Capitolo diciottesimo

Quando uno degli assistenti militari fece entrare nello studio Luis Rodríguez, autista di Manuel Alfonso, il Generalissimo si alzò per riceverlo, cosa che non faceva nemmeno con i personaggi piú importanti.

– Come va l’ambasciatore? – gli domandò, ansioso.

– Normale, Capo, – l’autista adottò una faccia di circostanza e si toccò la gola. – Molti dolori, di nuovo. Questa mattina mi ha mandato a prendere il medico, per farsi fare un’iniezione.

Povero Manuel. Non era giusto, cazzo. Proprio lui che aveva dedicato la vita a prendersi cura del suo corpo, a essere bello, elegante, a opporsi a quella maledetta legge della Natura secondo cui ogni cosa deve imbruttire, lui finire punito cosí, in ciò che poteva umiliarlo di piú: quella faccia che ispirava vita, energia, salute. Sarebbe stato meglio se fosse rimasto morto sul tavolo operatorio. Quando lo aveva visto al ritorno a Ciudad Trujillo dopo l’operazione nella clinica Mayo, al Benefattore si riempirono gli occhi di lacrime. Che rottame era diventato. E si riusciva a capirlo a malapena, dopo che gli avevano asportato mezza lingua.

– Salutalo da parte mia, – il Generalissimo esaminò Luis Rodríguez; abito scuro, camicia bianca, cravatta blu, scarpe lucidate: il negro meglio vestito della Repubblica Dominicana. – Che notizie ci sono?

– Molto buone, Capo, – scintillavano gli occhi di Luis Rodríguez. – Ho trovato la ragazza, non ci sono stati problemi. Quando lei vuole.

– È sicuro che sia la stessa?

La grande faccia scura, con cicatrici e baffi, annuí diverse volte.

– Sicurissimo. Quella che le ha consegnato i fiori lunedí, a nome della Juventud Sancristobalense. Yolanda Esterel. Diciassette anni. Qui c’è la sua foto.

Era una fotografia da documento scolastico, ma Trujillo riconobbe gli occhioni languidi, la boccuccia dalle labbra carnose e i capelli sciolti che sfioravano le spalle. La ragazzetta aveva sfilato a capo delle scuole, portando una grande fotografia del Generalissimo, di fronte alla tribuna innalzata nel parco centrale di San Cristóbal, e poi era salita sul palco per consegnargli un mazzo di rose e ortensie avvolto nel cellofan. Ricordò il suo bel corpicino sodo, le forme sviluppate, i seni piccoli, liberi, sporgenti sotto la camicia, i fianchi decisi. Un brivido nei testicoli gli ravvivò l’animo.

– Portala alla Casa de Caoba, verso le dieci, – disse, reprimendo quella fantasticheria che gli faceva perdere tempo. – I miei piú cari saluti a Manuel. Che si curi.

– Sí, Capo, da parte sua. La porterò poco prima delle dieci.

Se ne andò tra gli inchini. Il Generalissimo chiamò, da uno dei sei telefoni della sua scrivania laccata, il personale di guardia nella Casa de Caoba, affinché Benita Sepúlveda sistemasse le stanze con odore di anice e tantissimi mazzi di fiori freschi. (Era una precauzione inutile, perché la governante, sapendo che lui poteva arrivare in qualunque momento, teneva sempre la Casa de Caoba in perfetto splendore, ma lui non tralasciava mai di avvisarla). Ordinò agli assistenti militari di tenere pronta la Chevrolet e di chiamare il suo autista, aiutante di campo e guardaspalle, Zacarías de la Cruz, perché quella sera, dopo la passeggiata, sarebbe andato a San Cristóbal.

La prospettiva lo entusiasmava. Non era forse la figlia di quella direttrice di scuola di San Cristóbal, che, dieci anni prima, gli aveva recitato una poesia di Salomé Ureña, durante un’altra visita ufficiale nella sua città natale, eccitandolo a tal punto con le sue ascelle depilate che mostrava mentre declamava, da fargli abbandonare il ricevimento d’onore appena iniziato per portarsi la sancristobalense nella Casa de Caoba? Terencia Esterel? Cosí si chiamava. Provò un’altra ondata di eccitazione immaginando che Yolanda era figlia o sorella minore di quella maestrina. Procedeva in fretta, attraversando i giardini tra il Palacio Nacional e l’Estancia Radhamés, e ascoltava appena le spiegazioni di un assistente della scorta: ripetute telefonate del segretario di Stato per le Forze Armate, generale Román Fernández, che si metteva ai suoi ordini, nel caso Sua Eccellenza avesse voluto vederlo prima della passeggiata. Ah, si era spaventato per la telefonata della mattina. Si sarebbe preso una paura ancora maggiore quando lo avrebbe coperto di improperi, mostrandogli la pozzanghera di acque putride.

Entrò come un ciclone nelle sue stanze dell’Estancia Radhamés. Lo aspettava l’uniforme verde oliva di ogni giorno, pronta sul letto. Sinforoso era un indovino. Non gli aveva detto che sarebbe andato a San Cristóbal, ma il vecchio gli aveva preparato i vestiti con cui andava sempre alla Hacienda Fundación. Perché si metteva quell’uniforme di ogni giorno per la Casa de Caoba? Non lo sapeva. Quella passione per i riti, per la ripetizione di gesti e azioni che praticava sin da giovane. I segni erano favorevoli: né le mutande né i pantaloni presentavano macchie di orina. Era svanita l’irritazione che gli aveva causato Balaguer, osando discutere la promozione del tenente Víctor Alicinio Peña Rivera. Si sentiva ottimista, ringiovanito con quel piacevole formicolio nei testicoli e con la prospettiva di prendere tra le braccia la figlia o la sorella di quella Terencia di cui conservava un cosí grato ricordo. Era vergine? Questa volta non avrebbe avuto la sgradevole esperienza che gli era capitata con lo scheletrino.

Lo rallegrava il poter trascorrere l’ora seguente a sentire l’odore dell’aria salmastra, a prendere il vento di mare e a vedere le onde infrangersi contro l’Avenida. La ginnastica lo avrebbe aiutato a cancellare il cattivo sapore di buona parte di quel pomeriggio, cosa che raramente gli accadeva: non era mai stato portato alle depressioni né a stupidaggini simili.

Mentre stava uscendo, una domestica gli disse che doña María voleva trasmettergli un messaggio del giovane Ramfis, che aveva telefonato da Parigi. «Piú tardi, piú tardi, non ho tempo». Una conversazione con quella vecchia noiosa gli avrebbe mandato a monte il buonumore.

Attraversò di nuovo i giardini dell’Estancia Radhamés a passo sostenuto, impaziente di trovarsi sulla riva del mare. Ma, prima, come tutti i giorni, passò dalla madre, in avenida Máximo Gómez. Sulla porta del grande edificio dal colore roseo di doña Julia, lo aspettava la ventina di persone che lo avrebbe accompagnato, privilegiati che, potendogli fare da scorta a ogni tramonto, erano invidiati e detestati da quanti non avevano un simile onore. Tra gli ufficiali e i civili ammassati nei giardini dell’Excelsa Matrona che si aprirono in due gruppi per lasciarlo passare, «Buonasera, Capo», «Buonasera, Eccellenza», riconobbe Navajita Espaillat, il generale José René Román – quale preoccupazione negli occhi di quel povero scemo! –, il colonnello Johnny Abbes García, il senatore Henry Chirinos, suo genero il colonnello León Estévez, il suo amico conterraneo Modesto Díaz, il senatore Jeremías Quintanilla che aveva appena sostituito Agustín Cabral alla Presidenza del Senato, il direttore de «El Caribe», don Panchito, e, smarrito tra di loro, il minuto Presidente Balaguer. Non diede la mano a nessuno. Salí al primo piano, dove all’ora del crepuscolo doña Julia si sedeva sulla sua sedia a dondolo. La vecchia era lí, sprofondata nella poltrona. Minuscola, una nanetta, guardava fisso il fuoco d’artificio del sole che si andava immergendo nell’orizzonte, aureolato da nuvole rossastre. Le signore e le domestiche che circondavano sua madre si scostarono. Lui si chinò, baciò le gote incartapecorite di doña Julia e le carezzò i capelli con tenerezza.

– Ti piace molto il tramonto, non è vero, vecchina mia?

Lei annuí, sorridendogli con i suoi occhietti infossati ma agili, e il piccolo uncino che era la sua mano gli sfiorò la guancia. Lo riconosceva? Doña Altagracia Julia Molina aveva novantasei anni e la sua memoria doveva essere un’acqua saponosa in cui si scioglievano i ricordi. Ma l’istinto doveva dirle che quell’uomo, che veniva puntualmente a trovarla ogni pomeriggio, era un essere amato. Era sempre stata buonissima quella figlia illegittima di haitiani emigrati a San Cristóbal, dei quali lei e il fratello avevano ereditato i tratti del volto, cosa per cui, sebbene le volesse molto bene, non aveva mai smesso di vergognarsi. Anche se, a volte, quando all’Ippodromo, al Country Club o al Teatro de Bellas Artes vedeva tutte le famiglie aristocratiche dominicane renderle omaggio, pensava burlandosi di loro: «Leccano il pavimento per una discendente di schiavi». Che colpa ne aveva l’Excelsa Matrona se nelle sue vene scorreva sangue negro? Doña Julia aveva vissuto soltanto per il marito, quell’ubriacone simpatico e donnaiolo, don José Trujillo Valdez, e per i figli, dimenticandosi di se stessa e mettendosi in ogni cosa all’ultimo posto. Lo aveva sempre meravigliato quella donnetta che non gli aveva mai chiesto soldi né vestiti né viaggi né beni. Mai, niente. Era stato lui a darle ogni cosa, a forza. Con la sua frugalità congenita, doña Julia avrebbe continuato a stare nella modesta casetta di San Cristóbal dove il Generalissimo era nato e aveva trascorso l’infanzia, o in uno di quei bohíos dei suoi antenati haitiani morti di fame. La sola cosa che gli chiedeva doña Julia era commiserazione per Petán, Negro, Pipí, Aníbal, quei fratelli maldestri e scostumati, ogni volta che commettevano qualche azionaccia, o per Angelita, Ramfis e Radhamés, che da bambini si andavano a rifugiare dalla nonna per sfuggire all’ira del padre. E, grazie a doña Julia, Trujillo li perdonava. Chissà se si era accorta che centinaia di strade, parchi e scuole della Repubblica erano intitolati a Julia Molina vedova Trujillo. Nonostante venisse adulata e festeggiata, continuava a essere la donna discreta, invisibile che Trujillo ricordava dall’infanzia.

A volte, rimaneva un bel po’ insieme alla madre, le raccontava le cose che erano successe durante il giorno, anche se forse lei non riusciva a sentirlo. Quel giorno si limitò a dirle qualche frase tenera e tornò sulla Máximo Gómez, impaziente di aspirare l’aroma del mare.

Non appena fu tornato sull’ampia Avenida – il grappolo di civili e ufficiali si divise di nuovo – cominciò a camminare. Scorgeva il mar Caribe otto isolati piú in là. Acceso dagli ori e dai fuochi del crepuscolo. Sentí un’altra ondata di soddisfazione. Camminava sulla destra, seguito dai cortigiani aperti a ventaglio e a gruppi che occupavano la strada e il marciapiede. A quell’ora veniva interrotto il traffico nella Máximo Gómez e nell’Avenida, anche se, per suo ordine, Johnny Abbes aveva reso quasi segreta la sorveglianza nelle strade laterali, perché il Generalissimo aveva finito per provare claustrofobia di fronte a quegli incroci affollati di guardie e caliés. Nessuno oltrepassava lo sbarramento di assistenti militari, a un metro dal Capo. Tutti aspettavano che lui indicasse chi poteva avvicinarglisi. Dopo un mezzo isolato, mentre aspirava il profumo dei giardini, si voltò, cercò la testa semicalva di Modesto Díaz e gli fece un cenno. Ci fu un po’ di confusione, perché il polputo senatore Chirinos, che si trovava accanto a Modesto Díaz, aveva creduto di essere l’unto e si era precipitato verso il Generalissimo. Fu intercettato e respinto nel mucchio. A Modesto Díaz, ormai bene in carne, quelle passeggiate, al ritmo di Trujillo, costavano un grande sforzo. Sudava copiosamente. Teneva un fazzoletto in mano e, di tanto in tanto, si asciugava la fronte, il collo e gli zigomi rigonfi.

– Buonasera, Capo.

– Dovresti metterti a dieta, – gli consigliò Trujillo. – Hai appena cinquant’anni e non ce la fai a muoverti. Impara da me, settanta primavere e sono in piena forma.

– Mia moglie me lo dice tutti i giorni, Capo. Mi prepara brodini di pollo e insalate. Ma non ho volontà, per questo. Posso rinunciare a tutto tranne che alla buona tavola.

La sua rotonda umanità riusciva a malapena a rimanergli al passo. Modesto aveva del fratello, il generale Juan Tomás Díaz, la stessa faccia larga dal naso schiacciato, labbra grosse e una pelle dalle inconfondibili reminiscenze razziali, ma era piú intelligente di lui e della maggior parte dei dominicani che Trujillo conosceva. Era stato presidente del Partido Dominicano, membro del Congresso e ministro; ma il Generalissimo non gli aveva consentito di rimanere nel governo troppo a lungo, proprio perché la sua lucidità nell’esporre, analizzare e risolvere un problema gli era sembrata pericolosa, capace di insuperbirlo e indurlo al tradimento.

– In quale cospirazione è coinvolto Juan Tomás? – gli buttò lí, voltandosi per guardarlo. – Dovrai pur essere al corrente delle gesta del tuo fratello e genero, immagino.

Modesto sorrise, come se si stesse divertendo a uno scherzo:

– Juan Tomás? Tra le sue fincas e i suoi affari, il whisky e le proiezioni dei film nel giardino di casa sua, dubito che gli rimanga un momento libero per cospirare.

– Sta cospirando con Henry Dearborn, il diplomatico yanqui, – affermò Trujillo, come se non lo avesse sentito. – Che la smetta con queste stronzate, perché già gli è andata male una volta e adesso gli può andare peggio.

– Mio fratello non è cosí scemo da cospirare contro di lei, Capo. Ma comunque glielo dirò.

Com’era piacevole: la brezza marina gli ventilava i polmoni, e sentiva il rumore delle onde che s’infrangevano contro le rocce e il muro di cemento dell’Avenida. Modesto Díaz fece per allontanarsi, ma il Benefattore lo trattenne:

– Aspetta, non ho finito. O non ce la fai piú?

– Per lei, sono pronto a rischiare l’infarto.

Trujillo lo premiò con un sorriso. Aveva sempre provato simpatia per Modesto, che, oltre a essere intelligente, era equilibrato, giusto, gentile, senza doppiezze. Tuttavia, la sua intelligenza non era controllabile e sfruttabile, come quella di Cerebrito, del Costituzionalista Sbronzo o di Balaguer. Quella di Modesto aveva aspetti affilati e indipendenti a tal punto che potevano diventare sediziosi se acquistava troppo potere. Anche lui e Juan Tomás erano di San Cristóbal, li aveva frequentati quand’erano giovani e, oltre ad aver affidato loro degli incarichi, aveva usato Modesto in innumerevoli occasioni quale consigliere. Lo aveva sottoposto a prove severissime, dalle quali era uscito vittorioso. La prima, alla fine degli anni Quaranta, dopo aver visitato la Feria Ganadera dei tori di razza e delle vacche da latte che Modesto Díaz aveva organizzato a Villa Mella. Bella sorpresa: la finca, non molto grande, era ben tenuta, moderna e florida come l’Hacienda Fundación. Piú delle impeccabili stalle e delle maestose vacche da latte, ferí la sua suscettibilità l’arroganza con cui Modesto mostrava l’allevamento a lui e agli altri invitati. L’indomani gli mandò l’Inmundicia Viviente con un assegno di diecimila pesos per formalizzare la compravendita. Senza la minima esitazione di fronte al fatto di dover vendere quella creatura dei suoi occhi a un prezzo ridicolo (costava di piú una sola delle sue vacche), Modesto firmò il contratto e mandò un biglietto scritto di suo pugno a Trujillo ringraziandolo perché «Sua Eccellenza ha considerato la mia piccola azienda agricola degna di essere sfruttata dalla sua sperimentata abilità». Dopo aver valutato se in quelle righe vi era un’ironia da punire, il Benefattore decise di no. Cinque anni dopo, Modesto Díaz aveva un’altra vasta e bella finca impegnata nell’allevamento, in una zona appartata de La Estrella. Pensava forse che cosí distante sarebbe passata inavvertita? Morto dal ridere, Trujillo gli mandò Cerebrito Cabral con un altro assegno di diecimila pesos, dicendogli che aveva tale fiducia nel suo talento di agricoltore-allevatore da comprargli la sua finca alla cieca, senza averla visitata. Modesto firmò il passaggio di proprietà, intascò la cifra simbolica, e ringraziò il Generalissimo con un altro biglietto affettuoso. Per premiare la sua docilità, qualche tempo dopo Trujillo gli regalò la concessione esclusiva per importare lavatrici e frullatori, con cui il fratello del generale Juan Tomás Díaz fu risarcito di quelle perdite.

– Il casino con quei preti fottuti, – borbottò Trujillo. – Ha una soluzione o non ce l’ha?

– Certo che ce l’ha, Capo, – Modesto aveva la lingua di fuori; oltre alla fronte e al collo, gli sudava il cranio calvo. – Ma, se mi consente, i problemi con la Chiesa non contano. Si sistemeranno soltanto se si risolve quello principale: i gringos. Da loro dipende tutto.

– Allora, non c’è soluzione. Kennedy vuole la mia testa. Poiché non ho intenzione di dargliela, ci sarà guerra per un bel po’.

– Quello che i gringos temono non è lei, ma Castro, Capo. Soprattutto, dopo il fallimento alla Baia dei Porci. Adesso, piú che mai, li spaventa l’idea che il comunismo possa propagarsi per l’America Latina. È il momento di mostrare loro che la migliore difesa contro i rossi nella regione è lei, non Betancourt né Figueres.

– Hanno avuto il tempo di rendersene conto, Modesto.

– Bisogna aprire loro gli occhi, Capo. I gringos sono lenti a volte. Attaccare Betancourt, Figueres, Muñoz Marín, non è sufficiente. Sarebbe piú efficace aiutare, con discrezione, comunisti venezuelani e costaricani. E gli indipendentisti portoricani. Quando Kennedy vedrà che le guerriglie cominciano a sconvolgere quei paesi, e li confronterà con la calma tranquilla di qui, allora capirà.

– Ne riparleremo, – lo interruppe il Generalissimo, in modo brusco.

Sentirlo discutere di quelle cose gli fece un cattivo effetto. Basta con i pensieri oscuri. Voleva mantenere la buona disposizione d’animo con cui aveva cominciato la passeggiata. S’impose di pensare alla ragazzetta del ritratto e dei fiori. «Mio Dio, fammi la grazia. Ho bisogno di fottermela come si deve, questa notte, Yolanda Esterel. Per sapere che non sono morto. Che non sono vecchio. Che posso continuare a sostituirti nel compito di portare avanti questo indemoniato paese di coglioni. Non me ne importa niente dei preti, dei gringos, dei cospiratori, degli esuli. Io sono sufficiente per spazzare via tutta questa merda. Ma per scoparmi quella ragazza ho bisogno del tuo aiuto. Non essere meschino, non essere avaro. Dammela, dammela». Sospirò con lo sgradevole sospetto che colui il quale stava implorando, se esisteva, doveva divertirsi a osservarlo da quello sfondo blu scuro da cui spuntavano le prime stelle.

La camminata per la Máximo Gómez ribolliva di reminiscenze. Le case che lasciava dietro di sé erano simboli di personaggi e di episodi rilevanti dei suoi trentuno anni al potere. Quella di Ramfis, sull’area in cui c’era quella di Anselmo Paulino, suo braccio destro per dieci anni fino al 1955, quando gli aveva confiscato tutte le proprietà e, dopo averlo tenuto per un certo tempo in carcere, lo aveva spedito in Svizzera con un assegno di sette milioni di dollari per i servizi prestati. Di fronte a quella di Angelita e Pechito León Estévez c’era, prima, quella del generale Ludovino Fernández, animale da fatica che aveva versato tanto sangue per il regime e che si era visto costretto ad ammazzare perché era stato preso da velleità politiche. Vicino all’Estancia Radhamés c’erano i giardini dell’ambasciata degli Stati Uniti, per oltre venticinque anni una casa amica, che era diventata un nido di vipere. Lí c’era il campo da baseball che aveva fatto costruire perché Ramfis e Radhamés si divertissero giocando a pallone. Lí, come sorelle gemelle, la casa di Balaguer e la nunziatura, un’altra che era diventata torva, ingrata e vile. Piú in là, l’imponente dimora del generale Espaillat, suo vecchio capo dei servizi segreti. Di fronte, scendendo, quella del generale Rodríguez Méndez, compagno di baldorie di Ramfis. Poi, le ambasciate, adesso deserte, di Argentina e Messico, e la casa di suo fratello Negro. E, infine, la residenza dei Vicini, milionari coltivatori di canna da zucchero, con il vasto prato e le curate aiuole di fiori, che stava costeggiando in quel momento.

Non appena attraversò la larga Avenida per imboccare il marciapiede del Malecón che dava sul mare, in direzione dell’obelisco, sentí il ribollire della schiuma. Si fermò sull’orlo del marciapiede e, a occhi chiusi, ascoltò le grida e il batter d’ali degli stormi di gabbiani. La brezza invase i suoi polmoni. Un bagno purificatore, che gli restituiva la forza. Ma non doveva distrarsi; aveva ancora del lavoro da sbrigare.

– Chiami Johnny Abbes.

Staccatasi dal grappolo di civili e militari – il Generalissimo camminava a passo vivace, verso quella stele di cemento costruita a imitazione dell’obelisco di Washington –, l’inelegante figura molliccia del capo del Sim andò a disporsi accanto a lui. Malgrado la sua obesità, Johnny Abbes lo seguiva senza affanno.

– Che cosa succede con Juan Tomás? – gli domandò, senza guardarlo.

– Nulla di importante, Eccellenza, – rispose il capo del Sim. – Oggi è andato nella sua finca di Moca, con Antonio de la Maza. Si sono portati un vitellino. C’è stata una lite domestica, tra il generale e la moglie Chana, perché lei diceva che tagliare e preparare il vitellino richiede molto lavoro.

– Balaguer e Juan Tomás si sono visti in questi giorni? – lo interruppe Trujillo.

Poiché Abbes García tardava a rispondere, si voltò a guardarlo. Il colonnello fece cenno di no con la testa.

– No, Eccellenza. Che io sappia, non si vedono da diverso tempo. Come mai me lo domanda?

– Niente di preciso, – strinse le spalle il Generalissimo. – Ma, poco fa, parlando, quando gli ho citato la cospirazione di Juan Tomás, ho notato qualcosa di strano. Ho sentito qualcosa di strano. Non so che cosa, qualcosa. Niente nei suoi rapporti che autorizzi a sospettare del Presidente?

– Niente, Eccellenza. Lei sa che lo tengo sotto controllo ventiquattr’ore al giorno. Non muove un passo, non riceve nessuno, non fa una telefonata senza che noi non lo sappiamo.

Trujillo annuí. Non c’era motivo di diffidare del Presidente burattino: il suo presentimento poteva essere sbagliato. Quella cospirazione non sembrava seria. Antonio de la Maza, uno dei cospiratori? Un altro incazzato che si consolava della propria frustrazione a furia di whisky e di mangiate. Avrebbero fatto fuori un vitellino nato prematuro e condito con il chilindrón1, quella sera. E se si fosse presentato a casa di Juan Tomás, in Gazcue? «Buonasera, signori. Vi dispiace dividere l’arrosto con me? Ha un tale profumo! L’aroma è arrivato fino al Palacio e mi ha guidato fin qui». Avrebbero fatto delle facce terrorizzate o allegre? Avrebbero pensato che la visita inattesa segnava la loro riabilitazione? No, quella notte, a San Cristóbal, per far gridare Yolanda Esterel, per sentirsi domani sano e giovane.

– Perché due settimane fa ha lasciato partire per gli Stati Uniti la figlia di Cabral?

Questa volta colse di sorpresa il colonnello Abbes García. Lo vide che si passava la mano sulle guance rigonfie, senza sapere che cosa rispondere.

– La figlia del senatore Agustín Cabral? – bisbigliò, per prendere tempo.

– Uranita Cabral, la figlia di Cerebrito. Le suore del Santo Domingo le hanno dato una borsa di studio negli Stati Uniti. Perché l’ha lasciata uscire dal paese senza consultarmi?

Gli sembrò che il colonnello si stesse sgonfiando. Apriva e chiudeva la bocca, cercando qualcosa da dire.

– Mi dispiace, Eccellenza, – esclamò, chinando il capo. – Le sue istruzioni erano di seguire il senatore e di arrestarlo se avesse cercato di chiedere asilo. Non mi è venuto in mente che la ragazza, essendo stata qualche notte prima nella Casa de Caoba e con un permesso firmato dal Presidente Balaguer… A dire il vero, non mi è nemmeno venuto in mente di parlargliene, non credevo avesse importanza.

– Queste cose le devono venire in mente, – lo rimproverò Trujillo. – Voglio che indaghi sul personale della mia segreteria. Qualcuno mi ha nascosto un promemoria di Balaguer sul viaggio di quella ragazza. Voglio sapere chi è stato e perché.

– Immediatamente, Eccellenza. La prego di perdonare questa trascuratezza. Non si ripeterà.

– È quello che spero, – lo congedò Trujillo.

Il colonnello gli fece il saluto militare (veniva voglia di ridere, a vederlo) e tornò tra i cortigiani. Camminò un paio di isolati senza chiamare nessuno, riflettendo. Abbes García aveva seguito soltanto in parte le sue indicazioni di togliere di mezzo guardie e caliés. Non vedeva agli incroci le barriere di filo spinato e le transenne, né le piccole Volkswagen, né poliziotti in uniforme e con i mitra. Ma, di tanto in tanto, alle imboccature dell’Avenida, scorgeva in lontananza un cepillo nero con le teste dei caliés ai finestrini, o civili dall’aspetto ruffianesco, appoggiati ai lampioni, con le ascelle rigonfie a causa delle pistole. Non era stato interrotto il traffico lungo l’avenida George Washington. Dai camion e dalle automobili si sporgevano persone che lo salutavano: «Viva il Capo!» Immerso nello sforzo della camminata, che aveva dato al suo corpo un delizioso calore e una certa stanchezza nelle gambe, ringraziava con la mano. Non c’erano passanti adulti per l’Avenida, soltanto bambini cenciosi, lustrascarpe e venditori di cioccolata e di sigarette che lo guardavano a bocca aperta. Passando, faceva loro una carezza o gettava qualche moneta (portava sempre molti spiccioli nelle tasche). Poco dopo, chiamò l’Inmundicia Viviente.

Il senatore Chirinos si avvicinò ansimando come un cane da caccia. Sudava piú di Modesto Díaz. Si sentí rinfrancato. Il Costituzionalista Sbronzo era piú giovane di lui e una piccola camminata lo faceva a pezzi. Anziché rispondere al suo «Buonasera, Capo», gli domandò:

– Hai chiamato Ramfis? Ha chiarito la faccenda con i Lloyd’s di Londra?

– Ho parlato con lui due volte, – il senatore Chirinos trascinava molto i piedi, e le suole e le punte delle sue scarpe deformate urtavano contro le piastrelle sollevate dalle radici delle palme canas e dei mandorli. – Gli ho spiegato il problema, gli ho ripetuto i suoi ordini. Insomma, può immaginare. Ma alla fine ha accettato i miei argomenti. Mi ha promesso di mandare la lettera ai Lloyd’s, per chiarire il malinteso e confermare che la somma deve essere trasferita alla Banca Centrale.

– Lo ha fatto? – lo interruppe Trujillo, bruscamente.

– Per questo l’ho chiamato la seconda volta, Capo. Vuole che un traduttore riveda il suo telegramma, perché il suo inglese è imperfetto e potrebbe arrivare ai Lloyd’s con degli errori. Lo spedirà senza dubbio. Mi ha detto che gli dispiace quello che è successo.

Lo credeva ormai troppo vecchio per obbedirgli, Ramfis? Prima, non avrebbe tardato a eseguire un suo ordine con un pretesto cosí futile.

– Chiamalo di nuovo, – ordinò, in malo modo. – Se non sistema oggi stesso questo imbroglio con i Lloyd’s, dovrà vedersela con me.

– Subito, Capo. Ma non si preoccupi. Ramfis ha capito la situazione.

Congedò Chirinos e si rassegnò a interrompere quella sua passeggiata solitaria, per non defraudare gli altri, che ambivano di scambiare qualche parola con lui. Aspettò la piccola coda umana e si immerse in essa, mettendosi tra Virgilio Álvarez Pina e il segretario di Stato per l’Interno e per i Culti, Paíno Pichardo. Nel gruppo c’erano anche Navajita Espaillat, il capo della Polizia, il direttore de «El Caribe» e il neo-nominato presidente del Senato, Jeremías Quintanilla, con il quale si congratulò augurandogli successo. Il promosso risplendeva di gioia, e si prodigava in ringraziamenti. Allo stesso passo veloce, avanzando sempre verso est sulla parte vicina al mare, chiese, a voce alta:

– Avanti, signori, raccontatemi le ultime barzellette antitrujilliste.

Un’onda di risate sottolineò la sua trovata e, pochi momenti dopo, tutti parlottavano come pappagalli. Fingendo di ascoltarli, annuiva, sorrideva. A tratti, spiava il preoccupato generale José René Román. Il segretario di Stato per le Forze Armate non poteva nascondere la propria angoscia: che cosa gli doveva rimproverare il Capo? Presto lo saprai, cretino. Passando da un gruppo all’altro, affinché nessuno si sentisse trascurato, traversò i curati giardini dell’Hotel Jaragua, da dove giunse al suo orecchio il suono dell’orchestra che allietava l’ora dell’aperitivo, e, un isolato dopo, passò sotto i balconi del Partido Dominicano. Funzionari, impiegati e le persone che erano andate a chiedere elargizioni, uscirono per applaudirlo. Arrivato all’obelisco, guardò l’orologio: un’ora e tre minuti. Cominciava a fare scuro. Ormai i gabbiani non svolazzavano piú; si erano ritirati nei loro nascondigli lungo la spiaggia. Risplendevano alcune stelle, ma delle nuvole panciute coprivano la luna. Ai piedi dell’obelisco lo aspettava la Cadillac ultimo modello inaugurata la settimana precedente. Si accomiatò con un saluto collettivo («Buonasera, signori, grazie per la compagnia»), mentre, senza guardarlo, con gesto imperioso, indicava al generale José René Román la portiera dell’auto che l’autista in uniforme gli teneva aperta:

– Tu, vieni con me.

Il generale Román – energico sbattere di tacchi, mano alla visiera del chepí – si affrettò a obbedirgli. Entrò nell’auto e si sedette tutto di lato, con il berretto sulle ginocchia, stando ben dritto.

– A San Isidro, alla Base.

Mentre la macchina ufficiale procedeva verso il centro, per traversare la sponda orientale dell’Ozama sul Puente Radhamés, si mise a osservare il paesaggio, come se fosse stato da solo. Il generale Román non osava rivolgergli la parola, aspettandosi la sfuriata. Questa cominciò ad annunciarsi quando avevano ormai percorso circa tre miglia delle dieci che separavano l’obelisco dalla Base Aerea.

– Quanti anni hai? – gli domandò, senza voltarsi a guardarlo.

– Ne ho appena compiuti cinquantasei, Capo.

Román – tutti lo chiamavano Pupo – era un uomo alto, forte e atletico, con i capelli tagliati quasi a zero. Grazie allo sport manteneva il fisico in forma eccellente, senza un accenno di grasso. Gli rispondeva con poca voce, umilmente, cercando di rasserenarlo.

– Quanti nell’Esercito? – proseguí Trujillo, guardando fuori, come se interrogasse una persona assente.

– Trentuno, Capo, da dopo la laurea.

Lasciò passare alcuni secondi senza dire niente. Alla fine, si voltò verso il capo delle Forze Armate, con l’infinito disprezzo che gli aveva sempre ispirato. Nell’ombra, che era andata aumentando rapidamente, non riusciva a vedere i suoi occhi, ma era certo che Pupo Román stesse battendo le palpebre, o le tenesse socchiuse, come i bambini quando si svegliano di notte e scrutano impauriti il buio.

– E in tanti anni non hai imparato che il superiore risponde per i subordinati? Che è responsabile dei loro errori?

– Lo so molto bene, Capo. Se mi dice di che cosa si tratta, forse potrò darle una spiegazione.

– Vedrai di che cosa si tratta, – disse Trujillo, con quella calma apparente che i suoi collaboratori temevano piú delle sue urla. – Tu ti fai il bagno e ti insaponi tutti i giorni?

– Naturalmente, Capo, – il generale Román abbozzò una risatina, ma, poiché il Generalissimo rimaneva serio, si trattenne.

– È quello che spero, per Mireya. Mi sembra giusto che tu ti faccia il bagno e ti insaponi tutti i giorni, che porti una divisa ben stirata e scarpe lucidate. Come capo delle Forze Armate è tuo compito dare esempio di cura e di buona presenza agli ufficiali e ai soldati dominicani. Non è cosí?

– Certamente, Capo, – si umiliò il generale. – La supplico di dirmi in che cosa ho mancato. Per rettificare, per correggermi. Non la voglio deludere.

– L’apparenza è lo specchio dell’anima, – filosofeggiò Trujillo. – Se qualcuno va in giro puzzolente e con il moccio che gli scende, non è una persona cui si possa affidare l’igiene pubblica. Non lo credi?

– Certo che no, Capo.

– Altrettanto succede con le istituzioni. Quale considerazione si può avere nei loro confronti se neppure si prendono cura del loro aspetto?

Il generale Román preferí rimanere in silenzio. Il Generalissimo si andava infervorando e non smise di incalzarlo durante i quindici minuti che furono necessari per arrivare alla Base Aerea di San Isidro. Ricordò a Pupo quanto gli era dispiaciuto sapere che la figlia di sua sorella Marina era tanto pazza da sposare un ufficiale mediocre come lui, che continuava a essere tale, sebbene, grazie alla parentela acquisita con il Benefattore, avesse proseguito nella carriera arrivando fino al vertice della gerarchia. Quei privilegi, anziché stimolarlo, avevano fatto sí che si addormentasse sugli allori, deludendo mille e una volta la fiducia di Trujillo. Non contento di essere la nullità che era come militare, si era messo a fare l’allevatore, come se per il bestiame e per amministrare terre e latterie non ci fosse bisogno d’intelligenza. Qual era stato il risultato? Si era riempito di debiti, una vergogna per la famiglia. Erano passati appena diciotto giorni da quando lui in persona aveva pagato di tasca sua il debito di quattrocentomila pesos contratto da Román con il Banco Agrícola, per evitare che gli sequestrassero la finca al quattordicesimo chilometro dell’autostrada Duarte. E, nonostante questo, non faceva il minimo sforzo per smettere di essere cosí stupido.

Il generale José René Román Fernández rimaneva muto e immobile mentre rimproveri e insulti cadevano su di lui. Trujillo non si affrettava; la collera lo portava a scandire con attenzione, come se, in questo modo, ogni sillaba, ogni lettera, fosse piú bellicosa. L’autista guidava veloce, senza spostarsi di un millimetro dal centro della strada deserta.

– Ferma, – ordinò Trujillo, a poca distanza dal primo posto di guardia della vasta e ben protetta Base Aerea di San Isidro.

Scese con un salto, e, sebbene fosse buio, individuò immediatamente la grande pozzanghera di acque putride. Il liquame continuava a riversarsi fuori dalla tubatura rotta e, oltre al fango e al fetore, aveva costellato l’aria di zanzare che si precipitarono ad assalirli.

– La prima guarnigione militare della Repubblica, – disse Trujillo, lentamente, trattenendo a stento la nuova ondata di rabbia. – Ti sembra corretto che, all’entrata della Base Aerea piú importante del Caribe, ci sia a ricevere il visitatore questa merda di porcherie, fango, cattivi odori e bestiacce?

Román si mise in ginocchio. Esaminava, si rialzava, si chinava di nuovo, non esitò a sporcarsi le mani palpando il tubo di scarico alla ricerca del buco. Sembrava sollevato dopo aver scoperto la causa dell’arrabbiatura del Capo. Quell’imbecille temeva qualcosa di piú grave?

– È una vergogna, non c’è dubbio, – cercava di mostrare piú indignazione di quanta non ne provasse. – Prenderò tutti i provvedimenti perché il danno sia riparato immediatamente, Eccellenza. Punirò i responsabili, dal primo all’ultimo.

– A cominciare da Virgilio García Trujillo, il capo della Base, – ruggí il Benefattore. – Tu sei il primo responsabile, e lui il secondo. Spero che tu abbia il coraggio di comminargli la massima sanzione, anche se è mio nipote e tuo cognato. Se non lo avrai, sarò io ad applicare a voi due la punizione che vi spetta. Né tu né Virgilio né nessun generale di paccottiglia potrà distruggere la mia opera. Le Forze Armate continueranno a essere l’istituzione modello in cui le ho trasformate, anche se dovrò spedire te, Virgilio e tutti gli incapaci in divisa, in una galera per il resto dei vostri giorni.

Il generale Román si mise sull’attenti e fece scattare i tacchi.

– Sí, Eccellenza. Non si ripeterà mai piú. Glielo giuro.

Ma Trujillo si era già girato per salire sull’automobile.

– Povero te se rimane una sola traccia di quello che sto vedendo e annusando, la prossima volta che passo di qua. Soldatino di merda!

Rivolgendosi all’autista, ordinò: «Andiamo». Partirono, abbandonando il ministro delle Forze Armate in quel pantano.

Non appena si fu abbandonato alle spalle Román, patetica figura che sguazzava nel fango, gli svaní il malumore. Si lasciò andare a una breve risata. Di una cosa era certo: Pupo avrebbe smosso cielo e terra e avrebbe tirato i moccoli necessari a che il guasto venisse riparato. Se questo succedeva finché lui era vivo, che cosa non si sarebbe verificato quando non avesse piú potuto impedire personalmente che la pigrizia, l’inerzia e l’imbecillità facessero crollare ciò che gli era costato tanto sforzo mettere in piedi? Sarebbero tornate l’anarchia e la miseria, l’arretratezza e l’isolamento del 1930? Ah, se Ramfis, il figlio tanto desiderato, fosse stato capace di proseguire la sua opera. Ma non provava il minimo interesse per la politica né per il paese; soltanto il bere, il polo e le donne lo interessavano. Cazzo! Il generale Ramfis Trujillo, capo di Stato Maggiore delle Forze Armate della Repubblica Dominicana, pensava a giocare a polo e a scoparsi le ballerine del Lido di Parigi, mentre suo padre si batteva qui da solo, contro la Chiesa, gli Stati Uniti, i cospiratori e gli incapaci come Pupo Román. Scosse il capo, cercando di togliersi di dosso quei pensieri amari. Tra un’ora e mezza sarebbe stato a San Cristóbal, nel tranquillo nido della Hacienda Fundación, circondato di campi e stalle risplendenti, con i suoi begli albereti, il largo fiume Nigua il cui lento fluire lungo la valle avrebbe osservato attraverso le chiome dei caobos, delle palme reali e del grande albero di anacahuita2 della casa sulla collina. Gli avrebbe fatto bene svegliarsi lí l’indomani, accarezzando, mentre osservava quel panorama quieto e limpido, il corpicino di Yolanda Esterel. La ricetta di Petronio e di re Salomone: una fichetta fresca per ridare la giovinezza a un veterano di settanta primavere.

Nella Estancia Radhamés, Zacarías de la Cruz aveva già tirato fuori dal garage la Chevrolet Bel Air 1957, di colore azzurro chiaro, a quattro porte, con cui andava sempre a San Cristóbal. Un assistente militare lo aspettava con la valigetta contenente i documenti che avrebbe esaminato l’indomani nella Casa de Caoba e centodiecimila pesos in banconote, per gli stipendi del personale dell’hacienda, e per eventuali imprevisti. Erano vent’anni che non affrontava uno spostamento, seppure di poche ore, senza quella valigetta di colore marrone con le sue iniziali incise, e qualche migliaio di dollari o di pesos in contanti, per regali e spese impreviste. Indicò all’assistente di mettere la valigetta sul sedile anteriore e disse a Zacarías, l’uomo scuro di pelle, alto e robusto che lo accompagnava da tre decenni – era stato suo attendente nell’Esercito –, che sarebbe sceso subito. Erano già le nove. S’era fatto tardi.

Salí nelle sue stanze per sistemarsi e, nel bagno, non appena entrato, si accorse della macchia. Dalla patta al cavallo dei pantaloni. Sentí che tremava da capo a piedi: proprio adesso, cazzo. Chiese a Sinforoso un’altra uniforme verde oliva e un altro cambio di biancheria. Perse quindici minuti tra il bidè e il lavandino, a insaponarsi i testicoli, il fallo, la faccia e le ascelle, e dandosi creme e profumi prima di rivestirsi. La colpa era di quell’attacco di malumore, a causa di quel coglione di Pupo. Cadde di nuovo in uno stato d’animo lugubre. Gli sembrò un segnale di malaugurio per San Cristóbal. Mentre si stava vestendo, Sinforoso gli porse il telegramma: «Affare Lloyd’s risolto. Parlato con persona responsabile. Accredito direttamente alla Banca Centrale. Affettuosi saluti Ramfis». Il figlio si vergognava: per questo, anziché telefonare, gli mandava un telegramma.

– Si è fatto un po’ tardi, Zacarías, – disse. – Perciò affrettati.

– D’accordo, Capo.

Sistemò dietro le sue spalle i cuscini del sedile e socchiuse gli occhi, accingendosi a riposare per quell’ora e dieci minuti che sarebbe durato il viaggio fino a San Cristóbal. Procedevano in direzione sud-ovest, verso l’avenida George Washington e l’autostrada, quando aprí gli occhi.

– Ti ricordi la casa di Moni, Zacarías?

– Dalle parti di Wenceslao Álvarez, dove abitava Marrero Aristy?

– Andiamo lí.

Era stata un’illuminazione, una fiammata. All’improvviso, vide la faccia pienotta color cannella di Moni, i suoi capelli ricci, la malizia dei suoi occhi a mandorla, pieni di stelle, le sue forme sostanziose, i seni alti, il suo sedere dalle natiche sode, i fianchi voluttuosi, e sentí ancora una volta il delizioso formicolio nei testicoli. La punta del pene, risvegliandosi, spingeva contro i pantaloni. Moni. Perché no. Era una ragazza bella e affettuosa, che non lo aveva mai lasciato insoddisfatto, da quella volta in cui, a Quinigua, suo padre in persona gliel’aveva portata alla festa che davano per lui gli americani de La Yuquera: «Guardi che sorpresa le ho portato, Capo». La casetta dove abitava, in quel nuovo quartiere, alla fine di avenida México, gliel’aveva regalata lui, il giorno del matrimonio con un ragazzo di buona famiglia. Quando ne aveva voglia, molto di rado, la portava in una delle suites negli alberghi El Embajador o El Jaragua che Manuel Alfonso predisponeva per queste occasioni. L’idea di farsi Moni nella sua casa lo eccitò. Avrebbero mandato il marito a bere una birra al Rincón Pony, a spese di Trujillo – rise –, o avrebbe ingannato il tempo chiacchierando con Zacarías de la Cruz.

La strada era buia e deserta, ma in casa c’era luce al primo piano. «Chiamala». Vide l’autista traversare il cancello d’ingresso e suonare il campanello. Ci misero un po’ ad aprire. Alla fine, uscí una domestica, con la quale Zacarías parlottò. Lo lasciarono sulla porta, ad aspettare. La bella Moni! Il padre era un buon dirigente del Partido Dominicano nel Cibao e gliel’aveva portata lui stesso a quel ricevimento, un gesto simpatico. Era passato qualche anno da allora e, a dire il vero, tutte le volte che aveva scopato quella bella donna era rimasto molto contento. La porta si aprí di nuovo e, nel chiarore dell’interno, vide la figura di Moni. Ebbe un’altra vampata di eccitazione. Dopo aver parlato un momento con Zacarías, avanzò verso l’automobile. Nella penombra, non riuscí a vedere com’era vestita. Aprí la portiera per farla entrare e l’accolse baciandole la mano:

– Non ti aspettavi questa visita, bellezza.

– Ma che onore. Come sta, come sta, Capo.

Trujillo le tratteneva la mano tra le sue. Ad averla cosí vicina, a sfiorarla, ad annusarne l’odore, si sentí padrone di tutte le sue forze.

– Stavo andando a San Cristóbal ma a un tratto mi sono ricordato di te.

– Quale onore, Capo, – ripeté lei, totalmente confusa. – Se avessi saputo, mi sarei preparata per riceverla.

– Tu sei sempre bella, in qualunque modo, – l’attrasse a sé e, mentre le mani le carezzavano i seni e le cosce, la baciò. Sentí un principio di erezione che lo riconciliò con il mondo e con la vita. Moni si lasciava carezzare e lo baciava, smarrita. Zacarías era rimasto fuori, a un paio di metri dalla Chevrolet e, cauto come sempre, aveva in mano il fucile mitragliatore. Ma che cosa c’era? Moni mostrava un nervosismo inconsueto.

– Tuo marito è in casa?

– Sí, – rispose lei, sottovoce. – Stavamo per metterci a tavola.

– Che si vada a bere una birra, – disse Trujillo. – Farò un giro dell’isolato. Torno tra cinque minuti.

– Il fatto è che… – balbettò lei, e il Generalissimo la sentí irrigidirsi. Esitò e, alla fine, mormorò, in modo quasi impercettibile: – Ho le cose, Capo.

Tutta l’eccitazione gli scomparve, in pochi secondi.

– Il mestruo? – esclamò, deluso.

– Mi perdoni, Capo, – balbettò lei. – Dopodomani starò bene.

La lasciò andare e respirò a fondo, afflitto.

– D’accordo, verrò a trovarti un’altra volta. Sta’ bene, – tirò fuori la testa dal vano della portiera da cui Moni era appena uscita. – Andiamo, Zacarías!

Poco dopo, domandò a de la Cruz se qualche volta aveva scopato una donna con le mestruazioni.

– Mai, Capo, – si scandalizzò lui, facendo un gesto di schifo. – Dicono che cosí si contagia la sifilide.

– E soprattutto è sporco, – si lamentò Trujillo. E se Yolanda Esterel, per una maledetta coincidenza, avesse avuto anche lei le sue cose proprio oggi?

Avevano imboccato la strada per San Cristóbal, e, sulla destra, vide le luci della Feria Ganadera e de El Pony pieno di coppie che mangiavano e bevevano. Non era strano che Moni si fosse mostrata cosí reticente e avvilita? Di solito lei era alla mano, sempre disponibile. La presenza del marito l’aveva imbarazzata a tal punto? Aveva inventato le mestruazioni perché la lasciasse in pace? Vagamente, si accorse che una macchina suonava il clacson dietro di loro. Aveva gli abbaglianti accesi.

– Questi ubriachi… – commentò Zacarías de la Cruz.

In quel momento, a Trujillo venne in mente che forse non era un ubriaco, e si chinò a cercare il revolver che teneva sul sedile, ma non riuscí a prenderlo perché contemporaneamente sentí lo sparo di un fucile il cui proiettile mandò in frantumi il lunotto e gli strappò un pezzo della spalla e del braccio sinistro.

1. Salsa di pomodori e peperoncini.

2. I caobos sono gli alberi da cui si ricava il legno caoba o mogano; l’anacahuita è detto anche «fico del Messico».