– Davvero non vuoi ancora un po’ di arepa1? – insiste affettuosa zia Adelina. – Coraggio. Da bambina, tutte le volte che venivi qui, mi chiedevi l’arepa. Non ti piace piú?
– Certo che mi piace, zia, – protesta Urania. – Ma non ho mai mangiato tanto in vita mia, non riuscirò a chiudere occhio.
– Be’, la lasciamo qui, magari ne avrai voglia tra un po’, – si rassegna zia Adelina.
La sicurezza della sua voce e la lucidità della sua mente contrastano con il disastro cui è ridotta: curva, quasi calva – tra le ciocche bianche si scorgono pezzi di cuoio capelluto –, la faccia contratta in mille rughe, una dentiera che si muove quando mangia o parla. È uno scampolo di donna, smarrita nella sedia a dondolo su cui l’hanno sistemata Lucinda, Manolita, Marianita e la domestica haitiana dopo averla portata giú di peso dal piano di sopra. La zia ha insistito per cenare in sala da pranzo con la figlia di suo fratello Agustín, riapparsa all’improvviso dopo tanti anni. È piú o meno anziana del padre? Urania non lo ricorda. Parla con energia e nei suoi piccoli occhi affossati vi sono lampi d’intelligenza. «Non l’avrei certo riconosciuta», pensa Urania. Neppure Lucinda, e tanto meno Manolita, che ha visto l’ultima volta quando doveva avere undici o dodici anni, e adesso è una possente signora invecchiata, con le rughe sul viso e sul collo, e i capelli tinti di un nero azzurrino abbastanza volgare. Marianita, sua figlia, deve avere sui vent’anni: magra, molto pallida, i capelli tagliati quasi a zero e degli occhietti tristi. Non smette di osservare Urania, come stregata. Che cosa avrà sentito dire di lei sua nipote?
– Non mi sembra vero che sia proprio tu, che tu sia qui, – zia Adelina la fissa con i suoi occhi penetranti. – Non avrei mai immaginato di rivederti.
– Eppure lo vedi, sono qui. Che gioia mi dà.
– Anche a me, cara. E ancora piú grande sarà stata la gioia di Agustín. Mio fratello era rassegnato all’idea di non vederti mai piú.
– Non so, zia, – Urania prepara le proprie difese, intuisce l’arrivo di rimproveri, di domande indiscrete. – Sono stata tutto il giorno con lui e in nessun momento mi è sembrato che mi avesse riconosciuta.
Le due cugine reagiscono all’unisono:
– Certo che ti ha riconosciuta, Uranita, – afferma Lucinda.
– Siccome non può parlare, non si vede, – l’appoggia Manolita. – Ma capisce tutto, la sua testa è sanissima.
– Continua a essere un Cerebrito, – ride zia Adelina.
– Lo sappiamo perché lo vediamo tutti i giorni, – ribadisce Lucinda. – Ti ha riconosciuta e lo hai fatto felice con la tua visita.
– Speriamo, cara cugina.
Un silenzio che si prolunga, sguardi che si incrociano al di sopra del vecchio tavolo di quella sala da pranzo angusta, con una credenza a vetri che Urania riconosce vagamente, e quadretti religiosi alle pareti di un verde stinto. Neppure qui sente qualcosa di famigliare. Nella sua memoria, la casa degli zii Adelina e Aníbal, dove andava a giocare con Manolita e Lucinda, era grande, luminosa, elegante e ariosa, e questa è una grotta zeppa di mobili deprimenti.
– La frattura dell’anca mi ha separata da Agustín per sempre, – agita il pugno minuscolo, dalle dita deformate dalla sclerosi. – Prima, passavo ore con lui. Facevamo lunghe chiacchierate. Io non avevo bisogno che parlasse per capire quello che mi voleva dire. Povero fratello mio! Me lo sarei portato qui con me. Ma dove, in questa topaia?
Parla con rabbia.
– La morte di Trujillo è stata il principio della fine per la famiglia, – sospira Lucindita. Ma subito si allarma. – Scusa, cugina mia. Tu odi Trujillo, non è vero?
– È cominciata prima, – la corregge zia Adelina e Urania prova subito interesse per quello che dice.
– Quando, nonna? – domanda, con un filo di voce, la figlia maggiore di Lucinda.
– Con quella lettera a El Foro Público, diversi mesi prima che uccidessero Trujillo, – afferma zia Adelina; i suoi occhietti trafiggono il vuoto. – Verso gennaio o febbraio del 61. Siamo stati noi a dare la notizia a tuo padre, la mattina presto. Aníbal era stato il primo a leggerla.
– Una lettera a El Foro Público? – Urania cerca, cerca nei propri ricordi. – Ah, sí.
– Immagino che non sia niente di importante, una sciocchezza che si chiarirà, – disse suo cognato al telefono, era cosí alterato, cosí irruente, suonava cosí falso che il senatore Agustín Cabral si sorprese: che cosa stava succedendo a Ánibal? – Non hai letto «El Caribe»?
– Me l’hanno appena portato, non l’ho ancora aperto.
Sentí una tosse nervosa.
– Insomma, lí c’è una lettera, Cerebrito, – cercò di essere scherzoso e tranquillo, il cognato. – Esagerazioni. Chiarisci tutto al piú presto.
– Grazie di avermi chiamato, – si congedò il senatore Cabral. – Baci a Adelina e alle bambine. Passerò a trovarvi.
Trent’anni al vertice del potere politico avevano fatto di Agustín Cabral un uomo esperto in faccende imponderabili – inganni, imboscate, sotterfugi, tradimenti –, cosicché sapere che c’era una lettera contro di lui ne El Foro Público, la rubrica piú letta e temuta de «El Caribe» in quanto era alimentata dal Palacio Nacional ed era il barometro politico del paese, non gli fece saltare i nervi. Era la prima volta che appariva nella colonna dell’inferno; altri ministri, senatori, gobernadores o funzionari erano stati scottati da quelle fiamme; lui, fino ad allora, mai. Tornò in sala da pranzo. La figlia, in divisa, faceva colazione: mangú – banana pestata con il burro – e formaggio fritto. La baciò sui capelli («Ciao, papino»), si sedette di fronte a lei e, mentre la domestica gli versava il caffè, aprí lentamente, senza disorientamenti, il giornale ripiegato su un angolo della tavola. Girò diverse pagine, fino a quando arrivò a El Foro Público.
Signor Direttore:
Scrivo spinto da impulso civico, per denunciare l’oltraggio perpetrato ai danni della cittadinanza dominicana e della libertà d’espressione senza restrizioni che il governo del Generalissimo Trujillo garantisce a questa Repubblica. Mi riferisco a non essere stato reso di pubblico dominio fino a questo momento nelle sue rispettabili e lette pagine, il fatto, risaputo da tutti, che il senatore Agustín Cabral, detto «Cerebrito» (in virtú di che cosa?) è stato destituito dalla Presidenza del Senato essendo stata riscontrata una scorretta gestione del Ministero delle Opere Pubbliche, da lui occupato fino a poco tempo fa. È altresí risaputo che, scrupoloso com’è questo regime in materia di correttezza e di uso dei fondi pubblici, una commissione d’indagine sugli apparenti intrighi e imbrogli – commissioni illegali, acquisto di materiali obsoleti con sopravvalutazione dei prezzi, fittizia levitazione dei preventivi, in cui sarebbe incorso il senatore nell’esercizio del suo ministero – è stata nominata per esaminare le accuse contro di lui.
Forse che il popolo trujillista non avrebbe il diritto di essere informato su fatti cosí gravi?
I miei rispetti,
Ingegner Telésforo Hidalgo Saíno
Calle Duarte N. 171
Ciudad Trujillo
– Devo andare via di corsa, papino, – il senatore Cabral sentí e, senza che il minimo gesto potesse far dubitare della sua calma apparente, allontanò la faccia dalla lettura del giornale per baciare la bambina. – Non posso tornare con il pullman della scuola perché mi fermo a giocare a pallavolo. Tornerò a casa a piedi, con le amiche.
– Attenzione ad attraversare la strada, Uranita.
Bevve la spremuta d’arancio e prese una tazza di caffè fumante appena fatto, senza affrettarsi, ma non assaggiò neppure il mangú, né il formaggio fritto né il pane tostato con il miele. Rilesse parola per parola, carattere per carattere, la lettera a El Foro Público. Senza dubbio era stata elaborata dal Costituzionalista Sbronzo, scrivano prediletto di insidie, ma ordinata dal Capo; nessuno avrebbe osato scrivere, e tanto meno pubblicare, una lettera simile senza il permesso di Trujillo. Quando lo aveva visto per l’ultima volta? L’altroieri, durante la passeggiata. Non era stato chiamato a camminare accanto a lui, il Capo aveva parlato per tutto il tempo con il generale Román e con il generale Espaillat, ma lo aveva salutato con la solita deferenza. O no? Aguzzò la memoria. Aveva colto una qualche durezza in quello sguardo fisso, che intimoriva e sembrava lacerare le apparenze per arrivare all’anima di chi scrutava? Una qualche secchezza nella risposta al suo saluto? Un accigliarsi dell’espressione?
La cuoca gli domandò se sarebbe venuto a pranzare a casa. No, soltanto a cenare, e annuí quando Aleli gli propose il menu per la cena. Sentendo l’automobile della Presidenza del Senato arrivare alla porta, guardò l’orologio: le otto in punto. Grazie a Trujillo, aveva scoperto che il tempo è oro. Come tanti, da giovane aveva fatto proprie le ossessioni del Capo: ordine, precisione, disciplina, perfezione. Il senatore Agustín Cabral lo aveva detto in un discorso: «Grazie a Sua Eccellenza, il Benefattore, noi dominicani abbiamo scoperto le meraviglie della puntualità». Mentre s’infilava la giacca andava verso la porta: «Se mi avessero destituito, la macchina della Presidenza del Senato non sarebbe venuta a prendermi». Il suo assistente, il tenente d’aviazione Humberto Arenal, che non gli aveva mai nascosto i suoi legami con il Sim, gli aprí la portiera. L’auto ufficiale, con Teodosio al volante. L’assistente. Non c’era motivo di preoccuparsi.
– Non ha mai saputo perché è finito in disgrazia? – si meraviglia Urania.
– Mai con certezza, – chiarisce zia Adelina. – Ci sono state molte supposizioni, niente di piú. Anno dopo anno Agustín ha continuato a domandarsi che cosa avesse potuto fare perché Trujillo si arrabbiasse in quel modo, dalla sera alla mattina. Perché un uomo che lo aveva servito per tutta la vita finisse per trasformarsi in un appestato.
Urania osserva l’incredulità con cui Marianita le sta a sentire.
– Ti sembrano cose di un altro pianeta, no, nipotina?
La ragazza arrossisce.
– È che mi sembra proprio impossibile, zia. Come nel film di Orson Welles, Il processo, che hanno dato al Cine Club. Anthony Perkins viene giudicato e giustiziato senza che lui riesca a scoprire il perché.
Manolita si fa vento con le mani da un po’; s’interrompe per intervenire:
– Dicevano che era caduto in disgrazia perché avevano fatto credere a Trujillo che, per colpa dello zio Agustín, i vescovi avevano rifiutato di proclamarlo Benefattore della Chiesa cattolica.
– Hanno detto migliaia di cose, – esclama zia Adelina. – È stata la cosa peggiore del suo calvario, i dubbi. La famiglia ha cominciato a colare a picco e nessuno sapeva di che cosa accusavano Agustín, che cosa avesse fatto o avesse smesso di fare.
Non c’era nessun senatore nel palazzo del Senato, quando Agustín Cabral entrò alle otto e quindici, come tutte le mattine. La guardia gli fece il saluto che gli spettava e gli uscieri e gli impiegati che incrociò nei corridoi lungo il percorso fino al suo studio gli diedero il buongiorno con l’affabilità di sempre. Ma i suoi due segretari, Isabelita e il giovane avvocato Paris Goico, avevano l’inquietudine dipinta sulla faccia.
– Chi è morto? – li prese in giro. – Vi preoccupa la letterina a El Foro Público? Chiariremo quell’infamia immediatamente. Chiama il direttore de «El Caribe», Isabelita. A casa, Panchito non va al giornale prima di mezzogiorno.
Si sedette al tavolo da lavoro, diede un’occhiata alla pila di documenti, alla corrispondenza, all’agenda del giorno preparata dall’efficiente Parisito. «La lettera è stata dettata dal Capo». Un serpentello scivolò per la sua spina dorsale. Era uno di quei teatrini che divertivano il Generalissimo? Nel pieno delle tensioni con la Chiesa, del confronto con gli Stati Uniti e con l’Osa, aveva la testa per le alzate d’ingegno che era solito inventare in passato, quando si sentiva onnipotente e libero da minacce? Era il momento di quelle esibizioni da circo?
– Al telefono, don Agustín.
Sollevò la cornetta e attese alcuni secondi, prima di parlare.
– Ti ho svegliato, Panchito?
– Ma come ti viene in mente, Cerebrito, – la voce del giornalista era normale. – Io sono mattiniero, come il gallo. E dormo con un occhio aperto, non si sa mai. Che succede?
– Be’, come puoi immaginare, ti chiamo per la lettera di questa mattina, ne El Foro Público, – tossicchiò il senatore Cabral. – Puoi dirmi qualcosa?
La risposta arrivò con lo stesso tono lieve, scherzoso, come se si trattasse di una banalità.
– L’abbiamo ricevuta con tanto di raccomandazione, Cerebrito. D’altra parte non avrei certo pubblicato una cosa del genere senza fare le mie verifiche. Credimi, data la nostra amicizia, non mi ha fatto piacere pubblicarla.
«Sí, sí, certo», mormorò. Non doveva perdere il sangue freddo nemmeno per un minuto.
– Ho intenzione di rettificare quelle calunnie, – disse tranquillamente. – Non sono stato destituito da un bel niente. Ti sto chiamando dalla Presidenza del Senato. E quella presunta commissione d’indagine sulla mia gestione del Ministero delle Opere Pubbliche, è un’altra frottola.
– Mandami la tua rettifica al piú presto, – rispose Panchito. – Farò quel che posso per pubblicarla, ci mancherebbe altro. La sai la stima che ho per te. Sarò al giornale dalle quattro in poi. Baci a Uranita. Un abbraccio, Agustín.
Dopo aver riappeso, ebbe qualche dubbio. Aveva fatto bene a chiamare il direttore de «El Caribe»? Non era un movimento falso, che rivelava la sua apprensione? Non avrebbe potuto dirgli nient’altro: riceveva le lettere per El Foro Público direttamente dal Palacio Nacional e le pubblicava senza fare domande. Consultò l’orologio: le nove meno un quarto. Aveva tempo; la riunione dell’ufficio di presidenza del Senato era alle nove e mezza. Dettò a Isabelita la rettifica nel modo austero e chiaro con cui redigeva i suoi testi. Una lettera breve, secca e fulminante: continuava a essere il presidente del Senato e nessuno aveva messo in discussione la sua scrupolosa gestione del Ministero delle Opere Pubbliche che gli aveva affidato il regime presieduto da quel dominicano eponimo, Sua Eccellenza il Generalissimo Leónidas Trujillo, Benefattore e Padre della Patria Nuova.
Quando Isabelita stava andando a battere a macchina ciò che le era stato dettato, entrò nello studio Paris Goico.
– È stata sospesa la riunione dell’ufficio di presidenza del Senato, signor presidente.
Era giovane, non sapeva fingere; aveva la bocca socchiusa ed era livido.
– Senza consultarmi? Chi è stato?
– Il vicepresidente del Congresso, don Agustín. Me lo ha appena comunicato lui stesso.
Soppesò quanto aveva appena ascoltato. Poteva essere un fatto a sé, senza alcun nesso con la lettera a El Foro Público? L’angustiato Parisito aspettava, in piedi accanto alla scrivania.
– È nel suo studio il dottor Quintana? – dato che il suo assistente annuí, si alzò: – Digli che sto venendo.
– È impossibile che non ricordi, Uranita, – la ammonisce zia Adelina. – Avevi quattordici anni. Era la cosa piú grave che era successa nella tua famiglia, ancora di piú dell’incidente in cui era morta tua madre. E non ti accorgevi di nulla?
Avevano preso il caffè e una tisana. Urania assaggiò un boccone di arepa. Chiacchieravano intorno alla tavola della sala da pranzo, alla luce smorta del piccolo lume da pavimento. La domestica haitiana, silenziosa come un gatto, aveva sparecchiato.
– Ricordo l’angoscia di papà, naturalmente, zia, – spiega Urania. – Quello che mi manca sono i particolari, le cose di ogni giorno. Lui cercava di tenermi tutto nascosto, all’inizio. «Ci sono dei problemi, Uranita, ma si risolveranno». Non avevo immaginato che da quel momento la mia vita si sarebbe ribaltata.
Sente bruciare su di lei gli sguardi della zia, delle cugine e della nipote. Lucinda dice quello che pensano:
– Ma alla fine è stato un bene, per te, Uranita. Non staresti dove stai adesso, altrimenti. Invece, per tutte noi, è stato il tracollo.
– Per il mio povero fratello, soprattutto, – l’accusa sua zia Adelina. – Gli hanno dato una pugnalata e lo hanno lasciato a dissanguarsi, per piú di trent’anni.
Un pappagallo grida, al di sopra della testa di Urania, e la spaventa. Non si era accorta fino a quel momento dell’animale; ha la cresta ritta, si muove da una parte all’altra sul suo cilindro di legno, all’interno di una grande gabbia dalle sottili sbarre azzurre. La zia, le cugine e la nipote scoppiano a ridere.
– Sansón, – glielo presenta Manolita. – Si è arrabbiato perché lo abbiamo svegliato. È un dormiglione.
Grazie al pappagallo, l’atmosfera si distende.
– Sono certa che se capissi quello che dice, potrei conoscere molti segreti, – scherza Urania, indicando Sansón.
Il senatore Agustín Cabral non ha certo voglia di ridere. Risponde con un austero cenno del capo al caramelloso saluto del dottor Jeremías Quintanilla, vicepresidente del Senato, nel cui studio è appena entrato, e, senza preamboli, lo incalza:
– Perché hai sospeso la riunione dell’ufficio di presidenza del Senato? Deciderlo non è forse competenza del presidente? Esigo una spiegazione.
La faccia grossa, color cacao, del senatore Quintanilla annuisce ripetutamente, mentre le sue labbra, in uno spagnolo cadenzato, quasi musicale, si sforzano di calmarlo:
– Naturalmente, Cerebrito. Non ti arrabbiare. Tutto, tranne la morte, ha una sua ragione.
È un omaccione robusto sui sessanta, con le palpebre gonfie e la bocca attaccaticcia, imprigionato in un vestito blu e una cravatta a strisce argentate, che scintilla. Sorride con ostinazione, e Agustín Cabral lo vede togliersi gli occhiali, ammiccare, dare una veloce occhiata tutt’attorno con le sue cornee bianchissime, e, avanzando verso di lui, prenderlo sottobraccio e trascinarlo, mentre dice, molto alto:
– Sediamoci qui, staremo piú comodi.
Ma non lo conduce verso le poltrone dalle pesanti zampe di tigre del suo studio, lo guida verso un balcone dalle finestre socchiuse. Lo costringe a uscire con lui, in modo che possano parlare all’aria aperta, di fronte al rumore del mare, lontano da orecchi indiscreti. C’è un sole forte; la luminosa mattina riarde di motori, di clacson e di voci che vengono dal Malecón.
– Che cazzo sta succedendo, Mono? – mormora Cabral.
Quintana lo tiene sempre sottobraccio e adesso è molto serio. Avverte nel suo sguardo un sentimento vago, di solidarietà o di compassione.
– Lo sai fin troppo bene quello che sta succedendo, Cerebrito, non fare il fesso. Non ti sei accorto che da tre o quattro giorni hanno smesso di chiamarti «distinguido caballero» nei giornali, che ti hanno retrocesso a «señor»? – gli sussurra all’orecchio Mono Quintana. – Non l’hai letto «El Caribe» stamattina? Ecco quello che sta succedendo.
Per la prima volta, da quando aveva letto la lettera a El Foro Público, Agustín Cabral provò paura. Era vero: il giorno prima o l’altro prima ancora qualcuno aveva scherzato al Country Club sul fatto che la pagina mondana de «La Nación» lo aveva privato del «distinguido caballero», cosa che di solito equivaleva a un cattivo presagio: il Generalissimo si divertiva con quegli avvertimenti. Ma la cosa si stava rivelando seria. Era una tempesta. Doveva fare ricorso a tutta la sua esperienza e astuzia per non finire inghiottito.
– È venuto dal Palacio l’ordine di sospendere la riunione dell’ufficio di presidenza? – sussurra. Il vicepresidente, chino, avvicina l’orecchio alla bocca di Cabral.
– E se no da dove doveva venire? Ma c’è di piú. Sono state sospese tutte le commissioni di cui tu fai parte. La direttiva dice: «Fino a quando non sarà regolarizzata la posizione del presidente del Senato».
Rimane muto. Si è verificato. Si sta verificando quell’incubo che, di tanto in tanto, veniva ad aggravare le sue vittorie, i suoi avanzamenti, i suoi successi politici: lo hanno posto in cattiva luce con il Capo.
– Chi l’ha trasmessa, Mono?
La faccia paffuta di Quintana si contrae, inquieta, e Cabral capisce finalmente da dove viene il nomignolo di Mono, scimmia. Il vicepresidente gli dirà che non può commettere quella scorrettezza? Bruscamente, si decide:
– Henry Chirinos, – lo prende di nuovo sottobraccio. – Mi dispiace, Cerebrito. Non credo di poter fare molto, ma, se posso fare qualcosa, conta su di me.
– Chirinos ti ha detto di che cosa mi accusano?
– Si è limitato a trasmettermi l’ordine e a dire: «Non so niente. Sono l’umile messaggero di una decisione superiore».
– Tuo padre ha sempre sospettato che l’intrigo sia nato da Chirinos, il Costituzionalista Sbronzo, – ricorda zia Adelina.
– Quel ciccione mezzo negro e schifoso è stato uno di quelli che si sono sistemati meglio, – la interrompe Lucindita. – Era pappa e ciccia con Trujillo e poi è diventato ministro e ambasciatore di Balaguer. Lo vedi com’è questo paese, Uranita?
– Mi ricordo bene di lui, l’ho visto a Washington qualche anno fa, quando era ambasciatore, – dice Urania. – Veniva spesso a casa quando ero bambina. Sembrava intimo di papà.
– E di Aníbal e mio, – aggiunge zia Adelina. – Veniva qui con le sue moine, ci recitava i suoi versi. Citava libri di continuo, si atteggiava a persona colta. Una volta ci ha invitati al Country Club. Io non volevo credere che avesse tradito il suo compagno di tutta la vita. Insomma, la politica è questo, aprirsi la strada tra i cadaveri.
– Zio Agustín era troppo onesto, troppo buono, per questo si sono accaniti contro di lui.
Lucindita si aspetta che le dia ragione, che protesti anche lei per quell’infamia. Ma Urania non se la sente di fingere. Si limita ad ascoltarla, con aria compunta.
– Invece mio marito, che riposi in pace, si comportò da gentiluomo, diede a tuo padre tutto il suo appoggio, – zia Adelina lancia una risatina sarcastica. – Un vero don Chisciotte! Perse il posto a La Tabacalera, e non trovò mai piú lavoro.
Il pappagallo Sansón esplode di nuovo in un’alluvione di grida e rumori che sembrano insulti. «Zitto, marmotta», lo rimprovera Lucindita.
– Meno male che non abbiamo perso il buonumore, ragazze, – esclama Manolita.
– Trovami il senatore Henry Chirinos e digli che lo voglio vedere immediatamente, Isabel, – ordina il senatore Cabral, entrando nel suo ufficio. E, rivolgendosi al dottor Goico: – A quanto sembra, è il cuoco di questo imbroglio.
Si siede alla scrivania, si accinge a ripassare l’agenda della giornata, ma prende coscienza della propria situazione. Ha senso firmare lettere, risoluzioni, promemoria, note, come presidente del Senato della Repubblica? C’è da dubitare che continui a esserlo. La cosa peggiore, è dare segno di scoraggiamento di fronte ai subordinati. Fare buon viso a cattivo gioco. Prende il fascicolo e sta cominciando a rileggere il primo documento quando si accorge che Parisito è ancora lí. Le mani gli tremano:
– Signor presidente, volevo dirle, – balbetta, travolto dall’emozione. – Qualunque cosa succeda, io sto con lei. Per tutto. So quello che le devo, dottor Cabral.
– Grazie, Goico. Tu sei nuovo di questo mondo e vedrai cose ben peggiori. Non preoccuparti. Riusciremo a tenere a bada questa tempesta. E adesso, al lavoro.
– Il senatore Chirinos l’aspetta a casa sua, signor presidente, – Isabelita entra nello studio parlando. – Ha risposto lui in persona. Lo sa che cosa mi ha detto? «Le porte della mia casa sono sempre aperte per il mio grande amico, il senatore Cabral».
Quando esce dal palazzo del Congresso, la guardia fa il solito saluto militare. L’automobile nera, funeraria, è sempre lí. Ma il suo assistente, il tenente Humberto Arenal, è svanito. Teodosio, l’autista, gli apre la portiera.
– A casa del senatore Henry Chirinos.
Il guidatore annuisce, senza aprire bocca. Poi, quando ormai stanno imboccando avenida Mella, nei pressi della ciudad colonial, guardandolo nello specchietto retrovisore, lo informa:
– Da quando siamo venuti via dal Congresso, ci segue un cepillo con dei caliés, dottore.
Cabral si volta per guardare: a quindici o venti metri scorge una delle inconfondibili Volkswagen nere del Servicio de Inteligencia. Nella luminosità accecante del mattino non riesce a vedere quante teste di caliés ci sono dentro. «Adesso mi scortano quelli del Sim anziché il mio assistente». Mentre l’auto si addentra per le stradine strette, affollate di persone, di casette a uno o due piani, con le inferriate alle finestre e i basamenti di pietra, della ciudad colonial, dice a se stesso che la faccenda è ancora piú grave di quanto avesse immaginato. Se Johnny Abbes lo fa seguire, forse è stato deciso di arrestarlo. La storia di Anselmo Paulino, precisa identica. Ciò che tanto temeva. Il suo cervello è una fucina al rosso vivo. Che cosa aveva fatto? Che cosa aveva detto? Dove aveva sbagliato? Chi aveva visto di recente? Lo trattavano come un nemico del regime. Lui, lui!
L’automobile si fermò all’incrocio tra Salomé Ureña e Duarte, e Teodosio scese ad aprirgli la portiera. Il cepillo si fermò a pochi metri ma nessun calié ne scese. Fu tentato di avvicinarsi a domandare perché stessero seguendo il presidente del Senato, ma si trattenne: a che cosa sarebbe servita quella sfrontatezza con dei poveri diavoli che stavano eseguendo degli ordini?
La vecchia casa a due piani, con il piccolo balcone coloniale e le finestre con le persiane, del senatore Henry Chirinos somigliava al suo padrone; il tempo, la vecchiaia, l’incuria, l’avevano alterata, resa asimmetrica; si allargava eccessivamente a mezza altezza, come se le fosse cresciuta una pancia e stesse per scoppiare. In tempi remoti doveva essere stata una casa nobile e solida; adesso era sporca, abbandonata e sembrava sul punto di crollare. Macchie e scrostature affliggevano i muri e dal tetto pendevano ragnatele. Appena bussò gli aprirono. Salí una scala malinconica che scricchiolava, dal corrimano bisunto, e, al primo pianerottolo, il maggiordomo gli aprí una cigolante porta a vetri; riconobbe la ben fornita biblioteca, le pesanti tende di velluto, alti scaffali stracolmi di libri, il soffice tappeto scolorito, i quadri di forma ovale e i fili argentei delle ragnatele che erano messi in evidenza dalle lance di luce solare che penetravano attraverso i battenti. C’era odore di vecchio, di umori rancidi, faceva un caldo infernale. Aspettò Chirinos in piedi. Quante volte era andato lí, in tanti anni, per riunioni, accordi, trattative, cospirazioni al servizio del Capo.
– Benvenuto nella tua casa, Cerebrito. Un jerez? Dolce o secco? Ti consiglio il fino amontillado. È bello fresco.
In pigiama e avvolto in una vistosa vestaglia di panno verde, con guarnizioni di seta, che accentuava le rotondità del suo corpo, un presuntuoso fazzoletto nel taschino e delle pantofole di raso deformate dalle patate dei suoi piedi, il senatore Chirinos gli sorrideva. I pochi capelli aggrovigliati e le cispe della sua faccia tumefatta, dalle palpebre e dalle labbra violacee, con una boccaccia dalla saliva rinsecchita, rivelarono che il senatore Cabral non si era ancora lavato. Si lasciò battere la mano sulla spalla e guidare alle annose poltrone con gli schienali ricoperti da scialli di cotone, senza rispondere alle effusioni del padrone di casa.
– Ci siamo conosciuti molti anni fa, Henry. Insieme abbiamo fatto molte cose. Buone, e qualcuna cattiva. Non ci sono due persone nel regime che siano state tanto unite come te e me. Che cosa succede? Perché mi sta cadendo il mondo addosso da questa mattina?
Dovette tacere perché entrò nella stanza il maggiordomo, un vecchio mulatto orbo, brutto e trasandato quanto il padrone di casa, con una piccola brocca di cristallo in cui aveva travasato il jerez, e con due coppette. Depose tutto su un tavolinetto e si allontanò, zoppicando.
– Non lo so, – il Costituzionalista Sbronzo si batté il petto. – Non mi crederai. Penserai che io abbia tramato, suggerito, stimolato quello che ti sta succedendo. Sulla memoria di mia madre, la cosa piú sacra di questa casa, non lo so. Da quando ho saputo, ieri pomeriggio, sono rimasto di sasso. Aspetta, aspetta, brindiamo. Che questo impiccio si risolva presto, Cerebrito!
Parlava con brio e con emozione, il cuore in mano e il sentimentalismo sdolcinato dei protagonisti delle radionovelas che la Hiz importava, prima della Rivoluzione castrista, dalla Cmq de La Habana. Ma Agustín Cabral lo conosceva: era un istrione di alto livello. Poteva essere vero o falso, non c’era modo di scoprirlo. Bevve un piccolo sorso di jerez, con fastidio, non beveva mai alcol di mattina. Chirinos si lisciava le setole del naso.
– Ieri, mentre ero in riunione con il Capo, all’improvviso mi ha ordinato di dare disposizioni a Mono Quintanilla perché, come vicepresidente del Senato, annullasse tutte le riunioni fino a quando non fosse stato assegnato il posto vacante della Presidenza, – proseguí, gesticolando. – Ho pensato a un incidente, un arresto cardiaco, qualcosa del genere. «Che cosa è successo a Cerebrito, Capo?» «È quello che vorrei sapere, – mi ha risposto, con quella perentorietà che gela le ossa. – Ha smesso di essere uno dei nostri ed è passato al nemico». Non ho potuto domandare altro, il suo tono era definitivo. Mi ha mandato a eseguire quell’incarico. E questa mattina ho letto, come tutti, la lettera a El Foro Público. Te lo giuro di nuovo sulla memoria della mia santa madre: è tutto quello che so.
– L’hai scritta tu la lettera a El Foro Público?
– Io scrivo correttamente lo spagnolo, – s’indignò il Costituzionalista Sbronzo. – Quell’ignorante ha commesso tre errori di sintassi. Li ho segnati.
– Chi l’ha scritta, allora?
Le occhiaie adipose del senatore Chirinos rovesciarono su di lui uno sguardo compassionevole:
– Che cazzo importa, Cerebrito? Sei uno degli uomini intelligenti di questo paese, non atteggiarti a ingenuo con me, ti conosco da quand’eri ragazzo. La sola cosa che importa è che hai fatto arrabbiare il Capo, per qualche cosa. Parla con lui, scusati, dàgli delle spiegazioni, proponigli di riparare. Riconquista la sua fiducia.
Prese la brocca di cristallo, riempí di nuovo il suo bicchiere e bevve. Il chiasso della strada era minore che al Congresso. Grazie allo spessore dei muri coloniali o perché le strette strade del centro tenevano lontane le automobili.
– Scusarmi, Henry? Che cosa ho fatto? Forse che non dedico i miei giorni e le mie notti al Capo?
– Non dirlo a me. È lui che devi convincere. Io lo so molto bene. Non scoraggiarti. Tu lo conosci. In fondo, è un essere magnanimo. Ha la giustizia dentro di sé, nel profondo. Se non fosse diffidente, non sarebbe durato trentun anni. C’è un equivoco, un malinteso. Va chiarito. Chiedigli udienza. Lui sa ascoltare.
Parlava agitando le mani, riconfortandosi a ogni parola che veniva buttata fuori dalle sue labbra cinerine. Seduto, sembrava ancora piú obeso che in piedi: l’enorme ventre aveva dischiuso la vestaglia e batteva con flussi e riflussi ritmati. Cabral immaginò quegli intestini impegnati, per tante ore al giorno, nel laborioso compito di deglutire e decomporre i boli alimentari che ingoiava quel grugno vorace. Rimpianse di trovarsi lí. Forse che il Costituzionalista Sbronzo lo avrebbe aiutato? Se non era stato lui a ordire tutto quello, nel suo intimo lo stava celebrando come una grande vittoria contro colui che, al di sotto delle apparenze, era stato sempre un suo rivale.
– Pensando e ripensando, lambiccandomi il cervello, – aggiunse Chirinos, con aria da cospiratore, – sono giunto a immaginare che, forse, la causa potrebbe essere la delusione che ha suscitato nel Capo il rifiuto dei vescovi di proclamarlo Benefattore della Chiesa cattolica. Tu eri nella commissione che ha fallito.
– Eravamo in tre, Henry! Ne facevano parte pure Balaguer e Paíno Pichardo, come ministro dell’Interno e dei Culti. Quelle trattative si sono svolte mesi fa, poco dopo la Pastorale dei vescovi. Perché tutto sarebbe dovuto ricadere soltanto su di me?
– Non lo so, Cerebrito. Sembra una cosa tirata per i capelli, in effetti. Io nemmeno vedo una sola ragione per cui tu debba cadere in disgrazia. Sinceramente, in nome della nostra amicizia di tanti anni.
– Siamo stati piú che amici. Siamo stati insieme, dietro al Capo, in tutte le decisioni che hanno trasformato questo paese. Siamo storia viva. Ci siamo fatti lo sgambetto, ci siamo dati colpi bassi, abbiamo teso tranelli per prendere vantaggio l’uno sull’altro. Ma l’annientamento sembrava escluso. Questa è un’altra cosa. Posso finire in rovina, nel disonore, in carcere. Senza sapere perché! Se hai messo in piedi tutto questo, complimenti. Un capolavoro, Henry!
Si era alzato. Parlava con calma, in modo impersonale, quasi didattico. Chirinos si alzò a sua volta, appoggiandosi a un bracciolo della poltrona per innalzare la sua corpulenza. Erano molto vicini, quasi si toccavano. Cabral vide una cornice alla parete, tra gli scaffali di libri, in cui era stata inserita una citazione da Tagore: «Un libro aperto è un cervello che parla; chiuso, un amico che aspetta; dimenticato, un’anima che perdona; distrutto, un cuore che piange». «Volgare in tutto quello che fa, tocca, dice e sente», pensò.
– Confidenza per confidenza, – Chirinos gli avvicinò il suo viso e Agustín Cabral si sentí stordito dall’alito che accompagnava le sue parole. – Dieci anni fa, cinque anni fa, non avrei esitato a tramare qualunque cosa pur di toglierti di mezzo, Agustín. E cosí tu nei miei confronti. Compreso l’annientamento. Ma adesso? Per che cosa? Abbiamo conti in sospeso? No. Non siamo piú in concorrenza, Cerebrito, lo sai bene come lo so io. Quanto ossigeno rimane a questo moribondo? Per l’ultima volta: non ho niente a che vedere con quello che ti sta capitando. Spero e desidero che tu possa risolverlo. Stanno arrivando giorni difficili, e al regime conviene averti con sé, per resistere agli attacchi.
Il senatore Cabral annuí. Chirinos gli batteva la mano sulla spalla.
– Se andassi dai caliés che mi aspettano di sotto, e raccontassi loro quello che hai detto, che il regime sta soffocando, che è un moribondo, verresti a farmi compagnia, – mormorò, come saluto.
– Non lo farai, – rise il massiccio grugno scuro del padrone di casa. – Tu non sei come me. Tu sei un gentiluomo.
– Che n’è stato di lui? – domanda Urania. – È ancora vivo?
Zia Adelina lancia una risatina e il pappagallo Sansón, che sembrava addormentato, reagisce con un’altra salva di grida. Quando tace, Urania coglie il ritmico ciasciàs della sedia a dondolo su cui si è sistemata Manolita.
– L’erba cattiva non muore mai, – spiega sua zia. – Sempre lí nella sua stessa tana della ciudad colonial, tra Salomé Ureña e Duarte. Lucindita lo ha visto non molto tempo fa, con il bastone e le pantofole, a passeggio per il parco Independencia.
– Dei ragazzini gli correvano dietro e gli gridavano: «Il fantasma! Il fantasma!» – ride Lucinda. – Avrà piú di novant’anni, no?
È passato il tempo opportuno dei convenevoli del dopo mangiato, per salutare e andare? Urania non si è sentita a suo agio per tutta la sera. Piuttosto tesa, come se aspettasse un’aggressione. Quelle sono le sole parenti che le rimangono e si sente piú distante da loro che dalle stelle. E cominciano a infastidirla gli occhioni di Marianita inchiodati su di lei.
– Quei giorni sono stati terribili per la famiglia, – torna alla carica zia Adelina.
– Mi ricordo di papà e di zio Agustín, rinchiusi a parlare in segreto dentro questa stanza, – dice Lucindita. – E tuo padre che diceva: «Ma santo Dio, che cosa ho mai potuto fare al Capo perché mi maltratti in questo modo?»
La fa tacere un cane che abbaia con violenza nelle vicinanze; gli rispondono altri due, altri cinque. Attraverso una piccola finestra, in alto nella stanza, Urania scorge la luna: rotonda e gialla, splendida. A New York non ci sono lune cosí.
– Quello che lo amareggiava di piú era il tuo futuro, che a te potesse capitare qualcosa, – zia Adelina ha lo sguardo carico di rimproveri. – Quando gli hanno sequestrato i conti in banca ha capito che non c’era piú niente da fare.
– I conti in banca! – annuisce Urania. – È stata la prima volta che il mio papà me ne ha parlato.
Lei era appena andata a dormire e suo padre era entrato senza bussare. Si era seduto ai piedi del letto. In maniche di camicia, molto pallido, gli sembrò piú magro, piú fragile e piú vecchio. Esitava a ogni sillaba.
– Le cose vanno male, bambina mia. Devi essere pronta a tutto. Fino a questo momento, ti ho tenuta nascosta la gravità della situazione. Ma, oggi, insomma, a scuola avrai sentito qualcosa.
La bambina annuí, seria. Non si preoccupava, la sua fiducia in lui era illimitata. Come poteva succedere qualcosa di brutto a un uomo cosí importante?
– Sí, papino, che sono uscite delle lettere contro di te ne El Foro Público, che ti accusavano di delitti. Nessuno ci crederà, che stupidaggine. Tutti quanti sanno che non sei capace di fare quelle cose cattive.
Il padre l’aveva abbracciata, da sopra la coperta.
Era piú serio di quanto potesse sembrare dalle calunnie del giornale, bambina mia. Gli avevano tolto la Presidenza del Senato. Una commissione del Congresso stava verificando se vi era stata malversazione e distrazione di fondi pubblici durante la sua gestione del Ministero. Da giorni lo seguivano i cepillos del Sim; proprio in quel momento ce n’era uno alla porta di casa, con tre caliés. La settimana prima aveva ricevuto avvisi di espulsione dall’Instituto Trujilloniano, dal Country Club, dal Partido Dominicano, e quel pomeriggio, quando era andato a prendere dei soldi in banca, il colpo di grazia. L’amministratore, il suo amico Josefo Heredia, l’aveva informato che i suoi due conti correnti erano stati congelati finché fosse durata l’indagine del Congresso.
– Potrà succedere qualunque cosa, bambina. Che ci confischino questa casa, che ci buttino in mezzo alla strada. In carcere, addirittura. Non ti voglio spaventare. Ma devi essere pronta. Devi avere coraggio.
Lo stava a sentire sbalordita; non per quello che diceva, ma per il venir meno della voce, per lo scoramento della sua espressione, per la paura che c’era nei suoi occhi.
– Pregherò la Vergine, – le venne in mente di dire. – Nuestra Señora de la Altagracia ci aiuterà. Perché non parli con il Capo? Lui ti ha voluto sempre bene. Che dia un ordine e tutto si sistema.
– Gli ho chiesto udienza e non mi ha nemmeno risposto, Uranita. Vado al Palacio Nacional e i segretari e gli assistenti mi salutano appena. Non mi ha voluto ricevere nemmeno il Presidente Balaguer, e nemmeno il ministro dell’Interno: sí, Paíno Pichardo. Sono un morto vivente, bambina. Forse hai ragione tu, e ci rimane soltanto di raccomandarci alla Vergine.
La voce gli si spezzò. Ma quando la bambina si alzò per abbracciarlo si rianimò. Le sorrise.
– Dovevi sapere tutto questo, Uranita. Se mi succede qualcosa, tu va’ dagli zii. Aníbal e Adelina si prenderanno cura di te. Può darsi che sia una prova. Qualche volta il Capo ha fatto cose del genere, per mettere alla prova i suoi collaboratori.
– Accusare lui di malversazione, – sospira zia Adelina. – Al di fuori della casetta di Gazcue, non ha mai avuto niente. Né terre, né aziende, né investimenti. Soltanto quei piccoli risparmi, quei venticinquemila dollari che ti ha dato poco per volta, mentre studiavi là. Il politico piú onesto e il padre piú buono del mondo, Uranita. E, se permetti un’intrusione nella tua vita privata a questa zia vecchia e rimbambita, non ti sei comportata con lui come dovevi. Lo so che lo mantieni e che gli paghi l’infermiera. Ma sai quanto lo hai fatto soffrire quando non rispondevi alle sue lettere, quando non prendevi il telefono tutte le volte che ti chiamava? Molte volte lo abbiamo visto piangere per te, Aníbal e io, proprio qui. Adesso che è passato tanto tempo, si può sapere il perché, benedetta ragazza?
Urania riflette, sostenendo lo sguardo di rimprovero della vecchina rannicchiata come un uncino nella sua poltrona.
– Perché non era un padre buono come credi tu, zia Adelina, – dice alla fine.
Il senatore Cabral si fece lasciare dal taxi alla Clínica Internacional, a quattro isolati dal Servicio de Inteligencia, situato anch’esso in avenida México. Al momento di dare l’indirizzo al taxi, provò uno strano prurito, vergogna e pudore, e anziché comunicare all’autista che andava al Sim, nominò la clinica. Percorse i quattro isolati senza fretta; i domini di Johnny Abbes erano probabilmente gli unici locali importanti del regime in cui non aveva mai messo piede. Il cepillo con i caliés lo seguiva senza nascondersi, al rallentatore, vicina al marciapiede, e lui poteva cogliere i movimenti del capo e le espressioni allarmate dei passanti nello scoprire la fatidica Volkswagen. Ricordò che, alla commissione Bilancio del Congresso, era intervenuto a favore dello stanziamento destinato a importare quel centinaio di cepillos con cui i caliés di Johnny Abbes si spostavano adesso su tutto il territorio in cerca dei nemici del regime.
Nello scolorito e anonimo edificio, il corpo di guardia, composto da poliziotti in divisa e da civili con il mitra, che sorvegliava la porta d’ingresso dietro recinzioni e sacchi di sabbia, lo lasciò passare senza perquisirlo e senza chiedergli i documenti. Dentro, lo aspettava uno degli assistenti del colonnello Abbes: César Báez. Tarchiato, mangiato dal vaiolo, con i capelli rossi e ricci, gli porse una mano sudata e lo guidò per corridoi stretti, in cui c’erano uomini con pistole in fondine appese alla spalla o ballonzolanti sotto l’ascella, che fumavano, discutevano o ridevano in stanzette piene di fumo, con tabelloni su cui erano appuntati biglietti promemoria. C’era puzza di sudore, di orina e di piedi. Una porta si aprí. Lí c’era il capo del Sim. Lo sorprese la nudezza monacale di quell’ufficio, i muri senza quadri né manifesti, tranne quello alle spalle del colonnello, dove faceva bella mostra di sé un ritratto in uniforme da parata – tricorno con le piume, petto costellato di medaglie – del Benefattore. Abbes García era in borghese, con una camicetta estiva dalle maniche corte e una sigaretta accesa tra le labbra. Teneva in mano il fazzoletto rosso che Cabral aveva visto tante volte.
– Buongiorno, senatore, – gli porse una mano morbida, quasi femminile. – Sieda. Non abbiamo comodità qui, vorrà scusare.
– La ringrazio di avermi ricevuto, colonnello. Lei è il primo. Né il Capo, né il Presidente Balaguer, né un solo ministro hanno risposto alle mie richieste di udienza.
Quella piccola figura, con la pancia, un po’ contorta, annuí. Cabral vedeva, al di sopra della pappagorgia, la bocca sottile e le guance flosce, gli occhietti profondi e acquosi del colonnello, che si muovevano agitati. Era cosí crudele come si diceva?
– Nessuno si vuole contagiare, signor Cabral, – disse freddamente Johnny Abbes. Al senatore venne in mente che se i serpenti parlassero avrebbero quella voce sibilante. – Cadere in disgrazia è una malattia contagiosa. In che cosa posso essere utile?
– Dirmi di che cosa mi si accusa, colonnello, – fece una pausa per prendere respiro e per sembrare piú sereno. – Ho la coscienza pulita. Da quando ho vent’anni dedico la mia vita a Trujillo e al paese. Ci dev’essere stato qualche equivoco, glielo giuro.
Il colonnello lo fece tacere, con un movimento della mano molle, che teneva il fazzoletto colorato. Spense la sigaretta in un portacenere di ottone:
– Non perda il suo tempo a darmi spiegazioni, dottor Cabral. La politica non è il mio campo, io mi occupo della sicurezza. Se il Capo non la vuole ricevere, perché è dispiaciuto con lei, gli scriva.
– L’ho già fatto, colonnello. Non so nemmeno se gli hanno consegnato le mie lettere. Le ho portate personalmente al Palacio.
Il viso rigonfio di Johnny Abbes si distese un po’:
– Nessuno tratterrebbe una lettera indirizzata al Capo, senatore. Le avrà lette e, se lei è stato sincero, le risponderà, – fece una lunga pausa, guardandolo sempre con quegli occhietti inquieti, e aggiunse, con un tono che sembrava di sfida: – Vedo che la sua attenzione è attratta dal fatto che io usi un fazzoletto di questo colore. Sa perché lo faccio? È un insegnamento rosacrociano. Il rosso è il colore che mi si addice. Lei non crederà ai rosacroce, le sembrerà una superstizione, qualcosa di primitivo.
– Non so niente della religione rosacrociana, colonnello. Non ho nessuna opinione al riguardo.
– Adesso non ho tempo, ma, da giovane, ho letto molto sul rosacrocianesimo. Ho imparato parecchie cose. A leggere l’aura delle persone, ad esempio. La sua, in questo momento, è quella di una persona morta di paura.
– Sono morto di paura, – rispose immediatamente Cabral. – Da giorni, i suoi uomini mi seguono senza sosta. Mi dica, almeno, se mi arresteranno.
– Questo non dipende da me, – disse Johnny Abbes, con aria leggera, come se la cosa non avesse alcuna importanza. – Se me lo ordinano, lo farò. La scorta è per dissuaderla dal chiedere asilo. Se ci prova, i miei uomini l’arresteranno.
– Chiedere asilo? Ma colonnello. Chiedere asilo, come un nemico del regime? Ma io sono il regime da trent’anni a questa parte.
– Presso il suo amico Henry Dearborn, il capo della missione che ci hanno lasciato gli yanquis, – proseguí, sarcastico, il colonnello Abbes.
La sorpresa rese muto Agustín Cabral. Che cosa voleva dire?
– Amico mio il console degli Stati Uniti? – balbettò. – Ma se l’ho visto soltanto due o tre volte in vita mia, il signor Dearborn.
– È un nostro nemico, come lei sa, – proseguí Abbes García. – Gli yanquis lo hanno lasciato qui, quando l’Osa ha concesso le sanzioni, per continuare a tramare contro il Capo. Tutte le cospirazioni, da un anno a questa parte, passano dall’ufficio di Dearborn. Nonostante questo, lei, presidente del Senato, è andato a un cocktail in casa sua, poco tempo fa. Lo ricorda?
Lo stupore di Agustín Cabral cresceva. Si trattava di questo? Avere partecipato a quel cocktail in casa dell’incaricato di affari lasciato lí dagli Stati Uniti quando avevano chiuso l’ambasciata?
– Il Capo aveva dato l’ordine di partecipare a quel cocktail, al ministro Paíno Pichardo e a me, – spiegò. – Per sondare i piani del suo governo. Sono caduto in disgrazia per aver eseguito quell’ordine? Ho fatto una relazione scritta su quell’incontro.
Il colonnello Abbes García si strinse nelle sue spallucce cadenti, con un movimento da marionetta.
– Se è stato un ordine del Capo, dimentichi il mio commento, – ammise, con ironica sufficienza.
Il suo comportamento rivelava una certa impazienza, ma Cabral non si congedò. Nutriva in sé l’insensata illusione che quella chiacchierata avrebbe dato qualche frutto.
– Lei e io non siamo mai stati amici, colonnello, – disse, sforzandosi di parlare con naturalezza.
– Io non posso avere amici, – replicò Abbes García. – Sarebbe pregiudizievole per il mio lavoro. I miei amici e i miei nemici sono quelli del regime.
– Mi lasci finire, per favore, – proseguí Agustín Cabral. – Ma io l’ho sempre rispettata e ho riconosciuto i servizi eccezionali che lei presta al paese. Se abbiamo avuto qualche disaccordo…
Il colonnello sembrò sollevare una mano per farlo tacere, ma era per accendere un’altra sigaretta. Aspirò con avidità e buttò fuori il fumo con calma, dalla bocca e dalle narici.
– Certo che abbiamo avuto disaccordi, – ammise. – Lei è stato uno di quelli che hanno piú osteggiato la mia tesi secondo cui, in vista del tradimento yanqui, bisogna avvicinarsi ai russi e ai paesi dell’Est. Lei, insieme a Balaguer e a Manuel Alfonso, cerca di convincere il Capo che la riconciliazione con gli yanquis è possibile. Continua a credere a questa fesseria?
Era questa la ragione? Abbes García gli aveva conficcato il pugnale? Il Capo aveva accettato una simile idiozia? Lo allontanavano per avvicinare il regime al comunismo? Era inutile continuare a umiliarsi di fronte a uno specialista in torture e omicidi che, grazie alla crisi, osava adesso credersi uno stratega politico.
– Continuo a pensare che non abbiamo alternativa, colonnello, – affermò, deciso. – Quello che lei propone, mi perdoni la franchezza, è una chimera. Né l’Urss né i suoi satelliti accetteranno mai l’avvicinamento alla Repubblica Dominicana, baluardo anticomunista nel continente. Gli Stati Uniti, tanto meno, lo consentirebbero. Lei vuole altri otto anni di occupazione nordamericana? Dobbiamo arrivare a una qualche intesa con Washington o sarà la fine del regime.
Il colonnello lasciò cadere la cenere della sigaretta in terra. Dava un tiro dopo l’altro, come se temesse che gli portassero via la sigaretta, e, di tanto in tanto, si asciugava la fronte con quel suo fazzoletto che sembrava una fiammata.
– Il suo amico Henry Dearborn non la pensa cosí, peccato, – si strinse di nuovo nelle spalle, come un comico da due soldi. – Continua a cercare di finanziare un golpe contro il Capo. Insomma, questa discussione è inutile. Spero che chiarisca la sua posizione, in modo che le possa togliere la scorta. Grazie per la visita, senatore.
Non gli diede la mano. Si limitò a rivolgergli un piccolo inchino con la sua faccia dalle guance rigonfie mezzo svanita in un’aureola di fumo, con lo sfondo di quella fotografia del Capo in uniforme da gran parata. Allora, il senatore ricordò la citazione da Ortega y Gasset, annotata nel taccuino che portava sempre in tasca.
Anche il pappagallo Sansón sembra impietrito per le parole di Urania; rimane fermo e muto, come zia Adelina, che ha smesso di farsi aria con il ventaglio e ha aperto la bocca. Lucinda e Manolita la guardano, sconcertate. Marianita batte incessantemente le palpebre. A Urania viene in mente l’assurda idea che quella bellissima luna che spia dalla finestra approvi quel che ha detto.
– Non so come tu possa dire questo di tuo padre, – reagisce zia Adelina. – Nella mia lunga vita non ho mai conosciuto nessuno che si sia sacrificato di piú per una figlia del mio povero fratello. Questa cosa del «padre cattivo» l’hai detta sul serio? Tu sei stata la sua adorazione. E il suo tormento. Per non farti soffrire, non si è risposato quando è morta tua madre, nonostante fosse rimasto vedovo cosí giovane. Grazie a chi hai avuto la fortuna di studiare negli Stati Uniti? Non ha forse speso tutto quello che aveva? E questo lo chiami un padre cattivo?
Non le devi rispondere, Urania. Che colpa vuoi che abbia questa vecchietta che passa i suoi ultimi anni, mesi o settimane, immobile e amareggiata, di qualcosa cosí lontano? Non replicare. Di’ di sí, fingi. Trova una scusa, saluta e dimenticati di lei per sempre. Con calma, senza la minima ostilità, dice:
– Non faceva quei sacrifici per amore di me, zia. Mi voleva comperare. Lavare la sua cattiva coscienza. Sapendo che era inutile, che qualunque cosa avesse fatto gli sarebbe rimasto da vivere il resto dei suoi giorni sentendosi l’uomo vile e malvagio che era.
Uscendo dagli uffici del Servicio de Inteligencia all’incrocio delle avenidas México e 30 de Marzo, gli sembrò che i poliziotti del posto di guardia gli rivolgessero uno sguardo misericordioso, e che uno di loro, addirittura, tenendo gli occhi fissi su di lui, accarezzasse intenzionalmente il mitra San Cristóbal che portava di traverso appeso a una spalla. Si sentí soffocare, provò una lieve vertigine. Aveva la citazione da Ortega y Gasset nel suo taccuino? Cosí adatta, cosí profetica. Si allentò la cravatta e si tolse la giacca. Passavano dei taxi ma non ne fermò nessuno. Sarebbe andato a casa? Per sentirsi in gabbia e lambiccarsi il cervello mentre scendeva dalla camera da letto per andare nello studio o saliva di nuovo nella camera da letto passando dalla sala, domandandosi, mille volte, che cosa era successo? Perché era diventato un coniglio incalzato da invisibili cacciatori? Gli avevano tolto l’ufficio al Congresso e l’auto ufficiale, e la sua tessera del Country Club, dove si sarebbe potuto rifugiare, a bere una bibita fresca, a osservare, dal bar, quel paesaggio di giardini ben curati e lontani giocatori di golf. O andare da un amico, ma glien’erano rimasti? Tutti quelli che aveva chiamato gli erano sembrati al telefono spaventati, reticenti, ostili: causava loro dei problemi chiedendo di incontrarli. Camminava senza meta, con la giacca ripiegata sotto il braccio. La causa poteva essere quel cocktail a casa di Henry Dearborn? Impossibile. Nella riunione del Consiglio dei Ministri, il Capo aveva deciso che lui e Paíno Pichardo sarebbero intervenuti, «per esplorare il terreno». Come poteva punirlo per avere obbedito? Forse Paíno aveva insinuato, con Trujillo, che lui si era mostrato troppo cordiale con il gringo durante quel cocktail? No, no, no. Non era possibile che per una sciocchezza tanto insignificante il Capo si mettesse sotto i piedi qualcuno che lo aveva servito con devozione, con piú disinteresse di chiunque altro.
Procedeva come se fosse disorientato, cambiando sempre direzione dopo un certo numero di isolati. Il caldo lo faceva sudare. Era la prima volta in moltissimi anni che andava come un vagabondo per le strade di Ciudad Trujillo. Una città che aveva visto crescere e trasfigurarsi, dal piccolo paese colpito e in rovina in cui l’aveva trasformato il ciclone di San Zenón, nel 1930, alla moderna, bella e prospera città che era adesso, con strade asfaltate, luce elettrica, ampi viali solcati da auto ultimo modello.
Quando guardò l’orologio erano le cinque e un quarto. Erano due ore che camminava e stava morendo di sete. Si trovava in Casimiro de Moya, tra Pasteur e Cervantes, a pochi metri da un bar: El Turey. Entrò, si sedette al primo tavolo. Chiese una Presidente molto fredda. Non c’era l’aria condizionata ma dei ventilatori, e all’ombra si stava bene. La lunga camminata lo aveva rasserenato. Che ne sarebbe stato di lui? E di Uranita? Che ne sarebbe stato della bambina se lo avessero messo in carcere, o se, in un impeto, il Capo avesse ordinato di ammazzarlo? Adelina sarebbe stata in grado di educarla, di trasformarsi in sua madre? Sí, sua sorella era una donna buona e generosa. Uranita sarebbe stata un’altra sua figlia, come Lucindita e Manolita.
Assaporò la birra con piacere, mentre scorreva il taccuino in cerca della citazione da Ortega y Gasset. Il liquido freddo, scendendo giú nelle viscere, produsse in lui una sensazione di benessere. Non perdere le speranze. L’incubo sarebbe potuto svanire. Non era successo, qualche volta? Aveva mandato tre lettere al Capo. Sincere, esplicite, gli mostrava l’anima. Chiedendogli perdono per la mancanza che aveva potuto commettere, giurando che avrebbe fatto qualunque cosa per riparare e redimersi, se in un momento di leggerezza o d’incoscienza era venuto meno. Gli ricordava i lunghi anni di dedizione, la sua assoluta onorabilità, come provava il fatto che adesso, dopo che gli erano stati congelati i conti al Banco de Reserva – circa duecentomila pesos, i risparmi di tutta una vita –, era rimasto in mezzo a una strada, con soltanto la casetta di Gazcue in cui abitare. (Gli nascose soltanto quei venticinquemila dollari depositati alla Chemical Bank di New York che aveva messo da parte per una qualunque emergenza). Trujillo era magnanimo, certo. Poteva essere crudele, quando il paese lo esigeva. Ma, anche, generoso, magnifico come il Petronio di Quo vadis? che citava sempre. Da un momento all’altro lo avrebbe convocato al Palacio Nacional o all’Estancia Radhamés. Avrebbero avuto un chiarimento teatrale, di quelli che piacevano al Capo. Tutto si sarebbe risolto. Gli avrebbe detto che, per lui, Trujillo non soltanto era stato il Capo, lo statista, il fondatore della Repubblica, ma un modello umano, un padre. L’incubo sarebbe finito. La sua vita precedente sarebbe tornata attuale, come per magia. La citazione da Ortega y Gasset apparve, nell’angolo di una pagina, scritta con la sua grafia sottile: «Nulla di quello che l’uomo è stato, è o sarà, lo è stato, lo è né lo sarà una volta per sempre, ma è arrivato a esserlo un certo giorno e un altro certo giorno cesserà di esserlo». Lui era un esempio vivente della precarietà dell’esistenza che affermava quella filosofia.
Su uno dei muri de El Turey, un cartello annunciava, a partire dalle sette della sera, il piano del maestro Enriquillo Sánchez. C’erano due tavoli occupati, con delle coppiette che parlottavano e si guardavano in modo romantico. «Accusarmi di essere un traditore, io». Lui, che, per Trujillo, aveva rinunciato ai piaceri, ai divertimenti, al denaro, all’amore, alle donne. Qualcuno aveva lasciato su una sedia vicina una copia de «La Nación». Prese il giornale e, per tenere le mani occupate, sfogliò quelle pagine. Alla terza, un riquadro annunciava che «el muy ilustre y distinguido» ambasciatore don Manuel Alfonso era appena rientrato dall’estero, dove si era recato per motivi di salute. Manuel Alfonso! Nessuno aveva accesso piú diretto al Capo; questi lo stimava e gli confidava le sue faccende piú intime, dal suo abbigliamento e dai suoi profumi fino alle sue avventure galanti. Manuel era amico suo, gli doveva dei favori. Poteva essere la persona chiave.
Pagò e uscí. Il cepillo non era lí. Era sfuggito loro senza accorgersene, o era finito l’inseguimento? Nel suo petto affiorò un senso di gratitudine, di gioiosa speranza.