Il Benefattore entrò nell’ufficio del dottor Joaquín Balaguer alle cinque, come faceva dal lunedí al venerdí, da quando, nove mesi prima, il 3 agosto 1960, per tentare di scongiurare le sanzioni dell’Osa, aveva fatto dimettere il fratello Héctor Trujillo (Negro) e aveva portato alla Presidenza della Repubblica l’affabile e premuroso poeta e giurista che si era alzato in piedi e si avvicinava per salutarlo:
– Buonasera, Eccellenza.
Dopo il pranzo in onore dei coniugi Gittleman, il Generalissimo aveva riposato mezz’ora, si era cambiato – portava un finissimo abito di lino bianco – e aveva esaminato questioni di normale amministrazione con i suoi quattro segretari fino a cinque minuti prima. La sua faccia era buia e venne subito al sodo, senza mascherare il proprio fastidio:
– Ha autorizzato lei, un paio di settimane fa, la partenza per l’estero della figlia di Agustín Cabral?
Gli occhietti miopi del piccolo dottor Balaguer battevano le palpebre dietro le spesse lenti.
– In effetti, Eccellenza. Uranita Cabral, sí. Le Dominican Nuns le hanno dato una borsa di studio, presso la loro università del Michigan. La bambina doveva partire al piú presto, per delle prove. Me lo ha spiegato la direttrice e si è interessato alla faccenda l’arcivescovo Ricardo Pittini. Ho pensato che questo piccolo gesto avrebbe potuto tendere dei ponti con la gerarchia. Le ho spiegato tutto in un promemoria, Eccellenza.
L’ometto parlava con l’abituale delicatezza affabile e un accenno di sorriso sulla faccia tonda, pronunciando con la perfezione di un attore di radioteatro o di un professore di fonetica. Trujillo lo scrutò, cercando di cogliere nella sua espressione, nella forma della sua bocca, nei suoi occhietti evasivi, il minimo indizio, qualche allusione. Nonostante la sua infinita diffidenza non riuscí a percepire alcunché; certo, il Presidente fantoccio era un politico troppo abile perché i suoi gesti potessero tradirlo.
– Quando mi ha mandato quel promemoria?
– Un paio di settimane fa, Eccellenza. Dopo l’intervento dell’arcivescovo Pittini. Le dicevo che, dal momento che il viaggio della bambina era urgente, avrei dato il permesso a meno che lei non avesse avuto delle obiezioni. Poiché non ho ricevuto una sua risposta, ho proceduto. C’era già il visto degli Stati Uniti.
Il Benefattore si sedette di fronte alla scrivania di Balaguer e gli indicò di fare altrettanto. In quell’ufficio al secondo piano del Palacio Nacional si sentiva bene; era vasto, arioso, sobrio, con scaffali colmi di libri, il pavimento e le pareti rilucenti, e la scrivania sempre in ordine. Non si poteva dire che il Presidente fantoccio fosse un uomo elegante (come avrebbe potuto esserlo con quella faccetta scolpita e piena che faceva di lui non soltanto un uomo basso ma, quasi, un nano?), ma vestiva con la stessa proprietà con cui parlava, rispettava il protocollo, ed era un lavoratore infaticabile per il quale non esistevano feste né orari. Lo sentiva allarmato; si rendeva conto che, dando quel permesso alla figlia di Cerebrito, poteva essere incorso in un grave errore.
– Ho visto quel promemoria soltanto mezz’ora fa, – disse, con tono di rimprovero. – Potrebbe essere finito fuori posto. Ma mi meraviglierei. Le mie carte sono sempre molto in ordine. Nessuno dei segretari lo ha visto fino a poco fa. Questo vuol dire che qualche amico di Cerebrito, temendo che avrei rifiutato il permesso, deve averlo fatto spostare.
Il dottor Balaguer assunse un’espressione costernata. Aveva teso il corpo in avanti e socchiudeva quella boccuccia da cui uscivano soavi arpeggi e delicati trilli quando declamava e, nelle sue arringhe politiche, frasi altisonanti e addirittura furibonde.
– Farò una ricerca approfondita, per sapere chi ha portato nel suo ufficio il promemoria e a chi lo ha consegnato. Sono stato precipitoso, senza dubbio. Avrei dovuto parlare personalmente con lei. Le chiedo di perdonare questa svista, – le manine grassocce, dalle unghie corte, si aprirono e si chiusero, contrite. – A dire il vero, ho pensato che la faccenda non fosse importante. Lei ci aveva indicato, durante il Consiglio dei Ministri, che la situazione di Cerebrito non comprendeva la famiglia.
Lo fece tacere, con un movimento del capo.
– L’importante è che qualcuno mi ha tenuto nascosto quel promemoria per un paio di settimane, – disse, con secchezza. – Nella segreteria c’è un traditore o un incapace. Spero che sia un traditore, gli incapaci sono piú nocivi.
Sospirò, un po’ stanco, e si ricordò del dottor Enrique Lithgow Ceara: avrebbe voluto ucciderlo, per davvero, o la cosa gli aveva preso la mano? Dalle due finestre dell’ufficio vedeva il mare; nuvole dalle grandi pance bianche coprivano il sole e nel pomeriggio cenerino la superficie marina risplendeva agitata, effervescente. Grandi ondate colpivano la costa friabile. Sebbene fosse nato a San Cristóbal, lontano dal mare, lo spettacolo delle onde spumose e della superficie liquida che si perdeva all’orizzonte era il suo preferito.
– Le suore le hanno dato la borsa di studio perché sanno che Cabral è in disgrazia, – mormorò, disgustato. – Perché pensano che adesso servirà al nemico.
– Le assicuro di no, Eccellenza, – il Generalissimo vide che il dottor Balaguer esitava a scegliere le parole. – Madre María, sister Mary, e la direttrice del Santo Domingo non hanno Agustín in buona considerazione. A quel che sembra, non aveva un buon rapporto con la bambina e lei soffriva in quella casa. Volevano aiutare lei, non lui. Mi hanno assicurato che è una ragazza eccezionalmente dotata per lo studio. Sono stato precipitoso a firmare quel permesso, mi dispiace. L’ho fatto, piú che altro, per cercare di ammorbidire i rapporti con la Chiesa. Questo conflitto mi sembra pericoloso. Eccellenza, lei già conosce la mia opinione.
Di nuovo gli fece cenno di tacere. Cerebrito aveva già cominciato a tradire? Sentirsi messo al margine, abbandonato, senza incarichi, senza mezzi economici, sprofondato nell’incertezza, lo aveva già spinto tra le fila del nemico? Magari no; era un vecchio collaboratore, aveva prestato buoni servizi in passato e forse ne avrebbe potuto prestare in futuro.
– Ha visto Cerebrito?
– No, Eccellenza. Ho seguito le sue istruzioni di non riceverlo e di non rispondere alle sue telefonate. Mi ha scritto quel paio di lettere che lei conosce. Attraverso Aníbal, suo cognato, quello de La Tabacalera, ho saputo che è rimasto molto colpito. «Sull’orlo del suicidio», mi ha detto.
Era stata una leggerezza sottoporre un efficiente servitore come Cabral a una prova simile in quei momenti difficili per il regime? Forse.
– Adesso basta perdere tempo con Agustín Cabral, – disse. – La Chiesa, gli Stati Uniti. Cominciamo da qui. Che cosa succederà con il vescovo Reilly? Fino a quando rimarrà tra le monache del Santo Domingo, giocando a fare il martire?
– Ho parlato a lungo con l’arcivescovo e con il nunzio, al riguardo. Ho insistito con loro nel dire che monsignor Reilly deve lasciare il Santo Domingo, che la sua presenza lí è intollerabile. Credo di averli convinti. Chiedono che venga garantita loro l’integrità del vescovo, che finisca la campagna su «La Nación», su «El Caribe» e a La Voz Dominicana. E che possa tornare nella sua diocesi di San Juan de la Maguana.
– Non vogliono pure che lei gli ceda la Presidenza della Repubblica? – domandò il Benefattore. Il solo nome di Reilly o di Panal gli faceva ribollire il sangue. E se, in fin dei conti, il capo del Sim avesse avuto ragione? Se avesse fatto esplodere quel focolaio d’infezione una buona volta? – Abbes García mi suggerisce di mettere Reilly e Panal su un aereo che li riporti ai loro paesi. Di espellerli come indesiderabili. Come sta facendo Fidel Castro a Cuba con i preti e le suore spagnoli.
Il Presidente non disse una parola, non fece il minimo gesto. Aspettava, immobile.
– O lasciare che il popolo punisca quei due traditori, – continuò, dopo una pausa. – La gente non aspetta altro. L’ho visto, nei giri degli ultimi giorni. A San Miguel de la Maguana, a La Vega, si trattengono a stento.
Il dottor Balaguer ammise che il popolo, se avesse potuto, li avrebbe fatti a pezzi. Era risentito con quei preti, ingrati verso l’uomo che aveva fatto per la Chiesa cattolica piú di tutti i governi della Repubblica, dal 1844. Ma il Generalissimo era troppo saggio e realista per seguire i consigli storditi e impolitici del capo del Sim che, se messi in pratica, avrebbero causato infauste conseguenze alla nazione. Parlava senza fretta, con una cadenza che, unita al suo fulgido eloquio, risultava carezzevole.
– Lei è la persona che detesta Abbes García piú di tutti all’interno del regime, – lo interruppe. – Perché?
Il dottor Balaguer aveva la risposta sulla punta della lingua.
– Il colonnello è un tecnico delle questioni di sicurezza e presta un buon servizio allo Stato, – rispose. – Ma, in generale, i suoi giudizi politici sono temerari. Con tutto il rispetto e l’ammirazione che provo per Sua Eccellenza, mi permetto di esortarla a respingere quelle idee. L’espulsione, e, peggio ancora, la morte di Reilly e di Panal ci porterebbero una nuova invasione militare. E la fine dell’Era di Trujillo.
Poiché il suo tono era cosí soave e cordiale, e la musica delle sue parole tanto gradevole, sembrava che le cose che il dottor Joaquín Balaguer diceva non avessero la solidità di giudizio e la severità che, a volte, come adesso, il minuscolo ometto si permetteva con il Capo. Stava esagerando? Aveva ceduto, come Cerebrito, all’idiozia di credersi al sicuro e aveva bisogno anche lui di un bagno di realtà? Singolare personaggio, Joaquín Balaguer. Era al suo fianco da quando, nel 1930, lo aveva mandato a chiamare con due guardie nell’alberghetto di Santo Domingo dove alloggiava e se l’era portato a casa sua per un mese, affinché lo aiutasse nella campagna elettorale in cui aveva avuto come effimero alleato il leader cibaeño Estrella Ureña, di cui il giovane Balaguer era ardente sostenitore. Un invito e una chiacchierata di mezz’ora erano stati sufficienti perché il poeta, professore e avvocato ventiquattrenne, nato nello sgraziato paese di Navarrete, si trasformasse in un fanatico trujillista, in un competente e discreto servitore adatto a tutti gli incarichi diplomatici, amministrativi e politici che gli affidò. Nonostante fosse stato al suo fianco per trent’anni, a dire il vero, il trascurabile personaggio che Trujillo aveva battezzato per questo in un certo periodo l’Ombra, era ancora alquanto ermetico per lui, che si vantava di avere un fiuto da segugio con gli uomini. Una delle poche certezze che nutriva su di lui era la sua mancanza di ambizione. A differenza degli altri del gruppo degli intimi, i cui appetiti poteva leggere come un libro aperto nei loro comportamenti, nelle loro iniziative e nelle loro lusinghe, Joaquín Balaguer gli aveva dato sempre l’impressione di aspirare soltanto a ciò che lui ritenesse di dovergli dare. Negli incarichi diplomatici in Spagna, Francia, Colombia, Honduras, Messico, o nei Ministeri della Pubblica Istruzione, della Presidenza, degli Esteri, gli era sembrato assorbito, travolto in quelle missioni che erano al di sopra dei suoi sogni e delle sue capacità, e che, proprio per questo, si sforzava in maniera smodata di compiere al meglio. Ma – venne a un tratto in mente al Benefattore – per merito di quell’umiltà, il piccolo vate e giureconsulto era sempre rimasto al vertice, senza dover mai, proprio per la sua insignificanza, attraversare periodi di disgrazia, come gli altri. Per quello era il Presidente fantoccio. Quando, nel 1957, si era trattato di designare un vicepresidente nella lista al cui primo posto c’era suo fratello Negro Trujillo, il Partido Dominicano, seguendo i suoi ordini, scelse l’ambasciatore in Spagna, Rafael Bonnelly. Improvvisamente, il Generalissimo decise di sostituire quell’aristocratico con il prolisso Balaguer, sulla base di un argomento risolutivo: «Lui è privo di ambizioni». Ma, adesso, grazie alla sua mancanza di ambizioni, quest’intellettuale dai modi delicati e dai sottili discorsi, era il primo governante della nazione e si permetteva di sproloquiare contro il capo del Servicio de Inteligencia. Sarebbe stato il caso di fargli abbassare la cresta, una volta o l’altra.
Balaguer era rimasto fermo e in silenzio, senza osare interrompere le sue riflessioni, aspettando che si degnasse di rivolgergli la parola. Alla fine lo fece, ma senza riprendere l’argomento Chiesa:
– Io le ho sempre dato del lei, non è vero? È l’unico dei miei collaboratori al quale non abbia mai dato del tu. Non le sembra strano?
La faccetta rotonda assunse un colorito piú acceso.
– In effetti, Eccellenza, – sussurrò, vergognoso. – Mi domando sempre se non mi dà del tu perché ha meno fiducia in me che nei miei colleghi.
– Me ne sono reso conto proprio in questo momento, – aggiunse Trujillo, sorpreso. – E, anche, del fatto che lei non mi chiama mai Capo, come gli altri. Nonostante tutti questi anni che abbiamo passato insieme, per me rimane abbastanza misterioso. Non sono mai riuscito a scoprire in lei debolezze umane, dottor Balaguer.
– Ne sono pieno, Eccellenza, – sorrise il Presidente. – Ma, anziché elogiarmi per questo, sembra che me ne voglia rimproverare.
Il Generalissimo non stava scherzando. Accavallò e disaccavallò le gambe, senza togliere di dosso a Balaguer il suo sguardo pungente. Si passò la mano sui baffetti a mosca e sulle labbra asciutte. Lo scrutava con accanimento.
– C’è qualcosa di inumano in lei, – monologò, come se l’oggetto dei suoi commenti non fosse presente. – Non ha quegli appetiti che sono naturali negli uomini. Che io sappia, non le piacciono le donne, né i ragazzi. Conduce una vita piú casta di quella del suo vicino dell’avenida Máximo Gómez, il nunzio. Abbes García non ha scoperto nemmeno una sua amante, una fidanzata, una scappatella. E cosí quindi il letto non la interessa. Nemmeno il denaro. Ha dei modesti risparmi; tranne la casetta in cui vive, non ha proprietà, azioni, investimenti, almeno qui. Non risulta coinvolto negli intrighi e nelle guerre feroci in cui si dissanguano i miei collaboratori, anche se tutti tramano contro di lei. Sono stato io a doverle imporre i ministeri, le ambasciate, la Vicepresidenza e perfino la Presidenza che ricopre adesso. Se la togliessi da qui e la mandassi a occupare un posto infimo a Montecristi o a Azua, lei ci andrebbe, contento. Lei non beve, non fuma, non mangia, non corre dietro alle gonnelle, ai soldi né al potere. Lei è proprio cosí? O questo comportamento è una strategia, con un progetto segreto?
La faccia ben rasata del dottor Balaguer si colorí ancora di piú. La sua flebile vocina non esitò ad affermare:
– Da quando ho conosciuto Sua Eccellenza, quella mattina dell’aprile 1930, il mio unico vizio è stato servirla. Da quel momento ho capito che, servendo Trujillo, servivo il mio paese. Questo ha arricchito la mia vita, piú di quanto avrebbero potuto farlo una donna, i soldi o il potere. Non troverò mai le parole per ringraziare Sua Eccellenza di avermi permesso di lavorare al suo fianco.
Ba’, le adulazioni di sempre, quelle che avrebbe potuto dire qualunque trujillista meno colto. Per un momento, aveva immaginato che il minuto e inoffensivo personaggio gli avrebbe aperto il proprio cuore, come in confessionale, e gli avrebbe rivelato i propri peccati, le paure, le animosità, i sogni. Magari non aveva nessuna vita segreta, e la sua esistenza era quella che tutti conoscevano: funzionario frugale e laborioso, tenace e privo di fantasia, che modellava in bei discorsi, proclami, lettere, accordi, perorazioni, negoziati diplomatici, le idee del Generalissimo, e poeta che produceva acrostici e loas alla bellezza della donna dominicana e al paesaggio di Quisqueya che ornavano i Juegos Florales, le effemeridi, i concorsi della Signorina Repubblica Dominicana e le celebrazioni patriottiche. Un ometto privo di luce propria, come la luna, che Trujillo, astro solare, illuminava.
– Sí, lo so, lei è stato un buon compagno, – affermò il Benefattore. – Da quella mattina del 1930, sí. L’avevo mandata a chiamare su suggerimento della mia moglie di allora, Bienvenida. Era sua parente, no?
– Mia cugina, Eccellenza. Quel pranzo decise della mia vita. Lei m’invitò ad accompagnarla nel suo giro elettorale. Mi fece l’onore di chiedermi che la presentassi nei comizi di San Pedro de Macorís, della capitale e de La Romana. È stato il mio debutto come oratore politico. Il mio destino prese un’altra direzione, a partire da quel momento. Fino ad allora, la mia vocazione erano le lettere, l’insegnamento, il foro. Grazie a lei, la politica è passata al primo posto.
Un segretario bussò alla porta, chiedendo il permesso di entrare. Balaguer consultò con lo sguardo il Generalissimo, che lo autorizzò. Il segretario – vestito attillato, baffetti, capelli schiacciati dalla brillantina – portava un appello firmato da cinquecentosettantasei residenti esimi di San Juan de la Maguana, «perché si impedisca il ritorno in questa prelatura di monsignor Reilly, il vescovo traditore». Una commissione presieduta dal sindaco e dal capo locale del Partido Dominicano avrebbe voluto consegnarlo al Presidente. L’avrebbe ricevuta? Consultò di nuovo e il Benefattore annuí.
– Che abbiano la bontà di aspettare, – disse Balaguer. – Riceverò quei signori quando avrò finito la riunione con Sua Eccellenza.
Balaguer era davvero tanto cattolico come si diceva? Circolavano innumerevoli dicerie sulla sua condizione di scapolo e sul modo pio e raccolto con cui assisteva alle messe, ai tedeum e alle processioni; lui lo aveva visto accostarsi all’altare per ricevere la comunione con le mani giunte e gli occhi bassi. Quando si era stabilito nella casa in cui abitava con le sorelle, nell’avenida Máximo Gómez, accanto alla nunziatura, Trujillo aveva fatto scrivere dall’Inmundicia Viviente una lettera a El Foro Público in cui si prendeva in giro quella vicinanza e ci si domandava quale tipo di consorteria avesse il minuto dottorino con l’inviato di Sua Santità. Grazie alla fama di persona pia e alle sue eccellenti relazioni con i preti, gli aveva affidato l’incarico di tracciare la politica del regime nei confronti della Chiesa cattolica. Lo aveva fatto molto bene; fino a domenica 25 gennaio 1960, quando era stata letta nelle parrocchie la Lettera Pastorale di quei coglioni, la Chiesa era stata una solida alleata. Il Concordato tra la Repubblica Dominicana e il Vaticano, di cui Balaguer aveva condotto le trattative e che Trujillo aveva firmato a Roma, nel 1954, era risultato un formidabile sostegno per il suo regime e per la sua figura nel mondo cattolico. Il poeta e giureconsulto doveva soffrire di quel confronto, che durava ormai da un anno e mezzo, tra il governo e le tonache. Era davvero tanto cattolico? Aveva sempre sostenuto che il regime doveva comportarsi bene con i vescovi, con i preti e con il Vaticano adducendo ragioni pragmatiche e politiche, non religiose: l’approvazione della Chiesa cattolica legittimava le azioni del regime agli occhi del popolo dominicano. A Trujillo non doveva capitare quello che era capitato a Perón, il cui governo aveva cominciato a cadere a pezzi quando la Chiesa l’aveva preso di mira. Aveva ragione? L’ostilità di quegli eunuchi in tonaca avrebbe fatto fuori Trujillo? Prima, Panal e Reilly sarebbero finiti a ingrassare gli squali al faraglione.
– Le dirò qualcosa che le farà piacere, Presidente, – disse, a un tratto. – Io non ho tempo per leggere le coglionate che scrivono gli intellettuali. Le poesie, i romanzi. Le questioni di Stato assorbono troppo. Di Marrero Aristy, nonostante abbia lavorato tanti anni con me, non ho mai letto niente. Né Over, né gli articoli che ha scritto su di me, né la Historia dominicana. Non ho nemmeno letto le centinaia di libri che mi hanno dedicato i poeti, i drammaturghi, i romanzieri. Neppure le stupidate di mia moglie, ho letto. Io non ho tempo per questo, né per vedere film o ascoltare musica, andare a teatro o ai combattimenti di galli. Oltretutto, non mi sono mai fidato degli artisti. Sono smidollati, privi del senso dell’onore, portati al tradimento e molto servili. Non ho nemmeno letto i suoi versi né i suoi saggi. Ho sfogliato appena un suo libro su Duarte, El Cristo de la libertad, che mi ha mandato con quella dedica cosí affettuosa. Ma c’è un’eccezione. Un suo discorso, sette anni fa. Quello che ha pronunciato al Teatro de Bellas Artes, quando l’hanno ammessa all’Accademia della Lingua. Lo ricorda?
L’ometto si era colorito ancora di piú. Emanava una luce esaltata, di indescrivibile giubilo:
– Dio e Trujillo: un’interpretazione realista, – mormorò, abbassando le palpebre.
– L’ho riletto molte volte, – stridette la melliflua vocina del Benefattore. – So dei brani a memoria, come poesie.
Perché questa rivelazione al Presidente fantoccio? Era una debolezza, una di quelle cui non cedeva mai. Balaguer avrebbe potuto vantarsene, sentirsi importante. Le cose non consentivano di poter fare a meno di un secondo collaboratore in un cosí breve tempo. Lo tranquillizzò ricordare che forse il maggiore attributo di quell’ometto era non soltanto sapere ciò che era conveniente, ma, soprattutto, non accorgersi di ciò che non lo era. Quello non l’avrebbe ripetuto, per non guadagnarsi inimicizie omicide tra gli altri cortigiani. Il discorso di Balaguer lo aveva colpito, lo aveva indotto a domandarsi molte volte se non esprimesse una profonda verità, una di quelle insondabili decisioni divine che segnano il destino di un popolo. Quella sera, sentendo i primi brani che, infagottato nel tight che portava con la sua poca prestanza, il nuovo accademico leggeva sul palcoscenico del Teatro de Bellas Artes, il Benefattore non gli aveva prestato particolare attenzione. (Anche lui indossava il tight, come tutto il pubblico maschile; le signore erano in abito lungo e dovunque scintillavano gioielli e diamanti). Sembrava una sintesi della storia dominicana dall’arrivo di Cristoforo Colombo a Hispaniola. Aveva cominciato a interessarsi quando, tra le parole educate e l’elegante prosa del conferenziere, iniziò ad apparire una visione, una tesi. La Repubblica Dominicana aveva sopravvissuto piú di quattro secoli – quattrocentotrentotto anni – a molteplici avversità – i bucanieri, le invasioni haitiane, i tentativi di annessione, il massacro e la fuga di bianchi (ne rimanevano soltanto sessantamila all’emancipazione da Haití) – grazie alla Provvidenza. Il compito era stato assunto fino ad allora direttamente dal Creatore. A partire dal 1930, Rafael Leónidas Trujillo aveva dato il cambio a Dio in tale improba missione.
– «Una volontà agguerrita ed energica che asseconda nella marcia della Repubblica verso la pienezza di propri destini l’azione tutelare e benefattrice di quelle forze sovrannaturali, – recitò Trujillo, con gli occhi socchiusi. – Dio e Trujillo: ecco, dunque, in sintesi, la spiegazione, prima della sopravvivenza del paese e, poi, dell’attuale prosperità della vita dominicana».
Aprí gli occhi e sospirò, con malinconia. Balaguer lo ascoltava rapito, rimpicciolito dalla gratitudine.
– Crede ancora che Dio mi abbia passato il testimone? Che mi abbia delegato la responsabilità di salvare questo paese? – domandò, con un misto indefinibile di ironia e di ansia.
– Piú di allora, Eccellenza, – replicò la vocina delicata e dolce. – Trujillo non avrebbe potuto portare a compimento la missione sovrumana senza l’appoggio trascendente. Lei è stato, per questo paese, strumento dell’Essere Supremo.
– Peccato che quei vescovi coglioni non se ne siano accorti, – sorrise Trujillo. – Se la sua teoria è vera, spero che Dio gliela faccia pagare per questa loro cecità.
Balaguer non era stato il primo ad associare la divinità al suo operato. Il Benefattore ricordava che, già prima, il professore di diritto, avvocato e politico don Jacinto B. Peynado (che aveva messo a fare il Presidente fantoccio nel 1938, quando, a seguito del massacro di haitiani, c’erano state proteste internazionali contro la sua terza rielezione) aveva sistemato un cartellone luminoso sulla porta di casa: «Dios y Trujillo». Da allora, scritte simili splendevano in molte case della capitale e dell’interno. No, non era la frase; erano gli argomenti che giustificavano quell’alleanza ciò che aveva colpito Trujillo come una sorprendente verità. Non era facile sentire sulle spalle il peso di una mano sovrannaturale. Ripubblicato ogni anno dall’Instituto Trujilloniano, il discorso di Balaguer era lettura obbligatoria nelle scuole e testo centrale dell’Abbecedario Civico, destinato a educare scolari e universitari alla Dottrina Trujillista, che era stato redatto da un trio scelto da lui: Balaguer, Cerebrito Cabral e l’Inmundicia Viviente.
– Molte volte ho pensato a quella sua teoria, dottor Balaguer, – confessò. – È stata una decisione divina? Perché io? Perché a me?
Il dottor Balaguer si umettò le labbra con la punta della lingua, prima di rispondere.
– Le decisioni della divinità sono ineluttabili, – disse, con fervore. – Saranno state tenute in conto le sue condizioni eccezionali di guida, la sua capacità lavorativa, e, soprattutto, il suo amore per questo paese.
Perché stava perdendo tempo con queste fesserie? C’erano questioni urgenti. Tuttavia, cosa rarissima, sentiva il bisogno di prolungare quella conversazione vaga, riflessiva, personale. Perché con Balaguer? Nella cerchia dei collaboratori, era quello con cui aveva condiviso meno situazioni di intimità. Non lo aveva mai invitato alle cene private di San Cristóbal, alla Casa de Caoba, dove il liquore scorreva a fiumi e dove a volte si compivano eccessi. Forse perché, in mezzo all’orda di intellettuali e letterati, era l’unico che, fino a quel momento, non lo avesse deluso. E per la sua fama di persona intelligente (anche se, secondo Abbes García, un’aura torbida circondava il Presidente).
– Su intellettuali e letterati ho sempre avuto una cattiva opinione, – riprese. – Nella graduatoria, in ordine di merito, al primo posto, i militari. Agiscono, tramano poco, non fanno perdere tempo. Poi, i contadini. Nei bateyes e nei bohíos, nei centrales1 c’è la gente sana, lavoratrice e onorata di questo paese. Poi, funzionari, imprenditori, commercianti. Letterati e intellettuali, ultimi. Dopo i preti, addirittura. Lei è un’eccezione, dottor Balaguer. Ma gli altri! Una sfilza di canaglie. Quelli che hanno ricevuto piú favori e che hanno provocato piú danni al regime che li ha nutriti, vestiti e colmati di onori. I chapetones2, per esempio, come José Almoina o Jesús de Galíndez. Abbiamo dato loro asilo, lavoro. E dall’adulare e dal mendicare sono passati a calunniare e a scrivere vigliaccherie. E Osorio Lizarazo, lo sciancato colombiano che ha portato lei? È venuto qui per scrivere la mia biografia, per mettermi in cielo, per vivere come un re, è tornato in Colombia con le tasche piene ed è diventato antitrujillista.
Un altro merito di Balaguer era sapere quando non parlare, quando trasformarsi in una sfinge di fronte alla quale il Generalissimo poteva permettersi quegli sfoghi. Trujillo tacque. Si fermò ad ascoltare, cercando di cogliere il suono di quella superficie metallica, dalle righe parallele e schiumose, che scorgeva attraverso le vetrate. Ma non riuscí a sentire il mormorio marino, coperto dai motori delle automobili.
– Lei crede che Ramón Marrero Aristy abbia tradito? – domandò all’improvviso, trasformandosi da quieta presenza in partecipante al dialogo. – Che abbia dato a quel gringo del «New York Times» informazioni per attaccarci?
Il dottor Balaguer non si lasciava mai sorprendere dalle domande improvvise di Trujillo, compromettenti e rischiose, che mettevano gli altri alle strette. Aveva una tecnica sbrigativa per simili situazioni:
– Lui giurava di no, Eccellenza. Con le lacrime agli occhi, seduto lí dov’è lei, mi ha giurato su sua madre e su tutti i santi che non era lui l’informatore di Tad Szulc.
Trujillo reagí con un gesto irritato:
– Voleva che Marrero venisse qui a confessarle di essersi venduto? Le ho domandato la sua opinione. Ha tradito o no?
Balaguer sapeva anche quando non rimaneva altro da fare che gettarsi in acqua: altra virtú che il Benefattore riconosceva in lui.
– Con il dolore nel cuore, a causa della stima intellettuale e personale che sentivo per Ramón, credo di sí, che sia stato lui a informare Tad Szulc, – disse, a voce molto bassa, quasi impercettibile. – I riscontri erano inoppugnabili, Eccellenza.
Alla stessa conclusione era arrivato pure lui. Anche se nei trent’anni di governo – e prima, quando era guardia stabularia, e ancor prima, sorvegliante negli ingenios – si era abituato a non perdere tempo guardando indietro e lamentandosi o rallegrandosi per le decisioni già prese, quello che era successo con Ramón Marrero Aristy, quell’«ignorante geniale» come lo chiamava Max Henríquez Ureña, per il quale era arrivato a provare vera stima, quello scrittore e storico che aveva coperto di onori, soldi e incarichi – opinionista e direttore de «La Nación» e ministro del Lavoro –, e i cui tre volumi della Historia de la República Dominicana aveva pagato di tasca propria, gli tornava a volte in mente, lasciandogli un sapore di cenere nella bocca.
Se avesse dovuto mettere la mano sul fuoco per qualcuno, lo avrebbe fatto per l’autore del romanzo dominicano piú letto nel paese e all’estero – Over, sul central Romana –, tradotto anche in inglese. Un trujillista incrollabile; come direttore de «La Nación» lo aveva dimostrato, difendendo Trujillo e il regime con idee chiare e prosa agguerrita. Un eccellente ministro del Lavoro, che si era comportato in modo splendido con sindacalisti e padroni. Per questo, quando il giornalista Tad Szulc del «New York Times» aveva annunciato che sarebbe venuto a scrivere degli articoli sul paese, aveva raccomandato a Marrero Aristy di accompagnarlo. Aveva viaggiato con lui dappertutto, gli aveva procurato gli incontri che chiedeva, compreso uno con Trujillo. Quando Tad Szulc rientrò negli Stati Uniti, Marrero Aristy lo scortò fino a Miami. Il Generalissimo non si aspettava che gli articoli sul «New York Times» fossero un’apologia del suo regime. Ma, neppure, che fossero incentrati sulla corruzione della «satrapia trujillista», né che Tad Szulc esponesse con tale precisione fatti, date, nomi e cifre circa le proprietà della famiglia Trujillo, e circa gli affari con cui erano stati favoriti parenti, amici e collaboratori. Soltanto Marrero Aristy poteva averlo informato. Era sicuro che il suo ministro del Lavoro non avrebbe piú messo piede a Ciudad Trujillo. Fu sorpreso dal fatto che, da Miami, avesse mandato una lettera al giornale newyorkese smentendo Tad Szulc, e ancora di piú che avesse avuto l’audacia di tornare nella Repubblica Dominicana. Si era presentato al Palacio Nacional. Aveva pianto affermando la propria innocenza; lo yanqui aveva eluso la sua sorveglianza, aveva parlato di nascosto con degli avversari. Fu una delle poche volte in cui Trujillo perse il controllo dei propri nervi. Stufo di quel piagnucolio, gli sferrò un ceffone che lo fece barcollare e lo ammutolí. Indietreggiava spaventato. Lo mandò al diavolo, chiamandolo traditore, e, quando il capo degli assistenti militari lo uccise, ordinò a Johnny Abbes di risolvere il problema del cadavere. Il 17 luglio 1959 il ministro del Lavoro e il suo autista precipitarono in uno strapiombo della Cordillera Central, mentre viaggiavano in direzione di Constanza. Gli vennero rese esequie ufficiali, e, al cimitero, il senatore Henry Chirinos sottolineò l’operato politico del defunto, e il dottor Balaguer pronunciò il panegirico letterario.
– Nonostante il suo tradimento, mi è dispiaciuto che sia morto, – disse Trujillo con sincerità. – Era giovane, appena quarantasei anni, avrebbe potuto dare molto di sé.
– Le decisioni della divinità sono ineluttabili, – ripeté, senza alcun accenno d’ironia, il Presidente.
– Ci siamo allontanati dalle nostre questioni, – reagí Trujillo. – Vede qualche possibilità che le cose con la Chiesa possano sistemarsi?
– Immediata, no, Eccellenza. Il contenzioso si è invelenito. Per parlarle francamente, temo che le cose andranno di male in peggio se lei non ordina al colonnello Abbes che «La Nación» e Radio Caribe moderino gli attacchi ai vescovi. Proprio oggi ho ricevuto una protesta formale dal nunzio e dall’arcivescovo Pittini per il dileggio che hanno montato ieri contro monsignor Panal. Lo ha letto?
Aveva il ritaglio sulla scrivania e lo lesse al Benefattore, in modo rispettoso. L’editoriale di Radio Caribe, ripreso da «La Nación», affermava che monsignor Panal, vescovo de La Vega, «un tempo conosciuto con il nome di Leopoldo de Ubrique», era latitante dalla Spagna e schedato all’Interpol. Lo accusava di riempire «di devote la casa curiale de La Vega prima di dedicarsi alle sue fantasie terroristiche», e, adesso, «poiché teme una giusta rappresaglia popolare si nasconde dietro devote e donne patologicamente disturbate con le quali, a quanto risulta, intrattiene un trasmodato commercio sessuale».
Il Generalissimo rideva di gusto. Le trovate di Abbes García! L’ultima volta che gli si doveva essere rizzata la verga a quel matusalemme spagnolo era stato venti, trent’anni prima; accusarlo di farsi le devote de La Vega era molto ottimistico; tutt’al piú, palpava i chierichetti, come tutti i preti disinvolti e infrocioniti.
– Il colonnello a volte esagera, – commentò, sorridendo.
– Ho ricevuto, anche, un’altra protesta formale del nunzio e della curia, – proseguí Balaguer, molto serio. – Per la campagna lanciata il 17 maggio sulla stampa e sulle radio contro i frati di San Carlo Borromeo, Eccellenza.
Prese un fascicolo blu, con ritagli dai titoli vistosi. «I frati francescani-cappuccini terroristi» fabbricavano e tenevano in deposito bombe casalinghe, dentro quella chiesa. Lo avevano scoperto gli abitanti del quartiere a causa dello scoppio casuale di un ordigno. «La Nación» e «El Caribe» chiedevano che la forza pubblica occupasse il covo terrorista.
Trujillo scorse con uno sguardo annoiato i ritagli.
– Questi preti non hanno le palle per fabbricare bombe. Vanno all’attacco con i sermoni, tutt’al piú.
– Conosco l’abate, Eccellenza. Fra’ Alonso de Palmira è un sant’uomo, dedito alla sua missione apostolica, rispettoso del governo. Assolutamente incapace di un’azione sovversiva.
Fece una piccola pausa e con lo stesso tono di voce cordiale con cui avrebbe partecipato a una conversazione di fine pranzo, espose un argomento che il Generalissimo aveva sentito molte volte da Agustín Cabral. Per poter allacciare di nuovo le relazioni con la gerarchia, con il Vaticano e con i preti – i quali, nella loro stragrande maggioranza, erano ancora dalla parte del regime per paura del comunismo ateo – era indispensabile che finisse, o quanto meno si riducesse di molto, quella quotidiana campagna di accuse e diatribe, che consentiva ai nemici di presentare il regime come anticattolico. Il dottor Balaguer, sempre con la sua inalterabile cortesia, mostrò al Generalissimo una protesta del Dipartimento di Stato in merito all’assedio delle religiose del Colegio Santo Domingo. Lui aveva risposto spiegando che la custodia della polizia proteggeva le suore da atti ostili. Ma, senza dubbio, la storia della persecuzione era vera. Per esempio, gli uomini del colonnello Abbes García suonavano per tutta la notte, attraverso altoparlanti rivolti verso l’edificio, i merengues trujillisti alla moda, cosicché le suorine non potevano chiudere occhio. Altrettanto avevano fatto, prima, a San Juan de la Maguana con la residenza di monsignor Reilly, e continuavano a farlo a La Vega con quella di monsignor Panal. Era ancora possibile una riconciliazione con la Chiesa. Ma quella campagna stava conducendo la crisi alla rottura totale.
– Parli con il rosacrociano e lo convinca, – Trujillo si strinse nelle spalle. – È lui il mangiapreti; ormai è convinto che sia troppo tardi per placare la Chiesa. Che i preti mi vogliono vedere in esilio, in galera o morto.
– Le assicuro che non è cosí, Eccellenza.
Il Benefattore non gli prestò attenzione. Scrutava il Presidente burattino, senza parlare, con quegli occhi indagatori che disorientavano e spaventavano. Il piccolo dottore era solito resistere piú a lungo degli altri all’inquisizione visiva, ma, adesso, dopo un paio di minuti che era stato spogliato da quello sguardo impudico, cominciò a mostrare un certo disagio: i suoi occhietti si aprivano e si chiudevano senza tregua sotto le spesse lenti.
– Lei crede in Dio? – gli domandò Trujillo, con un’ansia evidente: lo trafiggeva con i suoi occhi gelidi, pretendeva una risposta sincera. – Che c’è un’altra vita, dopo la morte? Il cielo per i buoni e l’inferno per i cattivi? Crede in tutto questo?
Gli sembrò che la minuscola figura di Joaquín Balaguer si rimpicciolisse ancora di piú, schiacciata sotto quelle domande. E che, dietro di lui, la sua fotografia – in abito da cerimonia e con il tricorno piumato, la fascia presidenziale di traverso sul petto insieme alla decorazione di cui piú andava fiero, la gran croce spagnola di Carlos III – s’ingigantisse nella cornice dorata. Le manine del Presidente fantoccio si accarezzarono l’un l’altra mentre diceva, come chi confida un segreto:
– A volte dubito, Eccellenza. Ma, alcuni anni fa, sono giunto a questa conclusione: non c’è alternativa. È necessario credere. Non è possibile essere atei. Non in un mondo come il nostro. No, se si ha la vocazione a servire la collettività e si fa politica.
– Lei ha fama di essere un uomo pio, – insistette Trujillo, muovendosi sulla sedia. – Ho sentito dire, anche, che non si è sposato, non ha un’amante, non beve, non combina affari perché ha preso i voti in segreto. Che è un prete laico.
Il piccolo governante fece cenno di no con il capo: niente di tutto quello era vero. Non aveva fatto né avrebbe fatto nessun voto; a differenza di alcuni compagni della Scuola Normale, che si torturavano domandandosi se erano stati scelti dal Signore per servirlo come pastori del gregge cattolico, lui aveva sempre saputo che la sua vocazione non era il sacerdozio, ma il lavoro intellettuale e l’azione politica. La religione gli dava un ordine spirituale, un’etica con cui affrontare la vita. Dubitava a volte della trascendenza, di Dio, ma mai della funzione insostituibile del cattolicesimo come strumento di contenimento sociale delle passioni e degli appetiti devastanti della bestia umana. E, nella Repubblica Dominicana, come forza costitutiva della nazionalità, allo stesso modo della lingua spagnola. Senza la fede cattolica, il paese sarebbe caduto nella disintegrazione e nella barbarie. Quanto a credere, lui seguiva la ricetta di sant’Ignazio di Loyola, nei suoi Esercizi spirituali: agire come se si credesse, seguendo i riti e i precetti: messe, preghiere, confessioni, comunioni. Quella ripetizione sistematica della forma religiosa avrebbe creato il contenuto, avrebbe colmato il vuoto – in qualche momento – con la presenza di Dio.
Balaguer tacque e abbassò gli occhi, come se si vergognasse di aver rivelato al Generalissimo i recessi della sua anima, i suoi particolari impegni con l’Essere Supremo.
– Se io avessi avuto dei dubbi, non avrei mai potuto sostenere questo peso, – disse Trujillo. – Se avessi aspettato un qualche segnale dal cielo prima di agire. Ho dovuto fidarmi di me, di nessun altro, quando si è trattato di prendere decisioni di vita o di morte. Qualche volta avrò potuto sbagliare, naturalmente.
Il Benefattore avvertiva, dall’espressione di Balaguer, che l’altro si stava domandando di cosa o di chi gli stesse parlando. Non gli disse che aveva in mente la faccia del dottorino Enrique Lithgow Ceara. Era stato il primo urologo che aveva consultato – consigliato da Cerebrito Cabral come un’eminenza – quando si era reso conto che faticava a orinare. All’inizio degli anni Cinquanta il dottor Marión, dopo averlo operato di un’affezione periuretrale, gli aveva garantito che non avrebbe mai piú avuto fastidi. Ma presto erano ricominciati i disagi con l’orina. Dopo molte analisi e una sgradevole ispezione rettale, il dottor Lithgow Ceara, assumendo una faccia da puttana o da sagrestano untuoso, e vomitando paroloni incomprensibili per demoralizzarlo («sclerosi uretrale perineale», «uretrografie», «prostatite acinosa»), formulò quella diagnosi che gli sarebbe costata cara:
– Deve raccomandarsi a Dio, Eccellenza. L’affezione alla prostata è cancerosa.
Il suo sesto senso gli aveva fatto capire che esagerava o mentiva. Se ne convinse quando l’urologo pretese di operarlo immediatamente. Troppi rischi se non fosse stata asportata la prostata, si sarebbe potuta produrre una metastasi, il bisturi e un trattamento chimico avrebbero prolungato la sua vita di qualche anno. Esagerava e mentiva, perché era un medico da due soldi o un nemico. Che voleva anticipare la morte del Padre della Patria Nuova, lo aveva capito fin troppo bene quando aveva fatto venire da Barcelona un luminare. Il dottor Antonio Puigvert negò che avesse un cancro; la crescita di quella maledetta ghiandola, che era dovuta all’età, si poteva alleviare con delle droghe e non minacciava la vita del Generalissimo. La prostatectomia sarebbe stata inutile. Trujillo diede quella mattina stessa l’ordine e l’assistente militare tenente José Oliva si occupò di far scomparire dal molo di Santo Domingo l’insolente Lithgow Ceara con il suo veleno e con la sua cattiva scienza. A proposito! Il Presidente burattino non aveva ancora firmato la promozione di Peña Rivera a capitano. Aveva fatto retrocedere dall’esistenza divina alla piú pedestre condizione di pagamento di servizi uno dei ruffianelli piú abili reclutati da Abbes García.
– Dimenticavo, – disse, facendo un gesto di fastidio con il capo. – Lei non ha firmato il dispositivo della promozione a capitano per meriti eccezionali del tenente Peña Rivera. È una settimana che le ho fatto avere la pratica, con il mio visto.
La faccina rotonda del Presidente Balaguer s’inacidí e la sua bocca si increspò; le manine si contrassero. Ma si riprese e assunse di nuovo il portamento sereno che gli era abituale.
– Non l’ho firmato perché ho creduto opportuno discutere questa promozione con lei, Eccellenza.
– Non c’è niente da discutere, – lo interruppe il Generalissimo, con asprezza. – Lei ha ricevuto istruzioni. Non erano chiare?
– Certo che lo erano, Eccellenza. La prego di ascoltarmi. Se le mie ragioni non la convincono, firmerò la promozione del tenente Peña Rivera senza indugi. L’ho qui, pronta per essere mandata avanti. Poiché è una questione delicata, mi è sembrato preferibile discuterne con lei personalmente.
Conosceva molto bene le ragioni che gli avrebbe esposto Balaguer e cominciava a irritarsi. Lo credeva, quell’essere insignificante, troppo vecchio o stanco, tanto da poter osare disobbedire a un suo ordine? Mascherò il proprio fastidio e lo stette a sentire, senza interromperlo. Balaguer faceva prodigi di retorica affinché le cose che diceva sembrassero, grazie alle morbide parole e all’educatissima tonalità, meno temerarie. Con tutto il rispetto del mondo si permetteva di consigliare a Sua Eccellenza di riconsiderare la decisione di promuovere, oltretutto per meriti eccezionali, una persona come il tenente Víctor Alicinio Peña Rivera. Aveva un curriculum cosí negativo, cosí macchiato di azioni riprovevoli – forse ingiustamente – che quella promozione sarebbe stata usata dai nemici, soprattutto negli Stati Uniti, come una ricompensa per la morte delle sorelle Minerva, Patria e María Teresa Mirabal. Anche se la giustizia aveva stabilito che le sorelle e il loro autista erano morti in un incidente automobilistico, all’estero veniva presentato come un assassinio politico, compiuto dal tenente Peña Rivera, capo del Sim a Santiago quando si era verificata la tragedia. Il Presidente si permetteva di ricordare il chiasso scatenato dagli avversari quando, per ordine di Sua Eccellenza, il 7 febbraio dello stesso anno aveva autorizzato, per decreto presidenziale, che venissero cedute al tenente Peña Rivera la finca di quattro ettari e la casa espropriate dallo Stato a Patria Mirabal e suo marito per attività sovversive. Lo scandalo non si era ancora placato. I comitati con sede negli Stati Uniti continuavano a rumoreggiare, presentando quella donazione di terre e della casa di Patria Mirabal al tenente Peña Rivera come il pagamento di un delitto. Il dottor Joaquín Balaguer esortava Sua Eccellenza a non dare un nuovo pretesto ai nemici per ripetere che incoraggiava assassini e torturatori. Anche se, senza dubbio, Sua Eccellenza lo ricordava, si permetteva di sottolineare, inoltre, che il luogotenente preferito del colonnello Abbes García non era collegato, nelle campagne calunniose degli esuli, soltanto alla morte delle Mirabal. Lo era anche all’incidente di Marrero Aristy e alle presunte scomparse. In simili circostanze, risultava un’imprudenza premiare il tenente in quel modo pubblico. Perché non in maniera discreta, con delle compensazioni economiche, o con un incarico diplomatico in un paese lontano?
Quando tacque, si strofinò di nuovo le mani. Batteva le palpebre, agitato, intuendo che la sua attenta argomentazione non sarebbe servita, e temendo una reprimenda. Trujillo trattenne la collera che gli ribolliva dentro.
– Lei, Presidente Balaguer, ha la fortuna di occuparsi soltanto di quello che la politica ha di meglio, – disse, glaciale. – Leggi, riforme, negoziati diplomatici, trasformazioni sociali. Cosí ha fatto per trentun anni. Le è toccato l’aspetto grato, piacevole, del governare. La invidio! Mi sarebbe piaciuto essere soltanto uno statista, un riformatore. Ma governare ha una faccia sporca, senza la quale ciò che lei fa sarebbe impossibile. E l’ordine? E la stabilità? E la sicurezza? Ho cercato di fare in modo che lei non si dovesse occupare di quelle cose sgradevoli. Ma non mi dica che non sa come si ottiene la pace. Con quanto sacrificio e con quanto sangue. Ringrazi che io le abbia consentito di guardare dall’altra parte, di dedicarsi a ciò che è buono, mentre io, Abbes, il tenente Peña Rivera e altri tenevamo tranquillo il paese, affinché lei potesse scrivere le sue poesie e i suoi discorsi. Sono certo che la sua acuta intelligenza mi capisce fin troppo bene.
Joaquín Balaguer annuí. Era pallido.
– Non parliamo piú di cose sgradevoli, – concluse il Generalissimo. – Firmi la promozione del tenente Peña Rivera, che sia pubblicata domani sulla «Gazzetta Ufficiale», e gli faccia pervenire congratulazioni scritte di suo pugno.
– Farò come dice, Eccellenza.
Trujillo si passò la mano sul viso, perché sentiva arrivare uno sbadiglio. Falso allarme. Quella notte, respirando attraverso le finestre aperte della Casa de Caoba la fragranza degli alberi e delle piante, e scorgendo una miriade di stelle nel cielo nero come il carbone, avrebbe accarezzato il corpo di una ragazza nuda, affettuosa, un po’ intimidita, con l’eleganza di Petronio, l’Arbitro, e avrebbe sentito nascere a poco a poco l’eccitazione tra le sue gambe, mentre sorbiva i tiepidi umori del suo sesso. Avrebbe avuto una lunga e solida erezione, come quelle di un tempo. Avrebbe fatto gemere e godere la ragazza e avrebbe goduto anche lui, e in questo modo avrebbe cancellato il cattivo ricordo di quello scheletrino insulso.
– Ho controllato la lista dei detenuti che il governo rimette in libertà, – disse, con un tono piú neutro. – Tranne quel professore di Montecristi, Humberto Meléndez, non ci sono obiezioni. Proceda. Riunisca le famiglie al Palacio Nacional, giovedí pomeriggio. È lí che incontreranno i detenuti liberati.
– Darò il via ai preparativi immediatamente, Eccellenza.
Il Generalissimo si alzò in piedi e fece cenno al Presidente burattino, che si accingeva a imitarlo, di rimanere seduto. Non se ne stava ancora andando. Voleva sgranchirsi le gambe. Fece qualche passo davanti alla scrivania.
– Questa nuova liberazione di prigionieri placherà gli yanquis? – monologò. – Ne dubito. Henry Dearborn continua a dar fiato alle cospirazioni. Ce n’è un’altra in cammino, secondo Abbes. Perfino Juan Tomás Díaz vi è coinvolto.
Il silenzio che sentí alle proprie spalle – lo sentí, come una presenza massiccia e invadente – lo sorprese. Si voltò di scatto per guardare il Presidente fantoccio: era lí, immobile, che lo osservava con la sua espressione beatifica. Non si tranquillizzò. Quelle intuizioni non gli avevano mai mentito. Era possibile che quel microscopico pezzo di umanità, che quel pigmeo sapesse qualcosa?
– Lei ha sentito di questa nuova cospirazione?
Lo vide dire di no, con energici movimenti del capo.
– Lo avrei riferito immediatamente al colonnello Abbes García, Eccellenza. Come ho sempre fatto quando arriva alle mie orecchie una qualunque voce sovversiva.
Fece altri due o tre passi, di fronte alla scrivania, senza dire una parola. No, se tra tutti gli uomini del regime ce n’era uno incapace di vedersi coinvolto in un complotto, quello era il circospetto Presidente. Sapeva che senza Trujillo non sarebbe esistito, che il Benefattore era la linfa che gli dava vita, che senza di lui sarebbe scomparso per sempre dalla politica.
Andò a fermarsi davanti a uno dei finestroni. In silenzio, osservò a lungo il mare. Le nuvole avevano coperto il sole e il grigiume del cielo e dell’aria aveva striature argentee; l’acqua blu scuro riverberava a tratti. Una barchetta attraversava la baia, diretta verso la foce del fiume Ozama; un peschereccio doveva aver finito il lavoro, e stava tornando all’attracco. Si lasciava dietro una scia di schiuma e, anche se a quella distanza non poteva vederli, indovinò i gabbiani che gridavano e svolazzavano senza sosta. Assaporò in anticipo, con allegria, la passeggiata di un’ora e mezza che avrebbe fatto, dopo aver salutato sua madre, per Máximo Gómez e per l’Avenida, respirando l’odore dell’aria salata, mosso dalle onde. Non dimenticare di tirare le orecchie al capo delle Forze Armate per quella tubatura rotta alla porta della Base Aerea. Pupo Román doveva metterci il naso dentro quella pozza putrida, cosí magari non avrebbe mai piú trovato uno spettacolo tanto schifoso alla porta di una guarnigione.
Uscí dallo studio del Presidente Joaquín Balaguer, senza salutare.