bersaglio con loro. Ma mi permetta, Eccellenza. Mi sono rallegrato che sia successo. Servirà da lezione a Kennedy, il cui governo è infiltrato di fellow travellers. Come si dice nella sua lingua? Sí, compagni di viaggio. Può darsi che decida di liberarsene. La Casa Bianca non vorrà certo un altro fallimento come quello della Baia dei Porci. Questo allontana il pericolo che mandi i marines nella Repubblica Dominicana.

Nel dire queste ultime parole, l’ex marine si emozionò e fece uno sforzo evidente per conservare il suo portamento. Trujillo si sorprese: era forse stato sul punto di piangere, il suo vecchio istruttore di Haina, di fronte all’idea di uno sbarco dei suoi compagni d’armi per rovesciare il regime dominicano?

– Scusi la mia debolezza, Eccellenza, – mormorò Simon Gittleman, ricomponendosi. – Lei sa che io amo questo paese come se fosse il mio.

– Questo paese è il tuo, Simon, – disse Trujillo.

– Il fatto che per influenza di gente di sinistra Washington possa mandare i marines a combattere l’uomo di governo piú amico degli Stati Uniti, mi sembra diabolico. Per questo spendo il mio tempo e il mio denaro cercando di aprire gli occhi ai miei compatrioti. Per questo siamo venuti, Dorothy e io, a Ciudad Trujillo, per combattere a fianco dei dominicani, se sbarcano i marines.

Una salva di applausi che fece tintinnare piatti, bicchieri e posate salutò la tirata del marine. Dorothy sorrideva, annuendo, d’accordo con il marito.

– La sua voce, mister Simon Gittleman, è la vera voce dell’America del Nord, – si esaltò il Costituzionalista Sbronzo, emettendo una raffica di saliva. – Un brindisi per questo amico, per questo uomo d’onore. Per Simon Gittleman, signori!

– Un momento, – la vocina flautata di Trujillo lacerò in mille pezzi l’ambiente infervorato. I commensali lo guardarono, sconcertati, e Chirinos rimase con il bicchiere sollevato. – Per i nostri amici e fratelli Dorothy e Simon Gittleman!

Sorpresa, la coppia ringraziava i presenti con sorrisi e inchini della testa.

– Kennedy non ci manderà i marines, Simon, – disse il Generalissimo, quando si spense l’eco del brindisi. – Non credo che sia tanto idiota. Ma, se lo farà, gli Stati Uniti subiranno la seconda Baia dei Porci. Abbiamo Forze Armate piú moderne di quelle del barbudo. E qui, insieme a me, combatterà fino all’ultimo dominicano.

Chiuse gli occhi, domandandosi se la memoria gli avrebbe consentito di ricordare con esattezza quella citazione. Sí, l’aveva ricordata, completa, giunta a lui da quella commemorazione, il venticinquesimo anniversario della sua prima elezione. La pronunciò, ascoltato in riverente silenzio:

– «Quali che possano essere le sorprese che l’avvenire ci riserverà, possiamo essere certi che il mondo potrà vedere Trujillo morto, ma non profugo come Batista, né fuggiasco come Pérez Jimémez, né seduto alla barra di un tribunale come Rojas Pinilla. Lo statista dominicano è di altra morale e di altra stirpe».

Aprí gli occhi e percorse con uno sguardo compiaciuto la teoria degli invitati, che, dopo aver ascoltato la citazione assorti, facevano gesti di approvazione.

– Chi ha scritto la frase che ho appena citato? – domandò il Benefattore.

Si scrutarono gli uni con gli altri, cercarono, con curiosità, con diffidenza, con allarme. Finalmente, gli sguardi conversero sul volto amabile, tondo, reso imbarazzato dalla modestia, del minuscolo poligrafo su cui, dopo che Trujillo aveva fatto rinunciare il fratello Negro nella vana speranza di evitare le sanzioni dell’Osa, era ricaduta la prima carica della Repubblica.

– Mi meraviglia la memoria di Sua Eccellenza, – bisbigliò Joaquín Balaguer, facendo mostra di una umiltà eccessiva, come schiacciato dall’onore che gli veniva fatto. – Mi riempie di orgoglio sentire che lei ricordi quel mio modesto discorso del 3 agosto passato.

Da dietro le ciglia socchiuse, il Generalissimo osservò come si disfacevano per l’invidia le facce di Virgilio Álvarez Pina, dell’Inmundicia Viviente, di Paíno Pichardo e dei generali. Soffrivano. Pensavano che il prolisso, il discreto poeta, il deliquescente professore e giurista aveva appena guadagnato dei punti a loro danno nell’eterna competizione in cui vivevano per i favori del Capo, per essere riconosciuti, citati, scelti, distinti rispetto agli altri. Provò tenerezza per quei diligenti rampolli, che faceva vivere da trent’anni in perpetua insicurezza.

– Non è una semplice frase, Simon, – affermò. – Trujillo non è uno di quegli uomini di governo che lasciano il potere quando fischiano le pallottole. Io ho imparato che cos’è l’onore al tuo fianco, tra i marines. Lí ho capito che si è uomini d’onore in ogni momento. Che gli uomini che hanno l’onore non scappano. Combattono e, se bisogna morire, muoiono combattendo. Né Kennedy, né l’Osa, né quel negro schifoso ed effeminato di Betancourt, né il comunista Fidel Castro faranno scappare Trujillo via dal paese che gli deve tutto quello che è.

Il Costituzionalista Sbronzo cominciò ad applaudire, ma, quando molte mani si stavano alzando per imitarlo, lo sguardo di Trujillo interruppe seccamente l’applauso.

– Sai qual è la differenza tra quei vigliacchi e me, Simon? – proseguí, guardando negli occhi il suo vecchio istruttore. – Che io ho avuto la mia formazione nella fanteria di marina degli Stati Uniti d’America. Non l’ho mai dimenticato. Me lo hai insegnato tu, a Haina e a San Pedro de Macorís. Te lo ricordi? Noi di quella prima leva della Polizia Nazionale Dominicana siamo d’acciaio. Quelli che ce l’avevano con noi dicevano che Pnd significava «pobres negritos dominicanos». La verità è che quella leva ha cambiato questo paese, lo ha creato. A me non sorprende quello che tu stai facendo per questa terra. Perché sei un vero marine, come me. Un uomo leale. Che muore senza abbassare la testa, guardando il cielo, come i cavalli arabi. Simon, nonostante si comporti cosí male, io non serbo alcun rancore al tuo paese. Perché ai marines devo quello che sono.

– Un giorno gli Stati Uniti si pentiranno di essere stati ingrati con il loro socio e amico del Caribe.

Trujillo bevve qualche sorso d’acqua. Riprendevano le conversazioni. I camerieri servivano di nuovo tazze di caffè, cognac e altri liquori, sigari. Il Generalissimo riprese ad ascoltare Simon Gittleman:

– Come finirà questo pasticcio con il vescovo Reilly, Eccellenza?

Fece un gesto sdegnoso:

– Non c’è nessun pasticcio, Simon. Quel vescovo si è messo dalla parte dei nostri nemici. Quando il popolo ha mostrato la propria indignazione, si è spaventato ed è corso a nascondersi tra le suore del Colegio Santo Domingo. Quello che sta facendo in mezzo a tante donne, è cosa sua. Abbiamo disposto una scorta per evitare che lo lincino.

– Sarebbe bene che questa storia si risolvesse presto, – insistette l’ex marine. – Negli Stati Uniti, molti cattolici male informati prendono per buone le dichiarazioni di monsignor Reilly. Che è minacciato, che ha dovuto cercare rifugio a causa della campagna di intimidazione e cose del genere.

– Non ha importanza, Simon. Tutto si sistemerà e le nostre relazioni con la Chiesa torneranno a essere magnifiche. Non dimenticare che il mio governo è sempre stato pieno di cattolici a tutta prova e che Pio XII mi ha decorato con la Gran Croce dell’Ordine Papale di San Gregorio, – e, in maniera improvvisa, cambiò argomento: – Petán vi ha portati a visitare La Voz Dominicana?

– Naturalmente, – rispose Simon Gittleman; Dorothy annuiva, con un ampio sorriso.

Quell’affare di suo fratello, il generale José Arismendi Trujillo, Petán, era cominciato vent’anni prima con una piccola stazione radio. La Voz de Yuna era cresciuta fino a trasformarsi in un complesso formidabile, La Voz Dominicana, la prima televisione, la piú grande stazione radio, il miglior cabaret e teatro di rivista dell’isola (Petán insisteva a dire che era il primo di tutto il Caribe, ma il Generalissimo sapeva che non era riuscito a spodestare il Tropicana de La Habana). I Gittleman erano rimasti impressionati dai magnifici impianti; lo stesso Petán li aveva guidati nella visita al locale, e li aveva fatti assistere alla prova del balletto messicano che sarebbe stato presentato la sera nel cabaret. Non era una cattiva persona, in fondo, Petán; quando ne aveva avuto bisogno, aveva sempre potuto contare su di lui e sul suo pittoresco esercito privato, «los cocuyos de la cordillera». Ma, allo stesso modo degli altri suoi fratelli, gli aveva causato piú danni che vantaggi, da quando, per colpa sua, per colpa di quella stupida lite, dovette intervenire e, per far rispettare il principio di autorità, farla finita con quel gigante magnifico – suo compagno alla Scuola Ufficiali di Haina, oltretutto –, il generale Vázquez Rivera. Uno dei migliori ufficiali – un marine, cazzo –, un servitore sempre leale. Ma la famiglia, sebbene fosse una famiglia di parassiti, fannulloni, balordi e poveri diavoli, veniva prima dell’amicizia e dell’interesse politico: era un comandamento sacro, nel suo catalogo dell’onore. Senza seguire la linea del suo ragionamento, il Generalissimo ascoltava Simon Gittleman, che raccontava com’era rimasto sorpreso nel vedere le foto delle celebrità del cinema, del varietà e della radio di tutta l’America che erano state a La Voz Dominicana. Petán le teneva esposte alle pareti del suo studio: Los Panchos, Libertad Lamarque, Pedro Vargas, Yma Sumac, Pedro Infante, Celia Cruz, Toña La Negra, Olga Guillot, María Luisa Landín, Boby Capó, Tintán e Marcelo. Trujillo sorrise: quello che Simon non sapeva era che Petán, oltre a rallegrare la notte dominicana con le artiste che faceva venire lí, se le voleva anche scopare, come si scopava tutte le ragazze nubili o sposate, nel suo piccolo impero di Bonao. Là, il Generalissimo lo lasciava fare, purché non oltrepassasse i limiti a Ciudad Trujillo. Ma quell’uccello pazzo a volte si dava da fare anche nella capitale, convinto che le artiste ingaggiate da La Voz Dominicana fossero obbligate ad andare a letto con lui, se ne aveva voglia. Ci riuscí alcune volte; altre, venne fuori lo scandalo, e lui – sempre lui – aveva dovuto spegnere l’incendio, facendo regali milionari alle artiste offese da quell’imbecille prepotente, che non sapeva come ci si comporta con le signore, di Petán. Yma Sumac, per esempio, principessa inca ma con passaporto nordamericano. La sfacciataggine di Petán costrinse a intervenire addirittura l’ambasciatore degli Stati Uniti. E il Benefattore, trasudando fiele, riparò alle offese arrecate alla principessa inca, obbligando il fratello a presentarle le sue scuse. Il Benefattore sospirò. Con tutto il tempo che aveva perso a riempire i buchi che apriva lungo la strada l’orda dei suoi parenti avrebbe potuto costruire un secondo paese.

Sí, tra tutte le bestialità commesse da Petán, quella che non gli avrebbe mai perdonato era stata quella stupida lite con il capo di Stato Maggiore dell’Esercito. Il gigante Vázquez Rivera era buon amico di Trujillo da quando avevano seguito insieme il corso di addestramento a Haina; aveva una forza eccezionale e la coltivava praticando tutti gli sport. Fu uno dei militari che contribuirono a far diventare realtà il sogno di Trujillo: trasformare l’Esercito, nato da quella piccola Polizia Nazionale, in un corpo professionale, disciplinato ed efficiente, né piú né meno, in formato ridotto, di quello nordamericano. E, proprio allora, la stupida lite. Petán aveva il grado di maggiore e prestava servizio al comando dello Stato Maggiore dell’Esercito. Ubriaco, non obbedí a un ordine e quando il generale Vázquez Rivera lo riprese, reagí in maniera insolente. Il gigante, allora, dopo essersi tolto i galloni, gli indicò il cortile e gli propose di risolvere la faccenda a pugni, dimenticando i gradi. Prese un sacco di botte, le piú feroci che Petán ricevette in tutta la sua vita, con cui scontò quelle che aveva dato a tanti poveri diavoli. Dolente, ma convinto che l’onore della famiglia lo obbligasse ad agire cosí, Trujillo depose il suo amico e lo mandò in Europa con una missione simbolica. Un anno dopo, il Servicio de Inteligencia lo informò dei piani sovversivi: il generale ferito nell’orgoglio visitava guarnigioni, faceva riunioni con suoi ex sottoposti, nascondeva armi nella sua piccola tenuta del Cibao. Lo fece arrestare, rinchiudere nella prigione militare alla foce del fiume Nigua e, qualche tempo dopo, condannare a morte in segreto, da un tribunale militare. Per trascinarlo sul patibolo, il capo della fortezza si serví di dodici delinquenti che si trovavano lí a scontare pene per delitti comuni. Affinché non rimanessero testimoni di quella titanica fine del generale Vázquez Rivera, Trujillo ordinò che i dodici detenuti venissero fucilati. Nonostante il tempo passato, a volte lo prendeva, come adesso, una certa nostalgia per quel compagno degli anni eroici, che aveva dovuto sacrificare per la stupidità di Petán.

Simon Gittleman stava spiegando che i comitati da lui messi in piedi negli Stati Uniti avevano cominciato una raccolta di fondi per una grande operazione: nello stesso giorno sarebbero stati pubblicati, come avviso a pagamento, a piena pagina, sul «New York Times», «Washington Post», «Time», «Los Angeles Times» e tutte le pubblicazioni che attaccavano Trujillo e appoggiavano le sanzioni dell’Osa, una protesta e un appello a favore della riapertura delle relazioni con il regime dominicano.

Perché Simon Gittleman aveva chiesto di Agustín Cabral? Aveva dovuto sforzarsi per trattenere l’irritazione impadronitasi di lui non appena si era ricordato di Cerebrito. Non poteva essere stato mosso da un’intenzione malevola. Se c’era qualcuno che ammirava e rispettava Trujillo era l’ex marine, impegnato anima e corpo a difendere il suo regime. Doveva aver fatto quel nome per associazione d’idee, avendo visto il Costituzionalista Sbronzo ed essendosi ricordato che Chirinos e Cabral erano – per chi non fosse stato addentro alle cose del regime – compagni inseparabili. Sí, lo erano stati. Trujillo aveva spesso affidato loro delle missioni congiunte. Come nel 1937, quando, nominatili direttore generale ai Servizi Statistici e direttore generale all’Emigrazione, li aveva mandati a osservare la frontiera con Haití, affinché lo tenessero informato sulle infiltrazioni di haitiani. Ma l’amicizia di quel duo era stata sempre relativa: terminava non appena erano in gioco la considerazione o le lusinghe del Capo. Trujillo si divertiva – un gioco sottile e segreto che si poteva permettere – a cogliere le velate manovre, le stoccate nascoste, gli intrighi machiavellici che tramavano l’uno ai danni dell’altro, l’Inmundicia Viviente e Cerebrito – ma, anche, Virgilio Álvarez Pina e Paíno Pichardo, Joaquín Balaguer e Fello Bonnelly, Modesto Díaz e Vicente Tolentino Rojas, e tutti quelli del gruppo degli intimi –, per mettere da parte il compagno, portarsi avanti, farsi piú vicini e meritare maggiore attenzione, considerazione e battute amichevoli da parte del Capo. «Come le donne dell’harem per diventare la favorita», pensò. E lui, per tenerli sempre sul chi vive, e impedire la consunzione, la routine, l’anomia spostava alternativamente dall’uno all’altro, nella graduatoria, la caduta in disgrazia. Era quello che aveva fatto con Cabral; allontanarlo, fargli prendere coscienza di come tutto quello che era, valeva e aveva lo doveva a Trujillo, che senza il Benefattore non era nessuno. Una prova attraverso cui aveva fatto passare tutti i suoi collaboratori, stretti o meno che fossero. Cerebrito l’aveva presa male, disperandosi, come una donna innamorata respinta dal suo uomo. Per aver voluto riportare le cose a posto prima del dovuto, stava commettendo un grave errore. Avrebbe dovuto ingoiare molta merda prima di tornare a esistere.

Forse Cabral, sapendo che Trujillo avrebbe concesso una decorazione all’ex marine, gli aveva chiesto di intercedere per lui? Era questa la ragione per cui l’ex marine aveva pronunciato in modo del tutto inopportuno il nome di un personaggio di cui ogni dominicano lettore de El Foro Público sapeva che aveva perso il favore del regime? Be’, forse Simon Gittleman non leggeva «El Caribe».

Gli si gelò il sangue nelle vene: stava perdendo orina. Lo sentí, gli sembrò di vedere il liquido giallo riversarsi dalla sua vescica senza chiedere permesso a quella valvola ormai fuori uso, a quella prostata morta, incapace di contenerlo, verso la sua uretra, correndo allegramente attraverso di essa e uscendo in cerca di aria e di luce, attraverso le mutande, la patta e il cavallo dei pantaloni. Provò un senso di vertigine. Chiuse gli occhi per qualche secondo, travolto dall’indignazione e dall’impotenza. Purtroppo, anziché Virgilio Álvarez Pina, aveva alla sua destra Dorothy Gittleman, e alla sinistra Simon, che non potevano aiutarlo. Virgilio, sí. Era presidente del Partido Dominicano ma, in realtà, la sua funzione davvero importante era, da quando il dottor Puigvert, fatto venire in segreto da Barcelona, aveva diagnosticato la maledetta infezione alla prostata, agire in fretta quando si verificavano quegli episodi di incontinenza, rovesciando un bicchiere d’acqua o una coppa di vino sul Benefattore e chiedendo poi mille volte scusa per la sua goffaggine, o, se succedeva su un podio o durante una passeggiata, ponendosi come un paravento davanti ai pantaloni macchiati. Ma quegli imbecilli del protocollo avevano fatto sedere Virgilio Álvarez quattro sedie piú in là. Nessuno poteva aiutarlo. Avrebbe conosciuto l’orrenda umiliazione, alzandosi in piedi, che Gittleman e alcuni invitati si sarebbero resi conto che si era pisciato nei pantaloni senza accorgersene, come un vecchio. La collera gli impediva di muoversi, di far finta che volendo bere si versasse addosso il bicchiere o la brocca che aveva davanti.

Molto lentamente, guardandosi attorno con aria distratta, cominciò a spostare la mano destra verso il bicchiere pieno d’acqua. Lentissimamente, lo spostò verso di sé, fino a portarlo proprio sul bordo della tavola, in modo che il minimo movimento lo avrebbe fatto cadere. Ricordò, a un tratto, che la prima figlia avuta da Aminta Ledesma, la sua prima moglie, Flor de Oro, quella piccola pazza con il corpo da femmina e l’animo da maschio che cambiava di marito come si cambia di scarpe, aveva continuato a orinare nel letto fino a quando aveva l’età di andare a scuola. Trovò il coraggio di scrutare ancora una volta i pantaloni. Anziché il vergognoso spettacolo, la macchia che si aspettava di trovare, verificò – la sua vista era ancora formidabile, come la sua memoria – che la patta e il cavallo erano asciutti. Asciuttissimi. Era stata una falsa impressione, causata dal timore, dal panico di «rompere le acque», come si dice delle partorienti. Fu assalito dalla felicità, dall’ottimismo. Il giorno, cominciato con malumori e cattivi presagi, aveva finito per diventare bello, come il paesaggio della costa dopo l’acquazzone, quando tornava a splendere il sole.

Si alzò e, come soldati comandati alla voce, tutti lo imitarono. Mentre si chinava per aiutare Dorothy Gittleman ad alzarsi, decise, con tutta la forza della sua anima: «Stanotte, nella Casa de Caoba, farò urlare una bella femmina, come vent’anni fa». Gli sembrò che i testicoli entrassero in ebollizione e che la verga cominciasse a rizzarsi.