Capitolo ventesimo

Quando la limousine del Capo si allontanò, abbandonandolo nel fetido pantano, il generale José René Román tremava da capo a piedi, come i giovani soldati che aveva visto morire di malaria a Dajabón, guarnigione della frontiera haitiano-dominicana, all’inizio della sua carriera militare. Erano molti anni che Trujillo si accaniva contro di lui, facendogli sentire in famiglia e di fronte a estranei il poco rispetto che gli portava, chiamandolo stupido con qualunque pretesto. Ma non aveva mai spinto il suo disprezzo e le sue offese al punto in cui era arrivato quella sera.

Aspettò che diminuisse il tremore prima di andare verso la Base Aerea di San Isidro. L’ufficiale di guardia si prese uno spavento vedendo apparire, in piena notte, a piedi e infangato, il capo delle Forze Armate in persona. Il generale Virgilio García Trujillo, comandante di San Isidro e cognato di Román – era fratello gemello di Mireya –, non c’era, ma il ministro delle Forze Armate riuní tutti gli ufficiali e li strigliò: la tubatura rotta che aveva mandato fuori dai gangheri Sua Eccellenza doveva essere riparata ipso facto, a rischio di severissime punizioni. Il Capo sarebbe venuto a controllare e tutti sapevano che era implacabile in fatto di pulizia. Fece venire una jeep con autista per rientrare a casa; non si cambiò né si sistemò prima di partire.

Sulla jeep, in cammino verso Ciudad Trujillo, si disse che, a ben vedere, quel tremore non era dovuto agli insulti del Capo ma alla tensione, da dopo la telefonata in cui aveva saputo che il Benefattore era arrabbiato. Durante il giorno, mille volte si era detto che era impossibile, assolutamente impossibile, che si potesse essere accorto della cospirazione tramata dal suo compare Luis Amiama e dal suo intimo amico, il generale Juan Tomás Díaz. Non lo avrebbe chiamato per telefono; lo avrebbe fatto arrestare e a quell’ora si sarebbe trovato a La Cuarenta o a El Nueve. Nonostante questo, il tarlo del dubbio non gli consentí di mangiare neppure un boccone durante la cena. Tutto sommato, nonostante il brutto momento che aveva subíto, era un sollievo il fatto che gli insulti fossero dovuti a una tubatura rotta e non a una congiura. La sola idea che Trujillo potesse accorgersi che era uno dei cospiratori gli gelava le ossa.

Poteva essere accusato di molte cose, ma non di essere un vigliacco. Da cadetto, e in tutti gli incarichi, aveva mostrato audacia fisica e agito con sprezzo del pericolo, che gli erano valsi la fama di vero maschio tra compagni e subordinati. Era sempre stato gagliardo in combattimento, con i guantoni o a mani nude. Non aveva mai permesso a nessuno di mancargli di rispetto. Ma, come tanti ufficiali, come tanti dominicani, di fronte a Trujillo il suo coraggio e il suo senso dell’onore si eclissavano, e s’impadroniva di lui una paralisi della ragione e dei muscoli, una docilità e una riverenza servili. Molte volte si era domandato perché la sola presenza del Capo – la sua vocetta flautata e la fissità del suo sguardo – lo annientasse moralmente.

Poiché conosceva il potere che Trujillo esercitava sul suo carattere, il generale Román rispose immediatamente, cinque mesi e mezzo prima, a Luis Amiama, quando questi gli parlò per la prima volta di una cospirazione per farla finita con quel regime:

– Sequestrarlo? Che cazzata! Finché rimarrà vivo, qui non cambierà niente. Bisogna ammazzarlo.

Si trovavano nella finca coltivata a guineos1 che Luis Amiama aveva a Guayubín, in Montecristi, e se ne stavano a guardare, dalla terrazza assolata, come scorrevano le acque terrose del fiume Yaque. L’amico gli stava spiegando che lui e Juan Tomás avevano organizzato quell’operazione per evitare che il regime facesse affondare del tutto il paese e mettesse in moto un’altra rivoluzione comunista, sul genere di quella di Cuba. Era un piano serio, che contava sull’appoggio degli Stati Uniti. Henry Dearborn, John Banfield e Bob Owen, della legazione, avevano dato il loro sostegno formale e avevano incaricato il responsabile della Cia a Ciudad Trujillo, Lorenzo D. Berry («Il padrone del supermercato Wimpy’s?» «Sí, proprio lui»), di fornire loro denaro, armi ed esplosivi. Gli Stati Uniti erano preoccupati per gli eccessi di Trujillo, dopo l’attentato contro il presidente venezuelano Rómulo Betancourt, e volevano toglierselo di dosso; e, allo stesso tempo, assicurarsi che non venisse sostituito da un secondo Fidel Castro. Per questo, avrebbero appoggiato un gruppo affidabile, chiaramente anticomunista, che costituisse una Giunta civile-militare la quale, nel giro di sei mesi, avrebbe indetto le elezioni. Amiama, Juan Tomás Díaz e i gringos erano d’accordo: Pupo Román doveva presiedere quella Giunta. Chi meglio di lui poteva ottenere l’adesione delle guarnigioni e una transizione ordinata verso la democrazia?

– Sequestrarlo, chiedergli di dimettersi? – si scandalizzò Pupo. – Avete sbagliato paese e persona, amico. Sembra che non lo conosciate. Non si lascerà catturare vivo. E non gli strapperete mai le dimissioni. Bisogna ammazzarlo.

L’autista della jeep, un sergente, guidava in silenzio, e Román tirava grandi boccate di Lucky Strike, le sue sigarette preferite. Perché aveva accettato di unirsi a quella congiura? A differenza di Juan Tomás, caduto in disgrazia e allontanato dall’Esercito, lui sí che aveva tutto da perdere. Era arrivato al grado piú alto cui potesse aspirare un militare, e, anche se gli affari non andavano bene, le fincas erano sempre di sua proprietà. Il pericolo che gliele sequestrassero svaní con il pagamento dei quattrocentomila pesos al Banco Agrícola. Il Capo non onorò quel debito per rispetto alla sua persona, ma per quell’arrogante convincimento in base al quale la sua famiglia non doveva mai dare una cattiva impressione, l’immagine di Trujillo e parenti doveva sempre risultare immacolata. Non fu neppure l’appetito di potere, la prospettiva di vedersi nominato Presidente provvisorio della Repubblica Dominicana – e la possibilità, grande, di diventare poi il Presidente eletto –, ciò che lo aveva indotto ad accettare la cospirazione. Fu il rancore, accumulato a causa delle infinite offese di cui Trujillo lo aveva reso oggetto dopo il matrimonio con Mireya che lo aveva trasformato in membro del clan privilegiato e intoccabile. Per questo il Capo lo aveva promosso prima di altri, lo aveva nominato a posti importanti, e, di tanto in tanto, gli aveva fatto quei regali in denaro o in prebende che gli avevano consentito l’alto livello di vita di cui godeva. Ma favori e privilegi dovette pagarli con sgarbi e maltrattamenti. «E questo è ciò che conta di piú», pensò.

In quei cinque mesi e mezzo, ogni volta che il Capo lo umiliava, il generale Román, come in quel momento, mentre la jeep attraversava il Puente Radhamés, si diceva che presto si sarebbe sentito un uomo intero, con una vita propria, e non, come Trujillo si impegnava a farlo sentire, un essere paralizzato. Anche se Luis Amiama e Juan Tomás non lo avrebbero mai sospettato, lui si trovava coinvolto nella cospirazione per dimostrare al Capo che non era quel disutile che lui credeva.

Le sue condizioni erano state molto concrete. Non avrebbe mosso un dito finché i suoi occhi non lo avessero visto giustiziato. Soltanto allora avrebbe proceduto a mobilitare le truppe e a catturare i fratelli Trujillo e gli ufficiali e i civili piú compromessi con il regime, a cominciare da Johnny Abbes García. Né Luis Amiama né il generale Díaz avrebbero dovuto dire a nessuno – neppure al capo del gruppo d’azione, Antonio de la Maza – che faceva parte della congiura. Non ci sarebbero stati messaggi scritti né comunicazioni telefoniche, soltanto conversazioni dirette. Lui avrebbe provveduto, con cautela, a collocare ufficiali di fiducia negli incarichi chiave, di modo che, arrivato il giorno, le guarnigioni gli avrebbero obbedito all’unisono.

Cosí aveva fatto, mettendo a capo della Fortezza di Santiago de los Caballeros, la seconda del paese, il generale César A. Oliva, suo compagno di corso e intimo amico. Si era anche dato da fare per mettere al comando della Quarta Brigata, di stanza a Dajabón, il generale García Urbáez, suo leale alleato. Del resto, contava anche sul generale Guarionex Estrella, comandante della Seconda Brigata, stanziata a La Vega. Non aveva una grande amicizia con Guaro, trujillista accanito, ma, essendo fratello del Turco Estrella Sadhalá, del gruppo d’azione, era logico supporre che si sarebbe schierato dalla parte del fratello. Non aveva confidato il suo segreto a nessuno di quei generali; era troppo astuto per esporsi a una delazione. Ma dava per scontato che, a cose avvenute, tutti quanti loro si sarebbero sottomessi senza esitare.

Quando sarebbe avvenuto? Molto presto, senza dubbio. Il giorno del suo compleanno, il 24 maggio, appena sei giorni prima, Luis Amiama e Juan Tomás Díaz, invitati da lui nella sua casa di campagna, gli avevano garantito che tutto era pronto. Juan Tomás era stato categorico: «Qualunque momento è quello buono, Pupo». Gli dissero che il Presidente Joaquín Balaguer aveva accettato di far parte della Giunta civile-militare, presieduta da lui. Chiese loro dei dettagli, ma non poterono dargliene; a fare il contatto era stato il dottor Rafael Batlle Viñas, sposato con Indiana, cugina di Antonio de la Maza, e medico di fiducia di Balaguer. Tentò di sondare il Presidente fantoccio, domandandogli se, in caso di scomparsa improvvisa di Trujillo, «avrebbe collaborato con i patrioti». La sua risposta era stata criptica: «Secondo la Costituzione, se Trujillo venisse a mancare, si dovrebbe contare su di me». Era una buona notizia? A Pupo Román quell’ometto delicato e astuto aveva ispirato sempre la diffidenza istintiva che suscitavano in lui burocrati e intellettuali. Era impossibile sapere quello che pensava; dietro ai suoi modi affabili e alla sua disinvoltura, c’era un enigma. Ma, in fin dei conti, quello che dicevano i suoi amici era vero: la complicità di Balaguer avrebbe tranquillizzato gli yanquis.

Quando arrivò alla sua casa di Gazcue erano le nove e mezza di sera. Mandò la jeep indietro a San Isidro. Mireya e il loro figlio Álvaro, giovane tenente dell’Esercito che avendo un giorno di libera uscita era venuto a trovarli, si allarmarono vedendolo in quelle condizioni. Mentre si toglieva gli abiti sporchi, spiegò loro cosa era successo. Disse a Mireya di telefonare al fratello e informò il generale Virgilio García Trujillo dell’arrabbiatura del Capo:

– Mi dispiace, caro cognato, ma sono costretto a riprenderti. Presentati domani nel mio ufficio, prima delle dieci.

– Per una tubatura rotta, cazzo! – esclamò Virgilio, divertito. – Ha una fantasia piú forte di lui!

Si fece una doccia, insaponandosi dalla testa ai piedi. Quando uscí dalla vasca, Mireya gli portò un pigiama pulito e una vestaglia di seta. Gli tenne compagnia mentre si asciugava, si metteva un po’ di colonia e si vestiva. Contrariamente a quello che molti pensavano, a cominciare dal Capo, non aveva sposato Mireya per interesse. Si era innamorato di quella ragazza robusta e timida, e aveva rischiato la vita corteggiandola nonostante l’opposizione di Trujillo. Erano una coppia felice, senza liti né rotture in quei vent’anni e piú che erano stati insieme. Mentre chiacchierava con Mireya e con Álvaro a tavola – non aveva fame, si limitò a bere un ron con il ghiaccio –, si domandava quale sarebbe stata la reazione della moglie. Avrebbe preso le parti del marito o del clan? Il dubbio lo assillava. Molte volte aveva visto Mireya indignarsi per le maniere sprezzanti del Capo; forse questo avrebbe fatto inclinare la bilancia a suo favore. Oltretutto, a quale dominicana non sarebbe piaciuto diventare la prima donna della nazione?

Finita la cena, Álvaro uscí per bere una birra con gli amici. Mireya e lui salirono in camera da letto, al secondo piano, e accesero La Voz Dominicana. Trasmettevano un programma di musica da ballo con cantanti e orchestre alla moda. Prima delle sanzioni, quella stazione televisiva ingaggiava i migliori artisti latinoamericani, ma, nell’ultimo anno, a causa della crisi, quasi tutta la programmazione dell’emittente di Petán Trujillo veniva realizzata con artisti locali. Mentre ascoltavano i merengues e i danzones dell’orchestra Generalísimo, diretta dal maestro Luis Alberti, Mireya disse inquieta che non vedeva l’ora che finissero quei problemi con la Chiesa. C’era una brutta atmosfera e le sue amiche, durante la canasta, parlavano di voci di una rivoluzione, dicevano che Kennedy avrebbe mandato i marines. Pupo la tranquillizzò: il Capo se la sarebbe cavata anche questa volta e il paese sarebbe tornato calmo e prospero. La sua stessa voce gli suonava cosí falsa che tacque, fingendo un colpo di tosse.

Poco dopo, i freni di un’auto stridettero e scoppiò un frenetico suono di clacson. Il generale saltò dal letto e si affacciò alla finestra. Scorse, mentre scendeva dall’auto appena arrivata, la figura tagliente del generale Arturo Espaillat, Navajita. Nel momento in cui riuscí a vedere la sua faccia, che sembrava gialla alla luce del lampione, il cuore gli fece un balzo in petto: ci siamo.

– Che cosa succede, Arturo? – domandò, sporgendo la testa.

– Qualcosa di molto grave, – disse il generale Espaillat, avvicinandosi. – Stavo con mia moglie a El Pony ed è passata la Chevrolet del Capo. Poco dopo, ho sentito dei colpi. Sono andato a vedere e mi sono trovato in mezzo a una sparatoria, in piena autostrada.

– Scendo, scendo, – gridò Pupo Román. Mireya si stava infilando una vestaglia e intanto si faceva il segno della croce: «Dio santo, mio zio», «Dio non voglia, Gesú santo».

Da quel momento, e in tutti i minuti e le ore successive, tempo in cui si decise la sua sorte, quella della sua famiglia, quella dei congiurati, e, in fin dei conti, quella della Repubblica Dominicana, il generale José René Román seppe sempre, con totale lucidità, quello che doveva fare. Perché fece esattamente l’opposto? Se lo sarebbe domandato molte volte nei mesi seguenti, senza trovare risposta. Sapeva, mentre scendeva le scale, che in quelle circostanze l’unica cosa sensata se provava attaccamento per la vita e non voleva che la congiura fallisse, era aprire la porta all’ex capo del Sim, il militare piú compromesso nelle operazioni delittuose del regime, esecutore di innumerevoli sequestri, ricatti, torture e assassini su ordine di Trujillo, e scaricargli addosso tutti i colpi del suo revolver. A Navajita il suo prontuario non lasciava altra alternativa che conservare una lealtà da cane nei confronti di Trujillo e del regime, per non finire in carcere o assassinato.

Anche se tutto questo lo sapeva molto bene, aprí la porta e fece entrare il generale Espaillat e la moglie, che baciò sulla guancia e tranquillizzò, perché Ligia Fernández de Espaillat aveva perso il controllo di sé e balbettava parole senza senso. Navajita gli spiegò i particolari: mentre la sua auto si avvicinava, si era trovato di fronte a una sparatoria assordante, di pistole, carabine e mitra, tra i lampi delle esplosioni aveva riconosciuto la Chevrolet del Capo ed era riuscito a vedere una figura sulla strada, che sparava, forse Trujillo. Non aveva potuto portargli aiuto; era in abiti civili, non aveva armi con sé, e, per paura che una pallottola raggiungesse Ligia, si era rifugiato lí. Tutto era successo quindici, al massimo venti minuti prima.

– Aspettami, mi vesto, – Román salí a balzi la scala, seguito da Mireya, che muoveva le mani e la testa come se fosse impazzita.

– Bisogna avvisare zio Negro, – esclamò, mentre lui si metteva l’uniforme di tutti i giorni. La vide correre al telefono e comporre un numero, senza lasciargli il tempo di aprire bocca. E, sebbene sapesse che avrebbe dovuto impedire quella chiamata, non lo fece. Prese la cornetta, e, mentre si abbottonava la camicia, avvisò il generale Héctor Bienvenido Trujillo:

– Mi hanno appena informato di un possibile attentato contro Sua Eccellenza, sulla strada per San Cristóbal. Ci sto andando. La terrò informata.

Finí di vestirsi e scese, tenendo una carabina M1 in pugno con il caricatore già inserito. Anziché lasciar partire una raffica e farla finita con Navajita, gli risparmiò la vita un’altra volta e annuí quando Espaillat, gli occhietti da topo divorati dalla preoccupazione, gli consigliò di allertare lo Stato Maggiore e di consegnare le truppe. Il generale Román chiamò la Fortezza 18 de Diciembre e comunicò a tutte le guarnigioni l’ordine di praticare un acquartieramento rigido, di chiudere le uscite dalla capitale, e avvisò i comandanti dell’interno che presto si sarebbe messo in contatto telefonico o via radio con loro, per una questione della massima urgenza. Stava perdendo un tempo irrecuperabile, ma non poteva evitare di agire in quel modo, che, pensava, avrebbe cancellato ogni dubbio su di lui nella mente di Navajita.

– Andiamo, – disse a Espaillat.

– Vado ad accompagnare Ligia a casa, – rispose. – Ti raggiungo sulla carretera. È al settimo chilometro, piú o meno.

Quando si mosse, al volante della sua auto, sapeva che sarebbe dovuto andare immediatamente a casa del generale Juan Tomás Díaz, a pochi metri dalla sua, per verificare se l’assassinio era stato consumato – di sicuro era cosí – e dare il via al colpo di Stato. Non aveva piú scampo; che Trujillo fosse morto o soltanto ferito, lui era un complice. Ma, anziché andare da Juan Tomás o da Amiama, si diresse con la sua auto verso avenida George Washington. Vicino alla Feria Ganadera vide su una macchina da cui gli facevano dei segnali il colonnello Marcos Antonio Jorge Moreno, capo della scorta personale di Trujillo, insieme al generale Pou.

– Siamo preoccupati, – gli gridò Moreno, tirando fuori la testa. – Sua Eccellenza non è arrivato a San Cristóbal.

– C’è stato un attentato, – li informò Román. – Seguitemi!

Al settimo chilometro, quando, sotto i fasci di luce delle pile di Moreno e di Pou, riconobbe la Chevrolet nera sforacchiata, i suoi vetri finiti in polvere e macchie di sangue sull’asfalto tra frammenti e rottami, seppe con certezza che l’attentato era riuscito. Non poteva che essere morto dopo una simile sparatoria. E perciò avrebbe dovuto obbligare alla resa, reclutare o uccidere Moreno e Pou, due trujillisti convinti e dichiarati, e, prima che arrivassero Espaillat e altri militari, precipitarsi alla Fortezza 18 de Diciembre, dove sarebbe stato al sicuro. Ma non fece nemmeno questo e, invece, mostrando la stessa costernazione di Moreno e di Pou, perlustrò con loro i dintorni, e si rallegrò quando il colonnello rinvenne una pistola tra i cespugli. Qualche momento dopo arrivò lí Navajita, e arrivarono anche pattuglie e guardie, alle quali ordinò di proseguire la ricerca. Lui sarebbe andato allo Stato Maggiore.

Mentre, adesso sulla macchina di servizio, il suo autista, il sergente maggiore Morones, lo portava alla Fortezza 18 de Diciembre, fumò diverse Lucky Strike. Luis Amiama e Juan Tomás di sicuro lo stavano cercando disperatamente, tirandosi dietro il cadavere del Capo. Era suo dovere inviare loro un qualche segnale. Ma, anziché farlo, quando arrivò allo Stato Maggiore diede istruzioni al posto di guardia di non lasciar entrare per nessun motivo dei civili, chiunque fossero.

Trovò la fortezza in piena agitazione, un movimento inconcepibile a quell’ora in un giorno normale. Mentre saliva le scale di corsa alla volta del suo posto di comando e rispondeva con un cenno agli ufficiali che lo salutavano, sentí domande – «Un tentativo di sbarco di fronte alla Feria Agrícola y Ganadera, signor generale?» – alle quali non si fermò per rispondere.

Entrò, agitato, sentendo il suo cuore battere, e una semplice occhiata alla ventina di ufficiali di alto grado riuniti nel suo ufficio gli fu sufficiente per capire che, nonostante le occasioni perdute, gli si presentava ancora l’opportunità di mettere in moto il Piano. Quegli ufficiali che, nel vederlo, batterono i tacchi e fecero il saluto militare, erano un gruppo selezionato dell’alto comando, in grande maggioranza amici suoi, e attendevano i suoi ordini. Sapevano o intuivano che si era appena prodotto un vuoto spaventoso, e, formati nella tradizione della disciplina e della totale dipendenza dal Capo, aspettavano che assumesse il comando, con chiarezza d’intenti. Sulle facce del generale Fernando A. Sánchez, del generale Radhamés Hungría, dei generali Fausto Caamaño e Félix Hermida, in quelle dei colonnelli Rivera Cuesta e Cruzado Piña, e in quelle dei maggiori Wessin y Wessin, Pagán Montás, Saldaña, Sánchez Pérez, Fernández Domínguez e Hernando Ramírez, c’erano paura e speranza. Volevano che li tirasse fuori dall’incertezza da cui non sapevano difendersi. Un discorso pronunciato con la voce di un capo che ha le palle al posto giusto e sa quello che sta facendo, in cui spiegasse loro che, in quelle gravissime circostanze, la scomparsa o la morte di Trujillo, verificatasi per ragioni tutte da giudicare, apriva alla Repubblica un’opportunità provvidenziale per il cambiamento. Innanzitutto, evitare il caos, l’anarchia, una rivoluzione comunista e il suo corollario, l’occupazione nordamericana. Loro, patrioti per vocazione e per professione, avevano il dovere di agire. Il paese stava toccando il fondo, messo in quarantena a causa degli abusi di un regime che, sebbene in passato avesse prestato servigi impagabili, era degenerato in una tirannia che provocava la generale riprovazione. Era necessario anticipare gli eventi, con lo sguardo rivolto al futuro. Lui li esortava a seguirlo, a chiudere insieme l’abisso che cominciava ad aprirsi. Come capo delle Forze Armate avrebbe presieduto una Giunta civile-militare composta da figure di spicco, incaricata di garantire una transizione verso la democrazia, che consentisse di annullare le sanzioni imposte dagli Stati Uniti, e di indire elezioni, sotto il controllo dell’Osa. La Giunta poteva contare sul beneplacito di Washington e lui si aspettava da loro, capi dell’istituzione piú prestigiosa del paese, totale collaborazione. Sapeva che le sue parole sarebbero state ricevute dagli applausi, e che, se vi fosse stato qualche indeciso, la convinzione degli altri avrebbe finito per trascinarlo. Sarebbe stato facile allora impartire a ufficiali decisi come Fausto Caamaño e Félix Hermida l’ordine di arrestare i fratelli Trujillo, e di rinchiudere Abbes García, il colonnello Figueroa Carrión, il capitano Candito Torres, Clodoveo Ortiz, Américo Dante Minervino, César Rodríguez Villeta e Alicinio Peña Rivera, in modo che la struttura del Sim venisse messa fuori uso.

Ma, sebbene sapesse con precisione quello che avrebbe dovuto fare e dire in quel momento, non lo fece neppure allora. Dopo alcuni secondi di esitante silenzio, si limitò a informare gli ufficiali, con un linguaggio vago, spezzato, balbettante che, di fronte all’attentato contro la persona del Generalissimo, le Forze Armate dovevano essere unite come un pugno, pronte ad agire. Poteva sentire, toccare la delusione di quei subordinati, ai quali, anziché infondere fiducia, contagiava la propria insicurezza. Non era quello ciò che si aspettavano. Per nascondere quanto si sentisse confuso, si mise in comunicazione con le guarnigioni dell’interno. Al generale César A. Oliva, di Santiago, al generale García Urbáez, di Dajabón, e al generale Guarionex Estrella, de La Vega, ripeté, nello stesso modo incerto – la lingua gli obbediva a fatica, come se fosse stato ubriaco –, che, a causa del presunto attentato, dovevano tenere le truppe consegnate, e di non fare nessun movimento senza la sua autorizzazione.

Dopo il giro di telefonate, lacerò la segreta camicia di forza che lo attanagliava e prese un’iniziativa nella direzione giusta:

– Non allontanatevi, – annunciò, alzandosi in piedi. – Convocherò immediatamente una riunione al piú alto livello.

Ordinò di chiamare il Presidente della Repubblica, il capo del Servicio de Inteligencia Militar e l’ex Presidente generale Héctor Bienvenido Trujillo. Li avrebbe fatti venire lí e li avrebbe arrestati, tutt’e tre. Se Balaguer fosse entrato nella cospirazione, avrebbe potuto dargli una mano nei passi successivi. Colse disorientamento negli ufficiali; scambio di sguardi, borbottii. Gli passarono il telefono. Il dottor Joaquín Balaguer, che era stato appena tirato giú dal letto:

– Mi dispiace di svegliarla, signor Presidente. C’è stato un attentato contro Sua Eccellenza, mentre si dirigeva a San Cristóbal. Come segretario per le Forze Armate sto convocando una riunione urgente nella Fortezza 18 de Diciembre. La prego di venire, senza perdere tempo.

Il Presidente Balaguer non rispose per un bel po’, tanto che Román credette che fosse caduta la comunicazione. Era la sorpresa a causare il suo mutismo? La soddisfazione di sapere che il Piano cominciava a funzionare? O diffidenza per quella telefonata intempestiva? Alla fine, ascoltò la risposta, pronunciata senza la minima emozione:

– Se è accaduto qualcosa di tanto grave, quale Presidente della Repubblica non mi compete stare in una caserma, ma nel Palacio Nacional. Adesso andrò lí. Le suggerisco di far svolgere la riunione nel mio studio. Buonasera.

Senza lasciargli il tempo di replicare, riagganciò.

Johnny Abbes García lo ascoltò con attenzione. Bene, sarebbe venuto alla riunione, ma dopo avere ascoltato la testimonianza del capitano Zacarías de la Cruz, che, gravemente ferito, era appena arrivato all’ospedale Marión. Soltanto Negro Trujillo sembrò accettare la convocazione. «Vengo immediatamente». Gli parve travolto da quello che stava succedendo. Ma poiché dopo mezz’ora di attesa non comparve, il generale José René Román capí che il suo piano dell’ultimo minuto non aveva possibilità di realizzarsi. Nessuno dei tre sarebbe caduto nell’imboscata. E lui, a causa del suo modo di agire, cominciava a sprofondare in quelle sabbie mobili da cui tra breve sarebbe stato troppo tardi per sfuggire. A meno che non si fosse impadronito di un aereo militare e non si fosse fatto portare a Haití, Trinidad, Puerto Rico, nelle Antille francesi, o in Venezuela, dove lo avrebbero ricevuto a braccia aperte.

A partire da quel momento, cominciò a muoversi in una condizione da sonnambulo. Il tempo si eclissava o, anziché procedere, girava, monomaniaca ripetizione che lo deprimeva e lo faceva incollerire. Non sarebbe piú uscito da quella condizione nei quattro mesi e mezzo di vita che gli rimanevano, ammesso che ciò meritasse di essere chiamato vita e non inferno, incubo. Fino al 12 ottobre 1961 non ebbe piú una nozione chiara dello scorrere del tempo; l’ebbe, invece, della misteriosa eternità, che mai gli era interessata. Nei sussulti di lucidità che lo assalivano per ricordargli che era vivo, che tutto quello non era finito, si martoriava con lo stesso quesito: perché, sapendo che sarebbe stato questo che ti aspettava, non hai agito come avresti dovuto? Quella domanda gli faceva piú male delle torture che affrontò con grande coraggio, forse per provare a se stesso che non era stato per vigliaccheria che si era comportato con tanta indecisione in quella interminabile notte del 31 maggio 1961.

Incapace di mettersi in sintonia con le sue stesse azioni, cadde in contraddizioni e in iniziative incongrue. Ordinò al cognato, il generale Virgilio García Trujillo, di inviare da San Isidro, dove si trovavano le divisioni blindate, quattro carri armati e tre compagnie di fanteria a presidiare la Fortezza 18 de Diciembre. Ma, immediatamente dopo, decise di lasciare il posto e di trasferirsi al Palacio Nacional. Incaricò il capo di Stato Maggiore dell’Esercito, il giovane generale Tuntin Sánchez, di tenerlo informato sulle indagini. Prima di andarsene, telefonò a La Victoria, per parlare con Américo Dante Minervino. In tono perentorio, gli ordinò di liquidare immediatamente, nella piú assoluta discrezione, due detenuti, il maggiore Segundo Imbert Barreras e Rafael Augusto Sánchez Saulley, e di farne scomparire i cadaveri, perché temeva che Antonio Imbert, del gruppo d’azione, avesse informato il fratello della sua complicità nella congiura. Américo Dante Minervino, abituato a queste missioni, non fece domande: «Ordine ricevuto, signor generale». Lasciò sconcertato il generale Tuntin Sánchez dicendogli di dare disposizione alle pattuglie del Sim, dell’Esercito e dell’Aviazione impegnate nelle indagini, affinché le persone delle liste di «nemici» e «contrari» che erano state distribuite loro venissero eliminate al minimo tentativo di resistenza all’arresto. («Non vogliamo prigionieri che servano a scatenare campagne internazionali contro il nostro paese»). Il subordinato non fece commenti. Le sue istruzioni sarebbero state trasmesse alla lettera, signor generale.

Uscendo dalla fortezza diretto verso il Palacio, il tenente del posto di guardia lo informò che un’automobile con due civili, uno dei quali aveva detto di essere suo fratello Ramón (Bibín), era arrivata all’ingresso della recinzione, insistendo per vederlo. Seguendo i suoi ordini, li aveva obbligati a ritirarsi. Annuí, senza dire una sola parola. Suo fratello, quindi, faceva parte della congiura e perciò Bibín avrebbe pagato anche lui per i suoi dubbi e i suoi imbrogli. Immerso in quella specie di ipnosi pensò che forse la sua indolenza fosse dovuta al fatto che, sebbene il corpo del Capo fosse morto, la sua anima, il suo spirito o come altro si chiamava continuasse a tenerlo schiavo.

Nel Palacio Nacional trovò scompiglio e desolazione. Quasi tutta la famiglia Trujillo era lí riunita. Petán, con stivali da equitazione e mitra in spalla, era appena arrivato dal suo feudo di Bonao e camminava avanti e indietro come un charro da caricatura. Héctor (Negro), sprofondato in un divano, si strofinava le braccia come se avesse freddo. Mireya, e la suocera Marina, consolavano doña María, la moglie del Capo, pallida come una morta, i cui occhi lanciavano fuoco. Invece, la bella Angelita piangeva e si torceva le mani, senza che il marito, il colonnello José León Estévez (Pechito), in divisa e preoccupato, riuscisse a calmarla. Sentí gli occhi di tutti inchiodati su di lui: qualche notizia? Li abbracciò, uno per uno: stavano rastrellando la città, casa per casa, strada per strada, e presto… Allora, scoprí che loro ne sapevano piú del capo delle Forze Armate. Era stato preso uno dei cospiratori, l’ex militare Pedro Livio Cedeño, che Abbes García stava interrogando alla Clínica Internacional. E il colonnello José León Estévez aveva già avvertito Ramfis e Radhamés, che stavano trattando il noleggio di un aereo dell’Air France che li avrebbe riportati da Parigi. A partire da quel momento capí inoltre che il potere a lui attribuito, e che aveva sciupato nelle ultime ore, andava scemando; le decisioni non uscivano piú dal suo ufficio, ma da quelli dei capi del Sim, Johnny Abbes García e il colonnello Figueroa Carrión, o da parenti e congiunti di Trujillo, come Pechito o il cognato Virgilio. Una invisibile pressione lo stava allontanando dal potere. Non lo sorprese che Negro Trujillo non gli fornisse nessuna spiegazione per non aver partecipato alla riunione cui lo aveva invitato.

Si allontanò dal gruppo, si precipitò verso una cabina e chiamò la fortezza. Ordinò al capo di Stato Maggiore di mandare delle truppe a circondare la Clínica Internacional e a mettere sotto sorveglianza l’ex ufficiale Pedro Livio Cedeño, e a impedire che il Sim lo portasse via da lí, usando la forza se avesse preteso di farlo. Il prigioniero doveva essere trasferito alla Fortezza 18 de Diciembre. Lui sarebbe andato a interrogarlo personalmente. Tuntin Sánchez, dopo un riprovevole silenzio, si limitò a salutare: «Buonasera, generale». Si disse, turbato, che forse era stato lo sbaglio peggiore di tutta la notte.

Nella stanza dove si trovavano i Trujillo c’erano altre persone. Tutti stavano ascoltando, in un silenzio compunto, il colonnello Johnny Abbes García, che, in piedi, parlava con rammarico:

– La protesi dentale trovata sulla strada è di Sua Eccellenza. Lo ha confermato il dottor Fernando Camino. Bisogna ritenere che, se non è morto, il suo stato è gravissimo.

– Che si sa degli assassini? – lo interruppe Román, con tono di sfida. – Ha parlato, il prigioniero? Ha denunciato i suoi complici?

La faccia paffuta del capo del Sim si girò verso di lui. I suoi occhietti da rospo lo immersero in uno sguardo che, nel grado estremo di suscettibilità in cui si trovava, gli sembrò scherzoso.

– Ne ha denunciati tre, – spiegò Johnny Abbes, guardandolo senza battere ciglio. – Antonio Imbert, Luis Amiama e il generale Juan Tomás Díaz. Quest’ultimo è il capobanda, dice.

– Sono stati catturati?

– I miei uomini li stanno cercando per tutta Ciudad Trujillo, – assicurò Johnny Abbes García. – C’è qualcos’altro. Gli Stati Uniti potrebbero essere dietro a tutto questo.

Bisbigliò delle parole di complimenti al colonnello Abbes e tornò alla cabina. Chiamò di nuovo il generale Tuntin Sánchez. Le pattuglie dovevano arrestare immediatamente il generale Juan Tomás Díaz, Luis Amiama e Antonio Imbert, come pure i loro famigliari, «vivi o morti, non importa, forse meglio morti, perché la Cia potrebbe cercare di portarli fuori dal paese». Quando riappese la cornetta, aveva una certezza; per come si stavano evolvendo le cose, neppure l’esilio era piú praticabile. Avrebbe dovuto spararsi un colpo.

Nella grande sala, Abbes García continuava a parlare. Non piú degli assassini; della situazione in cui rimaneva il paese.

– È indispensabile che in questo momento un membro della famiglia Trujillo assuma la Presidenza della Repubblica, – affermò. – Il dottor Balaguer deve rinunciare e cedere il proprio incarico al generale Héctor Bienvenido o al generale José Arismendi. Cosí, il popolo saprà che lo spirito, la filosofia e la politica del Capo non subiranno discredito e continueranno a guidare la vita dominicana.

Ci fu una pausa colma di disagio. I presenti si scambiavano occhiate. La vociona volgare e prepotente di Petán Trujillo s’impose nella sala:

– Johnny ha ragione. Balaguer deve dimettersi. Assumeremo la Presidenza Negro o io. Il popolo saprà che Trujillo non è morto.

Allora, seguendo gli sguardi di tutti i presenti, il generale Román scoprí che il Presidente fantoccio si trovava lí. Minuscolo e discreto come sempre, aveva ascoltato, seduto su una sedia in un angolo, quasi che non volesse disturbare. Vestiva con la irreprensibilità di sempre e mostrava una totale rilassatezza, come se tutto quello fosse una faccenda secondaria. Accennò un mezzo sorriso e parlò con calma placando l’atmosfera:

– Come voi sapete, io sono Presidente della Repubblica per decisione del Generalissimo, che sempre si è attenuto alle procedure costituzionali. Rivesto questo incarico per facilitare le cose, non per complicarle. Se le mie dimissioni servono a rendere meno grave la situazione, le avete qui e adesso. Ma permettetemi un suggerimento. Prima di assumere una scelta determinante, che comporta una rottura della legalità, non è prudente aspettare l’arrivo del generale Ramfis Trujillo? Il figlio maggiore del Capo, il suo erede spirituale, militare e politico non dovrebbe forse essere consultato?

Lanciò un’occhiata alla donna che il rigido protocollo trujillista obbligava i cronisti mondani a chiamare sempre la Prestante Dama. María Martínez de Trujillo reagí, in tono imperioso:

– Il dottor Balaguer ha ragione. Fino a quando Ramfis non sarà arrivato, non deve cambiare niente, – la sua faccia tonda aveva ripreso colorito.

Vedendo il Presidente della Repubblica abbassare gli occhi timidamente, il generale Román uscí per qualche secondo dal gelatinoso smarrimento mentale per dirsi che, diversamente da lui, quell’ometto disarmato che scriveva versi e sembrava cosí poca cosa in questo mondo di uomini veri con pistole e mitragliatrici, sapeva molto bene quello che voleva e quello che faceva, e non perdeva neppure per un istante la sua serenità. Nel corso della notte, la piú lunga del suo mezzo secolo di vita, il generale Román scoprí che, nel vuoto e nel disordine provocati da quanto era accaduto al Capo, quell’essere secondario, che tutti avevano sempre creduto un amanuense, una figura marginale e decorativa del regime, cominciava ad assumere una sorprendente autorità.

Come in sogno, nelle ore seguenti vide comporsi, scomporsi in gruppi e ricomporsi quella assemblea di parenti, famigliari e capetti trujillisti, man mano che i fatti si andavano connettendo tra loro come pezzi che riempiono i buchi del rompicapo fino a dare corpo a una figura completa. Prima di mezzanotte fecero sapere che la pistola trovata sul posto dell’attentato apparteneva al generale Juan Tomás Díaz. Quando Román ordinò che, oltre alla casa di quest’ultimo, venissero perquisite anche quelle di tutti i suoi fratelli, gli dissero che già lo stavano facendo le pattuglie del Sim, guidate dal colonnello Figueroa Carrión, e che il fratello di Juan Tomás, Modesto Díaz, consegnato al Sim dal suo amico organizzatore di combattimenti di galli Chucho Malapunta, presso il quale si era rifugiato, si trovava già prigioniero a La Cuarenta. Quindici minuti dopo, Pupo telefonò al figlio Álvaro. Gli chiese di portargli munizioni extra per la sua carabina M1 (non se l’era mai tolta dalla spalla), convinto che da un momento all’altro avrebbe dovuto difendere la propria vita, o metterle fine con le sue stesse mani. Dopo aver parlato nel suo studio con Abbes García e con il colonnello Luis José León Estévez (Pechito), a proposito del vescovo Reilly, prese l’iniziativa di dire che sotto la sua responsabilità venisse portato con la forza fuori dal Colegio Santo Domingo, e appoggiò la tesi del capo del Sim di giustiziarlo, dato che non c’erano dubbi sulla complicità della Chiesa nella macchinazione criminale. Il marito di Angelita Trujillo, toccandosi il revolver, disse che sarebbe stato un onore per lui eseguire l’ordine. Tornò in meno di un’ora, furibondo. L’operazione si era svolta senza incidenti di rilievo, tranne un po’ di botte ad alcune suore e a due preti redentoristi, anche loro gringos, che avevano tentato di proteggere il porporato. L’unico morto era stato un pastore tedesco, che stava a guardia della scuola, il quale, prima di ricevere un colpo di pistola, aveva morsicato un calié. Il vescovo si trovava adesso al centro di detenzione della Fuerza Aérea, al nono chilometro della strada per San Isidro. Il comandante Rodríguez Méndez, capo del centro, aveva rifiutato di procedere all’esecuzione del vescovo e aveva impedito che Pechito León Estévez lo facesse, adducendo a giustificazione ordini della Presidenza della Repubblica.

Sbalordito, Román gli domandò se si riferisse a Balaguer. Il marito di Angelita Trujillo, non meno sconcertato, annuí:

– A quanto sembra, crede di esistere. La cosa incredibile non è che quell’imbroglione si immischi in questa faccenda. È che i suoi ordini vengano obbediti. Ramfis deve metterlo a posto.

– Non è necessario aspettare Ramfis. Vado a sistemare i conti adesso stesso, – esplose Pupo Román.

Si diresse in fretta e furia verso lo studio del Presidente, ma, lungo il corridoio, ebbe un mancamento. Barcollando, riuscí ad arrivare fino a una poltrona appartata, su cui si lasciò cadere. Si addormentò immediatamente. Quando si risvegliò, un paio d’ore piú tardi, ricordava un incubo polare, in cui, tremando di freddo su una steppa innevata, vedeva avanzare contro di lui una torma di lupi. Si rialzò di scatto e si mise quasi a correre verso l’ufficio del Presidente Balaguer. Trovò le porte spalancate. Entrò deciso a far sentire la propria autorità a quel pigmeo ficcanaso, ma, nuova sorpresa, si trovò di fronte, nello studio, faccia a faccia, addirittura il vescovo Reilly, in persona. Alterato, con la tonaca malconcia, sul viso tracce di maltrattamenti, l’alta figura del vescovo conservava tuttavia una maestosa dignità. Il Presidente della Repubblica lo stava salutando.

– Ah, monsignore, guardi chi c’è, il segretario per le Forze Armate, generale José René Román Fernández, – fece le presentazioni. – Viene a ribadirle il rincrescimento dell’autorità militare per il deplorevole malinteso. Lei ha la mia parola, e quella del capo dell’Esercito, non è vero, generale Román?, che né lei, né nessun prelato, né le suore del Santo Domingo, saranno piú molestati. Io stesso fornirò le opportune spiegazioni a sister Williemine e a sister Helen Claire. Viviamo momenti molto difficili, e lei, uomo che ha grande esperienza, lo vorrà comprendere. Ci sono subalterni che perdono il controllo ed esagerano, come questa notte. Non si ripeterà. Ho disposto che una scorta l’accompagni fino alla scuola. La prego, per qualunque problema, anche il piú trascurabile, di mettersi in contatto con me personalmente.

Il vescovo Reilly, che guardava tutto quello come se fosse stato circondato da marziani, fece un vago movimento del capo in forma di saluto. Román affrontò il dottor Balaguer in malo modo, battendo la mano sul mitra:

– Mi deve una spiegazione, signor Balaguer. Chi è lei per dare un contrordine a una mia disposizione, chiamando un centro militare, un ufficiale subalterno, scavalcando la gerarchia? Chi cazzo crede di essere?

L’ometto lo guardò senza fargli troppo caso. Dopo averlo osservato un momento, accennò un sorrisetto amichevole. E, indicando la sedia davanti alla scrivania, lo invitò a sedersi. Pupo Román non si mosse. Il sangue gli ribolliva nelle vene, come una caldaia sul punto di scoppiare.

– Risponda alla mia domanda, cazzo! – gridò.

Neppure questa volta il dottor Balaguer si alterò. Con la stessa dolcezza con cui declamava o leggeva discorsi, lo ammoní paternamente:

– Lei è stordito e lo si può capire bene, generale. Ma faccia uno sforzo. Stiamo vivendo forse il momento piú critico per la Repubblica, e lei piú di chiunque altro deve dare al paese esempio di serenità.

Sostenne il suo sguardo incollerito – Pupo aveva voglia di colpirlo e, allo stesso tempo, era trattenuto dalla curiosità – e, dopo essersi seduto alla scrivania, con lo stesso tono, aggiunse:

– Mi ringrazi di averle impedito di commettere un grave errore, generale. Assassinando un vescovo, non avrebbe risolto i suoi problemi. Li avrebbe aggravati. Nel caso possa esserle di qualche utilità, sappia che il Presidente che lei è venuto a prendere a male parole, è pronto ad aiutarla. Anche se, temo, non potrò fare molto per lei.

Román non colse alcuna ironia in quelle parole. Nascondevano una minaccia? No, a giudicare dall’amorevole maniera in cui Balaguer lo guardava. La furia gli svaní. Adesso, aveva paura. Invidiava la tranquillità di quel nano mellifluo.

– Sappia che ho ordinato di giustiziare Segundo Imbert e Papito Sánchez, a La Victoria, – ruggí, con brutalità, senza pensare a quello che diceva. – Erano anche loro dentro questa congiura. Farò lo stesso con tutti quelli che sono implicati nell’assassinio del Capo.

Il dottor Balaguer annuí lievemente, senza che la sua espressione cambiasse di una virgola.

– A mali estremi, estremi rimedi, – mormorò, in maniera criptica. E, alzatosi, si diresse alla porta del suo ufficio, da cui uscí, senza salutare.

Román rimase lí, non sapeva che cosa fare. Decise di andare nel suo ufficio. Alle due e mezza della notte, portò Mireya, che aveva preso un tranquillante, nella casa di Gazcue. Vi trovò il fratello Bibín, che faceva bere i soldati di guardia a garganella da una bottiglia di Carta Dorada, che brandiva come uno stendardo. Bibín, lo sfaccendato, il gaudente, lo scapestrato, il giocatore d’azzardo, il simpatico Bibín stava in piedi a fatica. Dovette portarlo di peso nel bagno del piano di sopra, con la scusa di aiutarlo a vomitare e a lavarsi la faccia. Appena furono soli, Bibín si mise a piangere. Guardava il fratello con una tristezza infinita negli occhi bagnati. Un filo sottile pendeva dalle sue labbra, come una ragnatela. Abbassando la voce, quasi soffocando gli raccontò che, per tutta la notte, lui, Luis Amiama e Juan Tomás lo avevano cercato in giro per la città, che disperati avevano finito per maledirlo. Che cosa è successo, Pupo? Perché non ha fatto niente? Perché si è nascosto? Non c’era un Piano, forse? Il gruppo d’azione aveva fatto la sua parte. Gli avevano portato il cadavere, come aveva chiesto.

– Perché tu non hai fatto quello che dovevi, Pupo? – i sospiri scuotevano il suo petto. – Che cosa ci succederà adesso?

– Ci sono stati dei contrattempi, Bibín, si è messo di mezzo Navajita Espaillat, che ha visto tutto. Non è stato possibile. Adesso…

– Adesso, siamo fottuti, – si lamentò ingoiando il moccio Bibín. – Luis Amiama, Juan Tomás, Antonio de la Maza, Tony Imbert, tutti. Ma, soprattutto, tu. Tu, e, dopo, io, perché sono tuo fratello. Se mi vuoi bene, sparami un colpo adesso stesso, Pupo. Sparami con questo mitra, approfitta che sono ubriaco. Prima che lo facciano loro. In nome di quello che hai piú a cuore, Pupo.

A quel punto Álvaro bussò alla porta del bagno: avevano appena trovato il cadavere del Generalissimo nel baule di un’auto, a casa del generale Juan Tomás Díaz.

Non chiuse occhio quella notte, né la seguente, né la seguente ancora, e, probabilmente, in quattro mesi e mezzo, non provò piú ciò che era stato per lui il dormire – riposare, dimenticarsi di sé e degli altri, dissolversi in una non-esistenza da cui tornava rinfrancato, con piú energia –, anche se perse conoscenza molte volte, e passò lunghe ore, giorni e notti, in uno sbalordimento sciocco, privo di immagini, privo di idee, con il desiderio fisso che arrivasse la morte a liberarlo. Tutto si mescolava e si confondeva, come se il tempo si fosse trasformato in un minestrone, un garbuglio dove prima, adesso e dopo non avevano sequenza logica, erano qualcosa di ricorrente. Ricordava nitidamente lo spettacolo, quand’era arrivato al Palacio Nacional, di doña María Martínez de Trujillo, che ruggiva di fronte al cadavere del Capo: «Il sangue degli assassini dovrà scorrere fino all’ultima goccia!» E, come se fosse immediatamente successivo, ma poteva essere accaduto soltanto un giorno dopo, la figura snella, in uniforme, impeccabile, di un Ramfis scolorito e sclerotico, che si chinava senza piegarsi sulla cassa scolpita, osservando la faccia del Capo che era stata truccata, e sussurrando: «Io non sarò magnanimo con i nemici come lo eri tu, papà». Lo abbracciò con forza e gemette al suo orecchio: «Che perdita irreparabile, Ramfis. Meno male che ci rimani tu».

Vedeva se stesso, subito, in uniforme da parata e con l’inseparabile mitra M1 in mano, nell’affollata chiesa di San Cristóbal, assistere alle onoranze funebri del Capo. Alcuni brani del discorso di un ingigantito Presidente Balaguer – «È qui, signori, stroncata dal soffio di una raffica traditrice, la quercia poderosa che per oltre trent’anni ha sfidato tutti i fulmini ed è uscita vincitrice da tutte le tempeste» – gli fecero inumidire gli occhi. Lo ascoltava accanto a un Ramfis impietrito e circondato da uomini della scorta con i mitra. E si vedeva, nello stesso tempo, osservare (uno, due, tre giorni prima?) la serrata coda di migliaia e migliaia di dominicani di tutte le età, professioni, razze e classi sociali, in attesa, un’ora dopo l’altra, sotto un sole implacabile, di poter salire la scalinata del Palacio, e, tra esclamazioni isteriche di dolore, svenimenti, urla, offerte ai luases del vudú, rendere il loro ultimo omaggio al Capo, all’Uomo, al Benefattore, al Generalissimo, al Padre. E, in mezzo a tutto questo, lui ascoltava i rapporti dei suoi aiutanti sulla cattura dell’ingegnere Huáscar Tejeda e di Salvador Estrella Sadhalá, la fine di Antonio de la Maza e del generale Juan Tomás Díaz nel parco Independencia all’angolo con Bolívar, dove si erano difesi sparando, e la morte, quasi simultanea, a poca distanza, del tenente Amador García, anch’egli riuscito a uccidere prima che lo uccidessero, e la devastazione e il saccheggio da parte della plebaglia della casa della zia che lo aveva ospitato. Ricordava inoltre le voci circa la misteriosa scomparsa del suo compare Amiama Tió e di Antonio Imbert – Ramfis offriva mezzo milione di pesos a chi ne avesse consentito la cattura –, e l’incarcerazione di circa duecento dominicani, civili o militari, a Ciudad Trujillo, Santiago, La Vega, San Pedro de Macorís e mezza dozzina di altri posti, coinvolti nell’assassinio di Trujillo.

Tutto quello si rimescolava, ma, almeno, era comprensibile. Lo era, anche, l’ultimo ricordo coerente che avrebbe conservato la sua memoria: come, alla fine della messa in onore delle spoglie del Generalissimo nella chiesa di San Cristóbal, Petán Trujillo lo prese sottobraccio: «Vieni con me, nella mia macchina, Pupo». Sulla Cadillac di Petán, capí – fu l’ultima cosa che capí con totale certezza – che quella era l’ultima occasione per risparmiarsi tutto quello che sarebbe venuto dopo, scaricando il suo mitra contro il fratello del Capo e su se stesso, perché quel viaggio non si sarebbe concluso nella sua casa di Gazcue. Si concluse nella Base di San Isidro, dove, gli mentí Petán, senza preoccuparsi di fingere, «ci sarebbe stata una riunione di famiglia». All’ingresso della Base Aerea, due generali, suo cognato Virgilio García Trujillo e il capo di Stato Maggiore dell’Esercito, Tuntin Sánchez, lo informarono che era agli arresti, accusato di complicità con gli assassini del Benefattore della Patria e Padre della Patria Nuova. Pallidi in viso ed evitando di guardarlo negli occhi, gli chiesero la sua arma. Docilmente, consegnò loro il mitra M1, da cui non si era mai separato per quattro giorni.

Lo portarono in una stanza con un tavolino, una vecchia macchina da scrivere, un fascio di fogli bianchi e una sedia. Gli chiesero di togliersi il cinturone e le scarpe e di consegnarli a un sergente. Eseguí, senza fare domande. Lo lasciarono solo, e, qualche minuto dopo, entrarono i due amici piú intimi di Ramfis, il colonnello Luis José León Estévez (Pechito) e Pirulo Sánchez Rubirosa, i quali, senza salutarlo, gli dissero di scrivere tutto quello che sapeva della cospirazione, fornendo nomi e cognomi dei congiurati. Il generale Ramfis – il quale, con decreto supremo, che il Congresso avrebbe convalidato la sera stessa, il Presidente Balaguer aveva appena nominato comandante in capo delle Forze di Terra, Mare e Cielo della Repubblica – conosceva a fondo quel che era stato tramato, grazie agli arrestati, i quali, tutti quanti, lo avevano denunciato.

Si sedette alla macchina da scrivere e, per un paio d’ore, fece quello che gli avevano ordinato. Era un pessimo dattilografo, scriveva soltanto con due dita, e fece molti errori, che non si attardò a correggere. Raccontò tutto, dalla prima conversazione con il suo compare Luis Amiama, sei mesi prima, e nominò la ventina di persone che sapeva implicate, ma non Bibín. Spiegò che per lui era stato decisivo il fatto che gli Stati Uniti sostenessero la congiura, e che aveva accettato di presiedere la Giunta civile-militare soltanto quando aveva saputo, attraverso Juan Tomás, che sia il console Henry Dearborn sia il console Jack Bennett, e il capo della Cia a Ciudad Trujillo, Lorenzo D. Berry (Wimpy), volevano che lui ne fosse a capo. Aggiunse soltanto una piccola bugia: aveva preteso, per partecipare, che il Generalissimo Trujillo venisse sequestrato e costretto a dimettersi, ma in nessun caso assassinato. Gli altri congiurati lo avevano tradito, venendo meno a questa promessa. Rilesse i fogli e li firmò.

Rimase da solo, a lungo, in attesa, con una tranquillità d’animo che non aveva piú provato dalla notte del 30 maggio. Quando vennero a prenderlo, stava scendendo la notte. Era un gruppo di ufficiali sconosciuti. Lo ammanettarono e, sempre senza scarpe, lo trascinarono nel cortile della base e lo caricarono su un camioncino dai vetri oscurati, su cui lesse «Instituto Panamericano de Educación». Pensò che lo stessero portando a La Cuarenta. Conosceva molto bene quella tetra costruzione di calle 40, vicino alla Fábrica Dominicana de Cemento. Era appartenuta al generale Juan Tomás Díaz, che l’aveva venduta allo Stato perché Johnny Abbes la trasformasse nello scenario dei suoi complicati metodi per strappare confessioni ai prigionieri. Lui era presente, addirittura, dopo l’invasione castrista del 14 giugno, quando uno degli interrogati, il dottor Tejada Florentino, seduto sul grottesco Trono – un sedile di jeep, tubi, cavi elettrici, nerbo di bue, garrote con pezzi di legno per strangolare il prigioniero nello stesso tempo in cui riceveva le scariche –, rimase folgorato per uno sbaglio del tecnico del Sim, che aveva fatto partire una scarica del massimo voltaggio. Ma no, anziché a La Cuarenta lo portarono a El Nueve, sulla carretera Mella, una vecchia casa di Pirulo Sánchez Rubirosa. Anche lí c’era un Trono, piú piccolo ma piú moderno.

Non aveva paura. Adesso no. Il panico madornale che dalla notte dell’assassinio di Trujillo lo aveva reso simile a un montado, come chiamavano quelli che finivano per rimanere svuotati di loro stessi e invasi da spiriti nelle cerimonie del vudú, era scomparso del tutto. A El Nueve lo spogliarono e lo misero a sedere sulla sedia annerita, al centro di una stanza senza finestre e illuminata appena. Il forte odore di escrementi e di orina gli provocò la nausea. La sedia era deforme e assurda, con i suoi ammennicoli. Era incassata nel pavimento e aveva cinghie e anelli per legare le caviglie, i polsi, il petto e la testa. I braccioli erano rivestiti di lamine di rame per assecondare il passaggio della corrente. Un fascio di cavi usciva dal Trono verso una scrivania o un bancone, da dove si controllava il voltaggio. Nella luce smorta, mentre lo legavano alla sedia, riconobbe, tra Pechito León Estévez e Sánchez Rubirosa, la faccia esangue di Ramfis. Si era tagliato i baffi e si era tolto gli immancabili occhiali Ray-Ban. Lo guardava con lo sguardo assente che gli aveva visto quando dirigeva le torture e gli omicidi dei sopravvissuti di Constanza, Maimón e Estero Hondo nel giugno 1959. Continuava a guardarlo senza dire niente, mentre un calié lo rapava a zero, un altro, inginocchiato, gli legava le caviglie, e un terzo spargeva profumo nel locale. Il generale Román Fernández sostenne lo sguardo di quegli occhi.

– Tu sei il peggiore di tutti, Pupo, – lo sentí dire, all’improvviso, con la voce rotta dal dolore. – Tutto quello che sei e tutto quello che hai lo devi al mio papà. Perché lo hai fatto?

– Per amore della mia Patria, – sentí se stesso pronunciare queste parole.

Ci fu una pausa. Ramfis parlò di nuovo:

– È coimplicato Balaguer?

– Non lo so. Luis Amiama mi ha detto che avevano provato a sondare le sue reazioni, attraverso il suo medico. Non sembrava molto sicuro. Tendo a credere che non lo fosse.

Ramfis fece un cenno con la testa e Pupo si sentí lanciato in avanti dalla forza di un ciclone. La scossa sembrò maciullargli tutti i nervi, dal cervello ai piedi. Cinghie e anelli gli serravano i muscoli, vedeva palle di fuoco, aghi affilatissimi frugavano nei suoi pori. Resistette senza gridare, ruggí soltanto. Anche se, a ogni scarica – si succedevano con intervalli durante i quali gli gettavano secchi d’acqua per rianimarlo –, perdeva i sensi e rimaneva cieco, per poi tornare cosciente. Allora, le sue narici si riempivano di quel profumo da cameriera. Cercava di conservare un certo ritegno, di non umiliarsi chiedendo compassione. Nell’incubo da cui non sarebbe mai uscito, di due cose era sicuro: tra i suoi torturatori non era mai comparso Johnny Abbes García, e, in qualche momento, qualcuno che poteva essere Pechito León Estévez, o il generale Tuntin Sánchez, gli aveva fatto sapere che Bibín aveva avuto riflessi migliori dei suoi, perché era riuscito a spararsi un colpo in bocca quando il Sim era andato a prenderlo nella sua casa all’incrocio tra Arzobispo Nouel e José Reyes. Pupo si domandò molte volte se i suoi figli Álvaro e José René, ai quali non aveva mai parlato della cospirazione, fossero riusciti a uccidersi.

Tra una seduta e l’altra su quella sedia elettrica, lo trascinavano, nudo, in una cella umida, dove secchiate di acqua putrida lo facevano reagire. Per impedirgli di dormire gli attaccarono le palpebre alle sopracciglia con il cerotto. Quando, malgrado avesse gli occhi aperti, entrava in uno stato di semincoscienza, lo svegliavano colpendolo con mazze da baseball. Diverse volte gli riempirono la bocca di sostanze immangiabili; qualche volta riconobbe che erano feci e vomitò. Poi, in quella veloce discesa all’inumanità, poté ormai trattenere nello stomaco ciò che gli davano. Nelle prime sedute con l’elettricità, Ramfis lo interrogava. Ripeteva molte volte la stessa domanda, per vedere se si contraddiceva. («È implicato il Presidente Balaguer?») Rispondeva facendo sforzi inauditi perché la lingua gli obbedisse. Finché non sentí delle risate, e, poi, la voce incolore e un po’ femminile di Ramfis: «Sta’ zitto, Pupo. Non hai niente da raccontarmi. Ormai so tutto. Adesso stai soltanto pagando il tuo tradimento a papà». Era la stessa voce con alti e bassi discordi di quando, nell’orgia sanguinaria, dopo il 14 giugno, aveva perso la ragione e il Capo aveva dovuto mandarlo in una clinica psichiatrica in Belgio.

Quando avvenne quell’ultimo dialogo con Ramfis ormai non poteva piú vederlo. Gli avevano tolto i cerotti, strappandogli anche le sopracciglia, e una voce ebbra e soddisfatta gli annunciò: «Adesso avrai il buio, cosí potrai dormire bene». Sentí l’ago perforargli le palpebre. Non si mosse mentre gliele cucivano. Fu sorpreso dal fatto che quel sigillare i suoi occhi con il filo lo facesse soffrire meno delle scosse sul Trono. A quel momento, aveva già fallito in due tentativi di uccidersi. Il primo, scagliandosi a capo chino con tutte le forze che gli rimanevano contro il muro della cella. Il secondo, fu lí lí per riuscire. Arrampicandosi alle sbarre – gli avevano tolto le manette, preparandolo a una nuova seduta sul Trono – ruppe la lampadina che rischiarava la cella. A quattro zampe, ingoiò tutti i vetri, sperando che una emorragia interna mettesse fine alla sua vita. Ma al Sim c’erano sempre almeno due medici, e un piccolo ambulatorio dotato del necessario per impedire che i torturati morissero di mano propria. Lo portarono nell’infermeria, gli fecero ingoiare un liquido che gli provocò il vomito, e gli inserirono una sonda per ripulirgli le viscere. Lo salvarono, affinché Ramfis e i suoi amici potessero continuare a ucciderlo poco per volta.

Quando lo castrarono, la fine era vicina. Non gli tagliarono i testicoli con un coltello, ma con le forbici, mentre era sul Trono. Sentiva risatine sovreccitate e commenti osceni, di alcuni personaggi che erano soltanto voci e odori aspri, di ascelle e di tabacco a poco prezzo. Non diede loro il piacere di sentirlo gridare. Gli incunearono i testicoli nella bocca, e li ingoiò, desiderando che tutto quello accelerasse la sua morte, cosa che non aveva mai immaginato si potesse desiderare tanto.

In qualche momento riconobbe la voce di Modesto Díaz, il fratello del generale Juan Tomás Díaz, di cui si diceva che era un dominicano intelligente quanto Cerebrito Cabral o il Costituzionalista Sbronzo. Lo avevano messo nella stessa cella? Lo torturavano come lui? La voce di Modesto era amara e accusatrice:

– Siamo qui per colpa tua, Pupo. Perché ci hai traditi? Non lo sapevi che ti sarebbe successo tutto questo? Pentiti di aver tradito i tuoi amici e il tuo paese.

Non ebbe la forza di articolare nessun suono, neppure di aprire la bocca. Dopo qualche tempo, potevano essere ore, giorni o settimane, riuscí a distinguere un dialogo tra un medico del Sim e Ramfis Trujillo:

– Impossibile prolungargli ulteriormente la vita, generale.

– Quanto gli rimane? – era Ramfis, senza il minimo dubbio.

– Qualche ora, forse un giorno se gli faccio altre trasfusioni. Ma nelle condizioni in cui è non sopporterà un’altra scarica. È incredibile che abbia resistito quattro mesi, generale.

– Scostati un po’, allora, non posso permettere che muoia di morte naturale. Mettiti dietro di me, magari un bossolo ti prende di rimbalzo.

Felice, il generale José René Román sentí la raffica finale.

1. Guineo è una varietà di banana, di piccole dimensioni, destinata a essere consumata come frutta, non cucinata.