Quando, senza essere ancora uscito dal sonno, sentí suonare il telefono, il Presidente Joaquín Balaguer ebbe il presentimento che si trattasse di qualcosa di gravissimo. Sollevò la cornetta mentre si strofinava gli occhi con la mano libera. Era il generale José René Román che lo convocava a una riunione di alto livello allo Stato Maggiore dell’Esercito. «Lo hanno ammazzato», pensò. La congiura aveva avuto successo. Si risvegliò del tutto. Non poteva perdere tempo a provare compassione o collera; in quel momento, il problema era il capo delle Forze Armate. Tossí, e disse, lentamente: «Se è accaduto qualcosa di tanto grave, quale Presidente della Repubblica non mi compete stare in una caserma, ma nel Palacio Nacional. Adesso andrò lí. Le suggerisco di far svolgere la riunione nel mio studio. Buonasera». Riappese, prima che il ministro delle Forze Armate avesse il tempo di rispondergli.
Si alzò e si vestí, senza fare rumore, per non svegliare le sorelle. Avevano ammazzato Trujillo, era certo. Ed era in corso un colpo di Stato, con a capo Román. Per che cosa lo convocava alla Fortezza 18 de Diciembre? Per costringerlo a dimettersi, per arrestarlo o per imporgli di sostenere la sollevazione. Sembrava tutto molto rozzo, progettato malamente. Anziché telefonare, avrebbe dovuto mandare una pattuglia. Román, sebbene si trovasse al comando delle Forze Armate, non aveva il prestigio per imporsi alle guarnigioni. Tutta la storia sarebbe fallita.
Uscí e chiese alla scorta di svegliare il suo autista. Mentre questi lo portava al Palacio Nacional per una avenida Máximo Gómez deserta e buia, si prefigurava le ore seguenti: scontri tra guarnigioni ribelli e leali e possibile intervento militare nordamericano. Washington avrebbe preteso un qualche simulacro costituzionale per una simile azione, e, in quel momento, il Presidente della Repubblica rappresentava la legalità. Il suo incarico era soltanto decorativo, certo. Ma, morto Trujillo, si caricava di realtà. Sarebbe dipeso dal suo comportamento passare da mero impaccio ad autentico Capo di Stato della Repubblica Dominicana. Forse, senza saperlo, da quando era nato, nel 1906, aspettava questo momento. Ancora una volta si ripeté la massima della sua vita: neppure un istante, per nessuna ragione, perdere la calma.
Questa decisione finí per rafforzarsi non appena entrò nel Palacio Nacional e si rese conto della baraonda che vi regnava. Avevano raddoppiato la guardia e per corridoi e scale circolavano soldati armati, alla ricerca di qualcuno contro cui sparare. Alcuni ufficiali, nel vederlo camminare senza fretta verso il suo ufficio, sembrarono sollevati; forse lui sapeva che cosa fare. Non arrivò al suo studio. Nel salotto delle visite contiguo allo studio del Generalissimo, vide la famiglia Trujillo: la moglie, la figlia, i fratelli, i nipoti, le nipoti. Si rivolse loro con l’espressione grave che il momento richiedeva. Angelita aveva gli occhi pieni di lacrime ed era pallida; ma sulla faccia corposa e tirata di doña María c’era rabbia, una rabbia incommensurabile.
– Che cosa ci succederà, dottor Balaguer? – balbettò Angelita, prendendolo per un braccio.
– Nulla, non vi succederà nulla, – la confortò. Abbracciò anche la Prestante Dama. – L’importante è conservare la serenità. Armarci di coraggio. Dio non permetterà che Sua Eccellenza muoia.
Una semplice occhiata gli bastò per capire che quella tribú di poveri diavoli aveva perso la bussola. Petán, agitando un mitra, girava su stesso come un cane che vuole mordersi la coda, sudando e sbraitando spropositi sui cocuyos de la cordillera, il suo esercito privato, mentre Héctor Bienvenido (Negro), l’ex Presidente, sembrava in preda a un attacco di idiotismo catatonico: guardava il vuoto, con la bocca piena di saliva, come se cercasse di ricordare chi era e dove si trovava. E anche il piú disgraziato dei fratelli del Capo, Amable Romeo (Pipí), era là, vestito come un mendicante, rannicchiato su una sedia, a bocca aperta. Sulle poltrone, le sorelle di Trujillo, Nieves Luisa, Marina, Julieta, Ofelia Japonesa, si asciugavano gli occhi o lo guardavano, implorando aiuto. A tutti, uno per uno, mormorò parole di incoraggiamento. C’era un vuoto ed era necessario colmarlo quanto prima.
Andò nello studio e chiamò il generale Santos Mélido Marte, ispettore generale delle Forze Armate, l’ufficiale dell’alta gerarchia militare con cui aveva i rapporti di piú vecchia data. Non era al corrente di nulla e rimase cosí sbalordito della notizia che per mezzo minuto non poté articolare altro che: «Dio mio, Dio mio». Gli chiese di chiamare i comandanti generali e i capi di guarnigione in tutta la Repubblica, di rassicurarli sul fatto che il probabile omicidio non aveva alterato l’ordine costituzionale e che potevano contare sulla fiducia del Capo dello Stato, il quale li riconfermava nei loro incarichi. «Metto immediatamente mano all’opera, signor Presidente», si congedò il generale.
Lo avvisarono che il nunzio apostolico, il console nordamericano e l’incaricato d’affari del Regno Unito erano all’ingresso del Palacio, trattenuti dalle guardie. Li fece passare. Non li portava sin lí l’attentato, ma la cattura violenta di monsignor Reilly, ad opera di uomini armati che erano entrati nel Colegio Santo Domingo abbattendo le porte. Avevano sparato in aria, colpito le suore e i sacerdoti redentoristi di San Juan de la Maguana che accompagnavano il vescovo e avevano ammazzato un cane da guardia. Avevano portato via il prelato a spintoni.
– Signor Presidente, la ritengo responsabile della vita di monsignor Reilly, – lo ammoní il nunzio.
– Il mio governo non tollererà che si attenti contro la sua vita, – lo avvisò il diplomatico statunitense. – Non è necessario che le ricordi l’interesse di Washington per Reilly, che è cittadino nordamericano.
– Accomodatevi, per favore, – indicò loro le sedie che erano attorno alla sua scrivania. Prese il telefono e chiese di essere messo in comunicazione con il generale Virgilio García Trujillo, capo della Base Aerea di San Isidro. Si rivolse ai diplomatici: – Me ne rammarico piú di loro, credetemi. Non risparmierò i miei sforzi per portare rimedio a questo orrore.
Poco dopo, sentí la voce del nipote del Generalissimo. Senza allontanare lo sguardo dal terzetto di visitatori, disse, lentamente:
– Le parlo come Presidente della Repubblica, generale. Mi rivolgo al capo di San Isidro e anche al nipote prediletto di Sua Eccellenza. Le risparmio i preliminari, data la gravità della situazione. Con un gesto di grande irresponsabilità, qualche subalterno, forse il colonnello Abbes García, ha fatto arrestare il vescovo Reilly, portandolo via a forza dal Colegio Santo Domingo. Ho di fronte a me i rappresentanti degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e del Vaticano. Se succede qualcosa a monsignor Reilly, che è cittadino nordamericano, può succedere una catastrofe al paese. Compreso uno sbarco della fanteria di marina. Non è necessario che io le spieghi che cosa significherebbe tutto questo per la nostra Patria. In nome del Generalissimo, di suo zio, la esorto a evitare una disgrazia di portata storica.
Attese la reazione del generale Virgilio García Trujillo. Quel respiro nervoso rivelava indecisione.
– Non è stata una mia idea, dottore, – lo sentí mormorare, alla fine. – Non mi hanno nemmeno informato della faccenda.
– Lo so molto bene, generale Trujillo, – lo aiutò Balaguer. – Lei è un ufficiale sensato e responsabile. Non commetterebbe mai una simile pazzia. Monsignor Reilly è ancora a San Isidro? O lo hanno portato a La Cuarenta?
Ci fu un lungo silenzio, irto di spine. Temette il peggio.
– È vivo monsignor Reilly? – insistette Balaguer.
– Si trova in una dipendenza della Base di San Isidro, a due chilometri da qui, dottore. Il comandante del centro, Rodríguez Méndez, non ha lasciato che lo uccidessero. Mi ha appena informato.
Il Presidente raddolcí la propria voce:
– La prego di andare, di persona, come mio inviato, a liberare monsignore. A chiedergli scusa a nome del governo per l’errore commesso. E, poi, accompagni il vescovo fino al mio ufficio. Sano e salvo. È una preghiera che le rivolgo in quanto amico, e anche un ordine del Presidente della Repubblica. Ho piena fiducia in lei.
I tre ospiti lo guardavano allibiti. Si alzò in piedi e andò verso di loro. Li accompagnò alla porta. Nello stringere le loro mani, mormorò:
– Non sono certo di essere ubbidito, signori. Ma, lo vedete, faccio quello che è in mio potere perché s’imponga la ragione.
– Che cosa succederà, signor Presidente? – domandò il console. – I trujillisti accetteranno la sua autorità?
– Dipenderà molto dagli Stati Uniti, amico mio. Francamente, non lo so. Adesso vogliate scusarmi, signori.
Tornò nella sala dove si trovava la famiglia Trujillo. C’era altra gente. Il colonnello Abbes García stava spiegando che uno degli assassini, agli arresti nella Clínica Internacional, aveva denunciato tre complici: il generale in pensione Juan Tomás Díaz, Antonio Imbert e Luis Amiama. Senza dubbio, ce n’erano molti altri. Tra quelli che ascoltavano, stupiti, scoprí il generale Román; aveva la camicia quasi del tutto bagnata, la faccia coperta di sudore e stringeva il suo mitra con entrambe le mani. Ribolliva nei suoi occhi la pazzia dell’animale che sa di essere perduto. Le cose non gli erano riuscite bene, era evidente. Con la sua vocina stonata, il tarchiato capo del Sim affermò che, secondo l’ex militare Pedro Livio Cedeño, la cospirazione non aveva ramificazioni nelle Forze Armate. Mentre lo ascoltava, si disse che era arrivato il momento di confrontarsi con Abbes García, che lo odiava. Lui provava, nei suoi confronti, soltanto disprezzo. In momenti come quello, di solito non prevalevano le idee ma le pistole. Chiese a Dio, nel quale credeva a tratti, di mettersi dalla sua parte.
Il colonnello Abbes García lanciò il primo attacco. A causa del vuoto verificatosi a seguito dell’attentato, Balaguer doveva dimettersi affinché qualcuno della famiglia occupasse la Presidenza. Con la sua intemperanza e con la sua grossolanità, Petán andò in suo sostegno: «Sí, deve dimettersi». Lui stava a sentire, silenzioso, le mani incrociate sulla pancia, come un tranquillo parroco. Quando gli sguardi si concentrarono su di lui, annuí con timidezza, come per scusarsi di vedersi costretto a intervenire. Con modestia, ricordò che occupava la Presidenza per decisione del Generalissimo. Si sarebbe dimesso lí per lí se questo fosse servito alla nazione, naturalmente. Ma si permetteva di suggerire che, prima di infrangere l’ordine costituzionale, attendessero l’arrivo del generale Ramfis. Si poteva escludere il primogenito del Capo in una questione di tale gravità? La Prestante Dama si dichiarò subito d’accordo con lui: non avrebbe accettato nessuna decisione se non fosse stato presente il figlio maggiore. Come annunciò il colonnello Luis José León Estévez (Pechito), Ramfis e Radhamés si preparavano a Parigi a noleggiare un aereo dell’Air France. La questione rimase in sospeso.
Mentre tornava nel suo ufficio, si disse che la vera battaglia non avrebbe dovuto combatterla contro i fratelli di Trujillo, quella combriccola di spacconi idioti, ma contro Abbes García. Era un sadico demente, sí, ma di una intelligenza luciferina. Aveva appena commesso un errore, dimenticandosi di Ramfis. María Martínez era diventata sua alleata. Lui sapeva come rinsaldare quell’alleanza: l’avarizia della Prestante Dama sarebbe stata utile, nelle attuali circostanze. Ma la cosa urgente era impedire una sollevazione. Appena arrivato nel suo studio, gli passarono la telefonata del generale Mélido Marte. Aveva parlato con tutte le regioni militari e i comandanti gli avevano assicurato la loro fedeltà al governo costituito. Tuttavia, il generale César A. Oliva, di Santiago de los Caballeros, come pure il generale García Urbáez, di Dajabón, e il generale Guarionex Estrella, de La Vega, erano inquieti a causa delle comunicazioni contraddittorie del segretario per le Forze Armate. Ne sapeva qualcosa il signor Presidente?
– Nulla di concreto, ma immagino la stessa cosa che immagina lei, amico mio, – disse Balaguer al generale Mélido Marte. – Chiamerò per telefono quei comandanti, per tranquillizzarli. Ramfis Trujillo è già in volo per tornare, e garantire cosí la guida militare del paese.
Immediatamente chiamò i tre generali e ribadí loro che avevano tutta la sua fiducia. Chiese che, assumendo tutti i poteri amministrativi e politici, garantissero l’ordine nelle loro regioni e, fino all’arrivo del generale Ramfis, si consultassero soltanto con lui. Mentre stava salutando il generale Guarionex Estrella Sadhalá, gli assistenti annunciarono che il generale Virgilio García Trujillo era in anticamera, con il vescovo Reilly. Diede disposizioni per far passare, da solo, il nipote di Trujillo.
– Lei ha salvato la Repubblica, – gli disse, abbracciandolo, cosa che non faceva mai con nessuno. – Se fossero stati eseguiti gli ordini di Abbes García e fosse successo qualcosa di irreparabile, i marines starebbero già sbarcando a Ciudad Trujillo.
– Non erano ordini di Abbes García solamente, – rispose il capo della Base di San Isidro. Gli parve confuso. – A ordinare al comandante Rodríguez Méndez, del centro di detenzione della Fuerza Aérea, di fucilare il vescovo, è stato Pechito León Estévez. Ha detto che era una decisione di mio cognato. Sí, di Pupo in persona. Non lo capisco. Nessuno mi ha neppure consultato. È stato un miracolo che Rodríguez Méndez si sia rifiutato di eseguire prima di aver parlato con me.
Il generale García Trujillo si prendeva cura del suo fisico e del suo aspetto – baffetti alla messicana, capelli imbrillantinati, divisa su misura stirata come per partecipare a una sfilata e gli immancabili occhiali Ray-Ban nel taschino – con la stessa civetteria di suo cugino Ramfis, con il quale era in grande confidenza. Ma adesso lo vedeva con la camicia fuori dai pantaloni e spettinato; nei suoi occhi c’erano sospetto e dubbi.
– Non capisco perché Pupo e Pechito abbiano preso una decisione simile senza prima parlare con me. Volevano compromettere la Fuerza Aérea, dottore.
– Il generale Román dev’essere rimasto tanto colpito da quello che è successo al Generalissimo che non controlla piú i propri nervi, – lo giustificò il Presidente. – Fortunatamente, Ramfis è già in viaggio. La sua presenza è indispensabile. A lui, come generale con quattro stelle e figlio del Capo, spetta di assicurare la continuità politica del Benefattore.
– Ma Ramfis non è un politico, odia la politica e lei lo sa bene, dottor Balaguer.
– Ramfis è un uomo molto intelligente e adorava suo padre. Non potrà rifiutare di assolvere il ruolo che la Patria si aspetta da lui. Noi lo convinceremo.
Il generale García Trujillo lo guardò con simpatia.
– Può contare su di me per qualunque cosa, signor Presidente.
– I dominicani sapranno che, questa notte, lei ha salvato la Repubblica, – ripeté Balaguer, mentre lo accompagnava alla porta. – Lei ha una grande responsabilità, generale. San Isidro è la Base piú importante del paese, e per questo dipende da lei che si mantenga l’ordine. Per qualunque cosa, mi chiami; ho ordinato di dare la precedenza alle sue telefonate.
Il vescovo Reilly doveva aver passato ore spaventose nelle mani dei caliés. Aveva l’abito strappato e infangato, e solchi profondi traversavano la sua faccia emaciata, con una smorfia di orrore che ancora la opprimeva. Se ne stava dritto, in silenzio. Ascoltò con dignità le scuse e le spiegazioni del Presidente della Repubblica e fece perfino uno sforzo per sorridere mentre lo ringraziava del suo intervento per liberarlo: «Li perdoni, signor Presidente, perché non sanno quello che fanno». A quel punto, si aprí la porta, e, mitra in pugno, sudato, lo sguardo imbestialito dalla paura e dalla rabbia, fece irruzione nell’ufficio il generale Román. Un secondo fu sufficiente per capire che, se non avesse preso l’iniziativa, quello scimmione avrebbe cominciato a sparare. «Ah, monsignore, guardi chi c’è qui». Espansivo, ringraziò il ministro delle Forze Armate per essere venuto a presentare le scuse, a nome dell’istituzione militare, al signor vescovo di San Juan de la Maguana per il malinteso di cui era stato vittima. Il generale Román, impietrito al centro dello studio, batteva le palpebre con espressione stupita. Aveva le cispe agli occhi, come se si fosse appena svegliato. Senza dire una parola, dopo aver esitato alcuni secondi, allungò la mano verso il vescovo, sorpreso di quello che stava accadendo quanto il generale. Il Presidente salutò monsignor Reilly sulla porta.
Quando tornò alla scrivania, Pupo Román prese a sbraitare: «Lei mi deve una spiegazione. Chi cazzo crede di essere, Balaguer», agitando e passandogli il mitra vicino alla faccia. Il Presidente rimase imperturbabile, guardandolo negli occhi. Sentiva sulla faccia una pioggia invisibile, la saliva del generale. Quell’energumeno non avrebbe piú osato sparare. Dopo aver profferito ingiurie e parolacce intercalate a frasi prive di senso, Román tacque. Rimase dove si trovava, ansimando. Con voce soave e rispettosa, il Presidente gli consigliò di fare uno sforzo per controllarsi. In quei momenti, il capo delle Forze Armate doveva dare un esempio di ponderatezza. Nonostante i suoi insulti e le sue minacce, era disposto ad aiutarlo, se ne aveva bisogno. Il generale Román esplose, di nuovo, in un soliloquio semidelirante, in cui, di punto in bianco, lo informò che aveva dato ordine di giustiziare il maggiore Segundo Imbert e Papito Sánchez, prigionieri a La Victoria, per complicità nell’assassinio del Capo. Non volle continuare a sentire confidenze tanto pericolose. Senza dire niente, uscí dall’ufficio. Ormai non aveva piú dubbi: Román aveva a che fare con la morte del Generalissimo. Non si poteva spiegare altrimenti il suo comportamento irrazionale.
Ritornò nella sala. Avevano trovato il cadavere di Trujillo dentro al baule di un’auto, nel garage del generale Juan Tomás Díaz. Mai, nei suoi lunghi anni di vita, il dottor Balaguer avrebbe dimenticato il tracollo di quelle facce, il pianto di quegli occhi, l’espressione di orfanità, smarrimento, disperazione di civili e militari, quando il sanguinolento cadavere crivellato di pallottole, con la faccia maciullata dal proiettile che gli aveva distrutto il mento, venne disteso sul nudo tavolo della sala da pranzo del Palacio dove qualche ora prima erano stati festeggiati Simon e Dorothy Gittleman, e cominciò a essere svestito e lavato affinché una équipe di medici esaminasse i resti e li preparasse per la veglia funebre. Tra le reazioni di tutti i presenti, a impressionarlo di piú fu quella della vedova. Doña María Martínez osservava la spoglia come ipnotizzata, tutta diritta su quelle scarpe dalle alte suole sopra le quali sembrava sempre che si fosse inerpicata. Aveva gli occhi dilatati e arrossati, ma non piangeva. All’improvviso, ruggí, agitando le mani: «Vendetta! Vendetta! Bisogna ammazzarli tutti!» Il dottor Balaguer si affrettò a metterle un braccio sulle spalle. Lei non si scostò. La sentiva respirare profondamente, ansimando. Tremava in maniera convulsa. «Devono pagare, devono pagare», ripeteva. «Muoveremo terra e cielo perché sia cosí, doña María», le sussurrò all’orecchio. In quell’istante, ebbe un palpito: allora, in quel preciso momento, doveva rinsaldare ciò che aveva già ottenuto con la Prestante Dama, dopo sarebbe stato troppo tardi.
Stringendole affettuosamente un braccio, quasi per allontanarla da quello spettacolo che la faceva soffrire, portò doña María in uno dei salottini che si trovavano accanto alla sala da pranzo. Non appena si fu accertato che erano soli, chiuse la porta.
– Doña María, lei è una donna eccezionalmente forte, – le disse, con affetto. – Per questo mi azzardo, in momenti tanto dolorosi, a turbare la sua pena con una questione che potrà sembrarle inopportuna. Ma non lo è. Agisco guidato dall’ammirazione e dall’affetto. Si sieda, per favore.
La faccia tonda della Prestante Dama lo guardava con diffidenza. Lui le sorrise, rattristato. Era sfacciato, senza dubbio, ad affaticarla con cose pratiche, mentre il suo animo era occupato da un dolore atroce. Ma: e il futuro? Forse che doña María non aveva una lunga vita di fronte a sé? Chi poteva dire che cosa sarebbe successo dopo questo cataclisma? Era indispensabile che lei prendesse delle precauzioni, pensando al futuro. L’ingratitudine dei popoli era cosa nota, sin dal tradimento di Giuda a Cristo. Il paese avrebbe pianto Trujillo e avrebbe inveito contro i suoi assassini, adesso. Sarebbe rimasto, domani, leale verso la memoria del Capo? E se avesse prevalso il risentimento, quella malattia nazionale? Non voleva farle perdere tempo. Sarebbe venuto al dunque, perciò. Doña María doveva garantirsi, mettere al riparo da qualunque evenienza i legittimi beni acquisiti grazie agli sforzi della famiglia Trujillo, e che, oltretutto, avevano tanto beneficiato il popolo dominicano. E farlo prima che i rimpasti politici costituissero, poco piú avanti, un impedimento. Il dottor Balaguer suggeriva che ne discutesse con il senatore Henry Chirinos, incaricato di sovrintendere agli affari di famiglia, e studiasse quale parte del patrimonio poteva essere trasferito immediatamente all’estero, senza gravi perdite. Lo si poteva ancora fare nella piú assoluta discrezione. Il Presidente della Repubblica aveva la facoltà di autorizzare operazioni di quel genere – la conversione di pesos dominicani in altre valute attraverso la Banca Centrale, ad esempio –, ma come si poteva sapere se poi tutto ciò avrebbe continuato a essere possibile. Il Generalissimo era stato sempre restio a quei trasferimenti, a causa dei suoi alti scrupoli. Insistere su quella politica nelle attuali circostanze sarebbe stato, chiedendo scusa per l’espressione, una cosa priva di senso. Era un consiglio amichevole, ispirato dalla devozione e dall’amicizia.
La Prestante Dama lo ascoltò in silenzio, guardandolo negli occhi. Alla fine annuí, riconoscente:
– Lo sapevo che lei è un amico leale, dottor Balaguer, – disse, molto sicura di sé.
– Spero di poterglielo dimostrare, doña María. Sono fiducioso che non avrà preso a male il mio consiglio.
– È un buon consiglio, in questo paese non si sa mai che cosa può succedere, – brontolò lei, a mezza bocca. – Parlerò con il dottor Chirinos domani stesso. Si potrà fare tutto con la massima discrezione?
– Sul mio onore, doña María, – affermò il Presidente, portandosi la mano al petto.
Vide un dubbio alterare l’espressione della vedova del Generalissimo. E indovinò quello che lei stava per chiedergli.
– La prego di non parlare di questa piccola questione con nessuno, nemmeno con i miei figli, – disse, a voce molto bassa, come se temesse che loro potessero sentirla. – Per ragioni che sarebbe lungo spiegare.
– Con nessuno, nemmeno con loro, doña María, – la rassicurò il Presidente. – Naturalmente. Mi permetta di dirle ancora una volta quanto ammiri il suo carattere, doña María. Senza di lei, il Benefattore non avrebbe mai fatto tutto quello che ha fatto.
Aveva conquistato un altro punto nella sua guerra di posizione contro Johnny Abbes García. La risposta di doña María Martínez risultava prevedibile: l’avidità era in lei piú forte di qualunque altra passione. In effetti, al dottor Balaguer la Prestante Dama incuteva un certo rispetto. Per riuscire a stare tanti anni accanto a Trujillo, prima come amante, poi come moglie, la Españolita doveva essersi liberata man mano di ogni debolezza, di ogni sentimento – soprattutto, della pietà –, ed essersi rifugiata nel calcolo, un freddo calcolo, e, forse, anche nell’odio.
La reazione di Ramfis, invece, lo sorprese. Due ore dopo essere arrivato con Radhamés, con il playboy Porfirio Rubirosa e con un gruppo di amici sull’aereo noleggiato all’Air France, alla Base di San Isidro – Balaguer era stato il primo ad abbracciarlo, ai piedi della scaletta –, e già rasato e vestito con la sua uniforme di generale a quattro stelle, si presentò al Palacio Nacional per rendere omaggio al padre. Non pianse, non aprí bocca. Era livido e con una strana espressione sul viso afflitto e arrogante, di sorpresa, di stupore, di rifiuto, come se quella figura distesa, in abito da cerimonia, con il petto pieno di decorazioni, sistemata nella cassa sontuosa, circondata di candelabri, in quella camera colma di corone funebri, non potesse né dovesse trovarsi lí, come se, essendoci, rivelasse una falla nell’ordine dell’Universo. Rimase a lungo a guardare il cadavere del padre, facendo smorfie che non riusciva a trattenere; sembrava che i muscoli della sua faccia cercassero di allontanare un’invisibile ragnatela appiccicata alla sua pelle. «Io non sarò generoso come tu lo sei stato con i tuoi nemici», gli sentí dire alla fine. Allora il dottor Balaguer, che era al suo fianco, vestito rigorosamente a lutto, gli disse all’orecchio: «È indispensabile che parliamo qualche minuto, generale. Lo so che è un momento molto difficile per lei. Però ci sono questioni non rinviabili». Dominandosi, Ramfis annuí. Andarono, da soli, nell’ufficio di Presidenza. Lungo il tragitto, vedevano dalle finestre la gigantesca, proliferante folla, alla quale continuavano a unirsi gruppi di uomini e di donne che arrivavano dalle periferie di Ciudad Trujillo e dai paesi vicini. La coda, su file di quattro o cinque persone, era lunga diversi chilometri e le guardie armate riuscivano a stento a contenerla. Erano molte ore che stavano aspettando. C’erano scene strazianti, pianti, manifestazioni isteriche tra quelli che avevano ormai raggiunto le gradinate del Palacio e si sentivano vicini alla camera ardente del Generalissimo.
Il dottor Joaquín Balaguer sapeva che da quella conversazione dipendeva il suo futuro e quello della Repubblica Dominicana. Per questo, decise una cosa che faceva soltanto in casi estremi, perché andava contro la sua naturale cautela: giocare il tutto per tutto, in una specie di improvvisa impennata. Attese che il figlio maggiore di Trujillo fosse seduto davanti alla sua scrivania – attraverso le finestre si muoveva, come un mare agitato, l’immensa folla accalcata, in attesa di arrivare vicino al cadavere del Benefattore – e, sempre con i suoi modi calmi, senza rivelare la benché minima emozione, gli disse ciò che aveva accuratamente preparato:
– Da lei, e soltanto da lei, dipende se potrà sopravvivere qualcosa, molto o niente dell’opera realizzata da Trujillo. Se la sua eredità scompare, la Repubblica Dominicana sprofonderà di nuovo nella barbarie. Torneremo a contendere a Haití, come prima del 1930, il titolo di nazione piú miserabile e violenta dell’emisfero occidentale.
Per il lungo tempo durante il quale parlò, Ramfis non lo interruppe neppure una volta. Lo stava ad ascoltare? Non annuiva né faceva cenno di no, i suoi occhi, fissi su di lui per una parte di quel tempo, a tratti si distoglievano, e il dottor Balaguer si diceva che con sguardi simili dovevano essere iniziate quelle crisi di alienazione e di depressione estrema, per le quali era stato rinchiuso in cliniche psichiatriche in Francia e in Belgio. Ma, se lo stava a sentire, Ramfis avrebbe preso in considerazione le sue ragioni. Perché, sebbene fosse un ubriacone, uno scapestrato, privo di vocazione politica e di pulsioni civiche, un uomo la cui sensibilità sembrava esaurirsi nei sentimenti che gli ispiravano le donne, i cavalli, gli aerei e le bevute, e che poteva essere crudele quanto il padre, gli risultava che fosse intelligente. Probabilmente, l’unico di quella famiglia con una testa capace di discernere ciò che si trovava al di là del suo naso, del suo ventre e del suo fallo. Aveva una mente veloce, acuta, che, se coltivata, avrebbe potuto dare frutti eccellenti. A quella intelligenza si rivolse il suo ragionamento, di una franchezza temeraria. Era convinto che fosse l’ultima carta rimastagli, se non voleva essere spazzato via come una cartaccia dai signori delle pistole.
Quando tacque, il generale Ramfis era ancora piú pallido di quando osservava il cadavere del padre.
– Lei potrebbe perdere la vita per metà delle cose che mi ha detto, dottor Balaguer.
– Lo so, generale. La situazione non mi lasciava alternative se non parlarle con sincerità. Le ho esposto l’unica politica che credo possibile. Se lei ne vede un’altra, complimenti. Ho le dimissioni pronte, qui, in questo cassetto. Devo presentarle al Congresso?
Ramfis fece cenno di no con il capo. Respirò a fondo e, dopo un momento, con la sua melodiosa voce di attore da teatro radiofonico, si spiegò:
– Seguendo altre strade, sono arrivato da tempo a conclusioni simili, – fece un movimento con le spalle, di rassegnazione. – È vero, non credo che ci sia un’altra politica. Per liberarci dai marines e dai comunisti, perché l’Osa e Washington ci tolgano le sanzioni. Accetto il suo piano. Ogni passo, ogni provvedimento, ogni accordo, lo dovrà discutere con me e attendere la mia approvazione. Il comando militare e la sicurezza sono cose mie. Non accetto interferenze, né da parte sua né da funzionari civili né dagli yanquis. Nessuno che sia stato collegato in maniera diretta o indiretta all’assassinio di papà deve rimanere senza castigo.
Il dottor Balaguer si alzò in piedi.
– So che lei lo adorava, – disse, solenne. – Depone a favore dei suoi sentimenti filiali il fatto che voglia vendicare quell’orrendo delitto. Nessuno, e io meno che mai, ostacolerà il suo impegno nel fare giustizia. Questo è anche il mio piú fervido desiderio.
Quando si fu accomiatato dal figlio di Trujillo, bevve un bicchiere d’acqua, a piccoli sorsi. Il suo cuore aveva ripreso il ritmo. Si era giocato la vita, ma la scommessa era stata vinta. Adesso, si trattava di mettere in moto quello che aveva deciso. Cominciò a farlo durante il funerale del Benefattore, nella chiesa di San Cristóbal. Il suo discorso funebre, pieno di commoventi elogi al Generalissimo, attenuati, tuttavia, da sibilline allusioni critiche, fece versare lacrime ad alcuni cortigiani sprovveduti, ne disorientò altri, fece alzare le sopracciglia di alcuni e lasciò molti confusi, ma si meritò le congratulazioni del corpo diplomatico. «Cominciano a cambiare le cose, signor Presidente», approvò il nuovo console degli Stati Uniti, da poco arrivato nell’isola. L’indomani, il dottor Balaguer convocò urgentemente il colonnello Abbes García. Non appena lo vide, con la faccia rigonfia corrosa dall’inquietudine – si asciugava il sudore con l’immancabile fazzoletto rosso –, si disse che il capo del Sim sapeva perfettamente perché si trovava lí.
– Mi ha convocato per informarmi che sono stato destituito? – gli domandò, senza salutarlo. Era in divisa, con i pantaloni un po’ calati e il berretto messo da un lato in modo comico; oltre alla pistola nella cintura, un mitra pendeva dalla sua spalla. Balaguer scorse dietro di lui le facce truculente di quattro o cinque guardaspalle, che non entrarono nell’ufficio.
– Per chiederle di accettare un incarico diplomatico, – disse il Presidente, con amabilità. La sua mano minuscola gli indicava una sedia. – Un patriota con talento può servire la patria in campi molto diversi.
– Dov’è questo esilio dorato? – Abbes García non celava la propria frustrazione né la propria collera.
– In Giappone, – disse il Presidente. – Ho appena firmato la sua nomina, come console. Lo stipendio e le spese di rappresentanza saranno da ambasciatore.
– Non poteva mandarmi piú lontano?
– Non è stato possibile, – si scusò il dottor Balaguer, senza ironia. – L’unico paese piú distante è la Nuova Zelanda, ma non abbiamo relazioni diplomatiche.
Il tarchiato personaggio si mosse sulla sedia, sbuffando. Una riga gialla, di infinita contrarietà, circondava la pupilla dei suoi occhi sporgenti. Tenne per un momento il fazzoletto rosso accanto alle labbra, come se stesse per sputarci.
– Lei crede di aver vinto, dottor Balaguer, – disse, insolente. – Ma si sbaglia. Lei è considerato parte di questo regime quanto lo sono io. Macchiato quanto me. Nessuno si berrà il giochino machiavellico grazie al quale lei potrebbe guidare la transizione verso la democrazia.
– È possibile che io fallisca, – ammise Balaguer, senza ostilità. – Ma devo tentare. Per questo, alcuni devono essere sacrificati. Mi dispiace che lei sia il primo, ma non ci sono alternative: rappresenta la faccia peggiore del regime. Una faccia necessaria, eroica, tragica, lo so. Me lo ricordava, seduto sulla sedia su cui si trova lei in questo momento, lo stesso Generalissimo. Ma è proprio questo che adesso la rende non salvabile. Lei è intelligente, non ho bisogno di spiegarglielo. Non crei complicazioni inutili al governo. Vada all’estero e rispetti la discrezione. Le conviene allontanarsi, rendersi invisibile fino a quando non la dimenticheranno. Ha molti nemici. E quanti paesi vorrebbero mettere le mani su di lei. Stati Uniti, Venezuela, l’Interpol, l’Fbi, Messico, tutto il Centroamerica. Lei ne è informato meglio di me. Il Giappone è un luogo sicuro, e tanto piú se si possiede uno status diplomatico. Mi risulta che si è sempre interessato allo spiritualismo. La dottrina rosacrociana, no? Ne approfitti per approfondire quegli studi. Del resto, se vuole stabilirsi in un altro posto, non mi dica dove, per favore, continuerà a percepire il suo stipendio. Ho firmato un dispositivo di spesa eccezionale, per il trasferimento e la sistemazione. Duecentomila pesos, che può ritirare presso la Tesoreria. Buona fortuna.
Non gli porse la mano perché immaginava che l’ex militare (il giorno prima aveva firmato il decreto che lo rimuoveva dall’Esercito) non gliel’avrebbe stretta. Abbes García rimase per un bel po’ immobile, con le pupille iniettate, a osservarlo. Ma il Presidente sapeva che, essendo un uomo esperto, anziché reagire con una sciocca bravata, avrebbe accettato il male minore. Lo vide che si alzava e si allontanava, senza salutarlo. Lui stesso dettò a un segretario il comunicato in cui si informava che l’ex colonnello Abbes García si era dimesso dal Servicio de Inteligencia per assolvere una missione all’estero. Due giorni dopo, «El Caribe», tra gli annunci a cinque colonne sulla morte e la cattura degli assassini del Generalissimo, pubblicava un riquadro in cui il dottor Balaguer vedeva Abbes García, intabarrato in un soprabito a righe e con una bombetta degna di un personaggio di Dickens, salire la scaletta dell’aereo.
Allora, il Presidente aveva già deciso che il nuovo leader parlamentare, incaricato di orientare discretamente il Congresso verso posizioni piú accettabili per gli Stati Uniti e per la comunità occidentale, non sarebbe stato Agustín Cabral, ma il senatore Henry Chirinos. Lui avrebbe preferito Cerebrito, la cui sobrietà nei comportamenti coincideva con il suo modo d’essere, in quanto l’alcolismo del Costituzionalista Sbronzo gli ripugnava. Ma scelse l’altro perché riabilitare di colpo un uomo caduto in disgrazia per una decisione recente di Sua Eccellenza avrebbe potuto irritare personaggi della cupola trujillista, dei quali aveva ancora bisogno. Non li si poteva provocare troppo, non ancora. Chirinos era ripugnante sul piano fisico e su quello morale; ma il suo talento di intrigante e di leguleio era senza limiti. Nessuno meglio di lui conosceva i sotterfugi parlamentari. Non erano mai stati amici – a causa dell’alcol, che causava orrore a Balaguer – ma, non appena fu convocato al Palacio e il Presidente gli comunicò quello che si aspettava da lui, il senatore esultò, e altrettanto fece quando gli chiese di favorire, nel modo piú rapido e invisibile, il trasferimento all’estero di fondi per la Prestante Dama. («Nobile preoccupazione la sua, signor Presidente: garantire il futuro di una illustre donna in disgrazia»). Quella volta, il senatore Chirinos, ancora all’oscuro di quello che si stava preparando, gli confessò che aveva avuto l’onore di informare il Sim che Antonio de la Maza e il generale Juan Tomás Díaz si aggiravano per la ciudad colonial (li aveva riconosciuti su un’auto parcheggiata davanti alla casa di un amico, in calle Espaillat) e gli chiese i suoi buoni uffici per ottenere da Ramfis la ricompensa che offriva per qualunque informazione che gli avesse consentito di catturare gli assassini di suo padre. Il dottor Balaguer gli consigliò di desistere dal richiedere quella ricompensa e di non rendere pubblica quella delazione patriottica: avrebbe potuto compromettere il suo futuro politico in maniera irrimediabile. Colui che Trujillo chiamava tra intimi Inmundicia Viviente capí subito:
– Mi permetta di congratularmi con lei, signor Presidente, – esclamò, gesticolando, come se si trovasse in alto su una tribuna. – Ho sempre pensato che il regime si sarebbe dovuto aprire ai tempi nuovi. Scomparso il Capo, nessuno meglio di lei per tenere a bada la tempesta e condurre la nave dominicana verso il porto della democrazia. Conti su di me quale suo collaboratore, il piú leale e il piú dedito.
Lo fu, in effetti. Lui presentò al Congresso la mozione che assegnava al generale Ramfis Trujillo i poteri supremi nella gerarchia delle Forze Armate e la massima autorità in tutte le questioni militari e poliziesche della Repubblica, e lui istruí deputati e senatori circa la nuova politica, propugnata dal Presidente, destinata non a negare il passato né a rinnegare l’Era di Trujillo, ma a superarla dialetticamente, conciliandola ai tempi nuovi, in modo che Quisqueya, man mano che – senza compiere un solo passo indietro – perfezionava la propria democrazia, venisse accolta di nuovo, dalle sue sorelle americane, nell’Osa e, revocate le sanzioni, reincorporata nella comunità internazionale. In una delle sue frequenti riunioni di lavoro con il Presidente Balaguer, il senatore Chirinos domandò, non senza una certa inquietudine, quali piani Sua Eccellenza avesse nei confronti dell’ex senatore Agustín Cabral.
– Ho ordinato che gli fosse resa la disponibilità dei suoi conti bancari e che gli venissero riconosciuti i servizi prestati allo Stato, affinché adesso possa almeno ricevere una pensione, – lo informò Balaguer. – Per il momento, il suo ritorno alla vita politica non sembra opportuno.
– Siamo pienamente d’accordo, – approvò il senatore. – Cerebrito, a cui mi lega un vecchio rapporto d’amicizia, suscita conflitti e ridesta inimicizie.
– Lo Stato può usare il suo talento, sempre che non appaia troppo alla ribalta, – aggiunse il Presidente. – Gli ho proposto una consulenza legale nell’amministrazione.
– Saggia scelta, – approvò ancora Chirinos. – Agustín ha sempre avuto una mente giuridica molto fine.
Erano passate appena cinque settimane dalla morte del Generalissimo e i cambiamenti erano stati considerevoli. Joaquín Balaguer non si poteva lamentare: in quel brevissimo tempo, da Presidente burattino, un signor nessuno, era diventato l’autentico Capo dello Stato, carica che riconoscevano amici e nemici, e, soprattutto, gli Stati Uniti. Sebbene fossero stati reticenti all’inizio, quando aveva spiegato i suoi piani al nuovo console, adesso prendevano piú sul serio la sua promessa di voler portare a poco a poco il paese verso una piena democrazia, nel rispetto dell’ordine, senza permettere che ne approfittassero i comunisti. Ogni due o tre giorni faceva riunioni con lo sbrigativo John Calvin Hill – un diplomatico con un corpaccio da cowboy, che parlava senza tanti giri di parole – ed era riuscito a convincerlo che, in quella fase, bisognava avere Ramfis come alleato. Il generale aveva accettato il suo piano di graduale apertura. Aveva nelle mani il controllo delle cose militari e, grazie a questo, quelle bestie simili a gangster di Petán e di Héctor, come pure la rozza soldataglia imparentata con Trujillo, stavano in riga. Altrimenti, lo avrebbero già deposto. Forse Ramfis credeva che, con le concessioni che lui elargiva a Balaguer – il rientro di alcuni esuli, la comparsa di una timida critica al regime di Trujillo nelle radio e sui giornali (il piú combattivo era uno nuovo, che era uscito ad agosto, «La Unión Cívica»), le riunioni pubbliche delle forze d’opposizione che cominciavano a conquistare la strada, l’Unión Cívica Nacional di Viriato Fiallo e Ángel Severo Cabral, che era di destra, e il Movimiento Revolucionario 14 de Junio, di sinistra –, avrebbe potuto avere, lui, un futuro politico. Come se qualcuno che di cognome faceva Trujillo potesse figurare ancora nella vita pubblica del paese! Per il momento, meglio lasciarlo nel suo errore. Ramfis aveva i cannoni sotto controllo e poteva contare sull’appoggio dei militari; decomporre le Forze Armate fino a estirpare da esse il trujillismo avrebbe richiesto tempo. I rapporti del governo con la Chiesa erano di nuovo eccellenti; lui prendeva il tè a volte con il nunzio apostolico e con l’arcivescovo Pittini.
Il problema che non poteva essere risolto in maniera accettabile per l’opinione internazionale era «i diritti umani». C’erano quotidiane proteste per i prigionieri politici, i torturati, i desaparecidos, gli assassinati a La Victoria, El Nueve, La Cuarenta, e nelle carceri e nelle caserme dell’interno. Nel suo ufficio arrivavano fiumi di manifesti, lettere, telegrammi, rapporti, note diplomatiche. Non poteva fare molto. O meglio, non poteva fare niente, se non vaghe promesse, e guardare dall’altra parte. Rispettava i patti lasciando a Ramfis mano libera. Anche se lo avesse voluto, non avrebbe potuto non rispettare l’impegno assunto. Il figlio del Generalissimo aveva mandato doña María e Angelita in Europa, e proseguiva, instancabile, a cercare complici, come se la cospirazione per uccidere Trujillo fosse stata composta da una folla di persone. Un giorno, il giovane generale gli domandò a bruciapelo:
– Lo sa che Pedro Livio Cedeño ha cercato di coinvolgerla nella congiura per uccidere papà?
– Non mi meraviglia, – sorrise il Presidente, senza mutare espressione. – La migliore difesa degli assassini è compromettere tutti quanti. Soprattutto, persone vicine al Benefattore. I francesi chiamano questa cosa «intossicazione».
– Se soltanto un altro degli assassini lo avesse confermato, lei avrebbe potuto conoscere la stessa sorte di Pupo Román, – Ramfis sembrava sobrio, nonostante l’alito che emanava. – In questi momenti, maledice di essere nato.
– Non lo voglio sapere, generale, – lo interruppe Balaguer, allungando una manina verso di lui. – Lei ha il diritto morale di vendicare il delitto. Ma non scenda in particolari, la prego. È piú facile affrontare le critiche che ricevo dal mondo intero se non mi consta che gli eccessi denunciati sono veri.
– Molto bene. La informerò soltanto della cattura di Antonio Imbert e di Luis Amiama, se li cattureremo –. Balaguer vide che la sua faccia da damerino si smarriva, come sempre gli accadeva quando citava i due unici partecipanti al complotto che non erano prigionieri né morti. – Lei crede che siano ancora nel paese?
– Secondo la mia opinione, sí, – affermò Balaguer. – Se fossero fuggiti all’estero, avrebbero convocato conferenze stampa, ricevuto premi, apparirebbero in tutte le televisioni. Si starebbero godendo la loro presunta condizione di eroi. Sono ancora nascosti da queste parti, senza dubbio.
– Allora, prima o poi, cadranno in trappola, – mormorò Ramfis. – Ho migliaia di uomini che li cercano, casa per casa, buco per buco. Se rimangono nella Repubblica Dominicana, cadranno in trappola. E, altrimenti, non c’è posto al mondo dove potranno evitare di pagare per la morte di papà. Anche se dovrò spendere in questo fino all’ultimo centesimo.
– Desidero che si realizzino i suoi desideri, generale, – disse un comprensivo Balaguer. – Mi permetta di rivolgerle una richiesta. Cerchi di rispettare la forma. La delicata operazione di mostrare al mondo che questo paese si sta aprendo alla democrazia finirebbe in nulla se ci fosse uno scandalo. Un altro caso Galíndez, diciamo, o un altro caso Betancourt.
Soltanto in quello che riguardava i cospiratori il figlio del Generalissimo era inflessibile. Balaguer non perdeva tempo a intercedere per la loro liberazione – la sorte dei detenuti era segnata, e lo sarebbe stata anche quella di Imbert e di Amiama se li avessero catturati –, cosa che, del resto, non era molto certo che avrebbe favorito i suoi piani. I tempi mutavano, in effetti. I sentimenti della folla erano volubili. Il popolo dominicano, trujillista alla morte fino al 30 maggio 1961, avrebbe strappato gli occhi e il cuore a Juan Tomás Díaz, Antonio de la Maza, Estrella Sadhalá, Luis Amiama, Huáscar Tejeda, Pedro Livio Cedeño, Fifí Pastoriza, Antonio Imbert e soci, se fossero stati messi alla loro portata. Ma la consustanziazione mistica con il Capo, in cui il dominicano aveva vissuto trentuno anni, si andava eclissando. Le manifestazioni di strada convocate dagli studenti, dall’Unión Cívica, dal 14 de Junio, dapprima rachitiche, di gruppetti di timorosi, dopo un mese, due mesi, tre mesi, si erano moltiplicate. Non soltanto a Santo Domingo (il Presidente Balaguer aveva preparato la mozione per restituire il suo vero nome a Ciudad Trujillo, che il senatore Chirinos avrebbe fatto approvare dal Congresso per acclamazione al momento opportuno), dove a volte riempivano il parco Independencia; anche a Santiago, La Romana, San Francisco de Macorís e in altre città. Si andava perdendo la paura e cresceva il rifiuto di Trujillo. Il suo fino olfatto storico diceva al dottor Balaguer che quel nuovo sentimento sarebbe cresciuto, irresistibile. E, in un clima di antitrujillismo popolare, gli assassini di Trujillo sarebbero diventati potenti figure politiche. A chi conveniva? Per questo liquidò un timido tentativo della Inmundicia Viviente, quando, come leader parlamentare del nuovo movimento balaguerista, era venuto a domandargli se non credeva che un intervento del Congresso in cui si amnistiavano i cospiratori del 30 maggio non avrebbe convinto l’Osa e gli Stati Uniti a revocare le sanzioni.
– L’intenzione è buona, senatore. Ma le conseguenze? L’amnistia ferirebbe i sentimenti di Ramfis, che farebbe assassinare immediatamente tutti gli amnistiati. I nostri sforzi potrebbero finire in nulla.
– Non smetterà mai di sorprendermi l’acutezza del suo intuito, – esclamò il senatore Chirinos, poco meno che applaudendo.
Al di fuori di questo tema, Ramfis Trujillo – che viveva abbandonandosi a sbronze quotidiane nella Base di San Isidro e nella sua casa in riva al mare, a Boca Chica, dove si era portato, accompagnata dalla madre, la sua ultima amante, una ballerina del Lido di Parigi, e lasciato in quella città, incinta, la moglie ufficiale, la giovane attrice Lita Milán – aveva mostrato una certa disponibilità, anche piú di quanto si aspettasse Balaguer. Si rassegnò a che si restituisse a Ciudad Trujillo il nome di Santo Domingo, e che venissero ribattezzate le città, le località, le strade, le piazze, le entità geografiche, i ponti chiamati Generalissimo, Ramfis, Angelita, Radhamés, doña Julia o doña María, e non insisteva a voler punire troppo gli studenti, i sovversivi e i vagabondi che danneggiavano statue, placche, busti, foto e cartelli di Trujillo e famiglia per le strade, nei viali, nei parchi e nelle autostrade. Senza discutere accettò il suggerimento del dottor Balaguer di cedere allo Stato, cioè al popolo, «con un gesto di patriottica magnanimità», le terre, le fincas e le aziende agricole del Generalissimo e dei figli. Ramfis lo fece, con una lettera pubblica. In questo modo, lo Stato diventò padrone del quaranta per cento di tutte le terre coltivabili, il che lo trasformò, dopo quello cubano, nello Stato con piú aziende nel continente. E il generale Ramfis teneva tranquilli gli animi di quei bruti degenerati, i fratelli del Capo, che la sistematica scomparsa degli orpelli e dei simboli del trujillismo lasciava perplessi.
Una sera, dopo aver consumato con le sorelle l’austero menu di tutti i giorni, brodo di pollo, riso in bianco, insalata e dulce de leche, mentre si alzava da tavola per andare a dormire, svenne. Perse conoscenza soltanto per alcuni secondi, ma il dottor Félix Goico lo mise sull’avviso: se avesse continuato a lavorare con quel ritmo, prima della fine dell’anno il suo cuore o il suo cervello sarebbero esplosi come una granata. Doveva riposare di piú – dalla morte di Trujillo dormiva soltanto tre o quattro ore –, fare esercizio fisico, e nei fine settimana distrarsi. Si costrinse a rimanere a letto per cinque ore ogni notte, e dopo mangiato camminava, anche se, per evitare associazioni compromettenti, lontano da avenida George Washington; andava all’ex parco Ramfis, ribattezzato parco Eugenio María de Hostos. E la domenica, dopo la messa, per rilassarsi, leggeva un paio d’ore poesie romantiche o moderniste, o i classici castigliani del Siglo de Oro. A volte, qualche risentito lo insultava per la strada – «Balaguer, pupazzo di carta!» –, ma la maggior parte delle volte gli mandavano un saluto: «Salve, Presidente». Li ringraziava, cerimonioso, togliendosi il cappello, che si abituò a tenere calcato fino alle orecchie per non farselo rubare dal vento.
Quando, il 2 ottobre 1961, annunciò all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, a New York, che «nella Repubblica Dominicana sta nascendo una democrazia autentica e un nuovo stato di cose», riconobbe, di fronte a quel centinaio di delegati, che la dittatura di Trujillo era stata anacronistica, una feroce conculcatrice di libertà e diritti. E chiese alle nazioni libere di aiutarlo a restituire la legge e la libertà ai dominicani. Pochi giorni dopo ricevette un’amara lettera da doña María Martínez, da Parigi. La Prestante Dama lamentava che il Presidente avesse tracciato un quadro «ingiusto» dell’Era di Trujillo, senza ricordare «tutte le cose buone che ha fatto mio marito, e per cui lei stesso tanto lo ha elogiato nell’arco di trentuno anni». Non era María Martínez a preoccupare il Presidente, ma i fratelli di Trujillo. Sapeva che Petán e Negro avevano avuto una riunione tempestosa con Ramfis, che avevano messo di fronte a questo quesito: avrebbe lasciato che quel ficcanaso andasse all’Onu a prendere in giro il loro padre? Era arrivato il momento di cacciarlo via dal Palacio Nacional e di riportare la famiglia Trujillo al potere, come reclamava il popolo! Ramfis spiegò che se avesse fatto il colpo di Stato, l’invasione dei marines sarebbe stata inevitabile: lo aveva avvertito John Calvin Hill in persona. L’unica possibilità per conservare qualcosa era serrare le fila dietro quella fragile legalità: il Presidente. Balaguer manovrava con astuzia per ottenere che l’Osa e lo State Department revocassero le sanzioni. Per questo si trovava costretto a pronunciare discorsi come quello dell’Onu, opposto alle sue convinzioni.
Tuttavia, nell’incontro che ebbe con il capo dello Stato poco dopo il suo ritorno da New York, il figlio di Trujillo si mostrò molto meno tollerante. La sua animosità era tale da far sembrare inevitabile la rottura.
– Ha intenzione di continuare ad attaccare papà, come ha fatto all’Assemblea Generale? – seduto sulla sedia che era stata occupata dal Capo nella loro ultima riunione, poche ore prima che lo uccidessero, Ramfis parlava senza guardarlo, con gli occhi fissi in direzione del mare.
– Non ho alternative, generale, – annuí il Presidente, addolorato. – Se voglio che credano che tutto sta cambiando, che il paese si apre alla democrazia, devo fare un esame autocritico del passato. È doloroso per lei, lo so. Non lo è meno per me. La politica richiede degli strappi, a volte.
Per un bel po’ Ramfis rimase senza rispondere. Aveva bevuto? Era drogato? Stava arrivando una di quelle crisi psichiche che lo spingevano alle porte della pazzia? Con grandi occhiaie bluastre, gli occhi accesi e inquieti, faceva una strana smorfia.
– Gliel’ho già spiegato, – aggiunse Balaguer. – Mi sono attenuto strettamente a ciò che abbiamo concordato. Lei ha approvato il mio progetto. Ma, naturalmente, è sempre valido quello che le dissi allora. Se preferisce prendere le redini, non ha bisogno di far uscire i carri armati da San Isidro. Le consegno le mie dimissioni immediatamente.
Ramfis lo guardò a lungo, con fastidio.
– Tutti me lo chiedono, – mormorò, senza entusiasmo. – I miei zii, i comandanti delle regioni, i militari, i miei cugini, gli amici di papà. Ma io non mi voglio sedere lí dov’è lei. A me quell’incarico non mi piace, dottor Balaguer. Per che cosa? Per farmi pagare come pagano lei?
Tacque, con profondo sconforto.
– Allora, generale, se lei non vuole il potere, mi aiuti a esercitarlo.
– Ancora di piú? – rispose Ramfis, con tono di beffa. – Se non fosse per me, i miei zii l’avrebbero fatta fuori a colpi di pistola già da un bel po’.
– Non è sufficiente, – replicò Balaguer. – Lei vede quale agitazione c’è nelle strade. Le manifestazioni dell’Unión Cívica e del 14 de Junio sono ogni giorno piú violente. E questo peggiorerà se non prendiamo il sopravvento.
Tornò il colorito sulla faccia del figlio del Generalissimo. Aspettava con la testa sporta in avanti, come se si stesse domandando se il Presidente avrebbe osato chiedergli quello che sospettava.
– I suoi zii se ne devono andare, – disse dolcemente il dottor Balaguer. – Finché rimarranno qui, né la comunità internazionale né l’opinione pubblica crederanno al cambiamento. Soltanto lei li può convincere.
Lo avrebbe insultato? Ramfis lo guardava con stupore, come se non credesse a quello che aveva sentito. Ci fu un’altra lunga pausa.
– Chiederà anche a me di andarmene da questo paese che è stato fatto da papà, affinché la gente si beva la fesseria dei tempi nuovi?
Balaguer attese qualche secondo.
– Sí, anche, – sussurrò, con il fiato sospeso. – Anche a lei. Non ancora. Dopo che avrà fatto andar via i suoi zii. Dopo avermi aiutato a consolidare il governo, aver fatto capire alle Forze Armate che Trujillo non è piú qui. Questa non è una novità per lei, generale. L’ha sempre saputo. Che la cosa migliore per lei, per la sua famiglia e per i suoi amici, è che questo progetto vada avanti. Con l’Unión Cívica o il 14 de Junio al potere, sarebbe peggio.
Non estrasse la pistola, non gli sputò. Impallidí di nuovo, fece ancora quella smorfia da alienato. Accese una sigaretta e aspirò diverse volte, osservando come si disperdeva il fumo.
– Me ne sarei già andato, da un pezzo, fuori da questo paese di coglioni e di ingrati, – biascicò. – Se avessi trovato Amiama e Imbert, già non sarei piú qui. Sono gli unici che mancano. Quando avrò mantenuto la promessa che ho fatto a papà, me ne andrò.
Il Presidente lo informò di aver autorizzato il ritorno dall’esilio di Juan Bosch e dei suoi compagni del Partido Revolucionario Dominicano. Gli sembrò che il generale non stesse ad ascoltare le sue spiegazioni, per cui Bosch e il Prd si sarebbero impelagati in una lotta spietata con l’Unión Cívica e il 14 de Junio per il ruolo di leader dell’antitrujillismo. E che, in questo modo, avrebbero prestato un buon servizio al governo. Perché la cosa davvero pericolosa erano i signori dell’Unión Cívica Nacional, tra i quali c’erano persone danarose e conservatrici con influenza negli Stati Uniti, come Severo Cabral; e questo lo sapeva bene Juan Bosch, che avrebbe fatto tutto il consentito – e forse anche ciò che non lo era – per frenare l’ascesa al governo di un tanto poderoso concorrente.
Rimanevano ancora all’incirca duecento complici, reali o presunti, della congiura a La Victoria, e quelle persone, dopo che i Trujillo se ne fossero andati, sarebbe stato opportuno amnistiarle. Ma Balaguer sapeva che il figlio di Trujillo non avrebbe mai lasciato andare, liberi, gli esecutori dell’attentato ancora vivi. Si sarebbe accanito su di loro, come sul generale Román, che aveva torturato per quattro mesi prima di annunciare che si era suicidato per il rimorso del suo tradimento (il cadavere non fu mai trovato), e su Modesto Díaz, che, se era vivo, doveva ancora essere vittima dei suoi maltrattamenti. Il problema era che i prigionieri – l’opposizione li chiamava «giustizieri» – deturpavano la nuova faccia che lui voleva dare al regime. Continuamente arrivavano missioni, delegazioni, politici e giornalisti stranieri a interessarsi di loro, e il Presidente doveva compiere acrobazie per spiegare la ragione per cui non erano stati ancora processati, giurare che la loro vita sarebbe stata rispettata e che al processo, ineccepibile, avrebbero assistito osservatori internazionali. Perché Ramfis non li aveva ancora uccisi, come aveva fatto con quasi tutti i fratelli di Antonio de la Maza – Mario, Bolívar, Ernesto, Pirolo, e molti cugini, nipoti e zii, assassinati a spari o a botte il giorno stesso del loro arresto –, anziché tenerli in attesa di esecuzione, con il conseguente fermento degli oppositori? Balaguer sapeva che il sangue dei giustizieri sarebbe schizzato anche su di lui: era il toro da corrida che gli restava ancora da toreare.
Pochi giorni dopo quella conversazione, una telefonata di Ramfis gli portò un’eccellente notizia: aveva convinto gli zii. Dunque, Petán e Negro sarebbero partiti per delle lunghe vacanze. Il 25 ottobre Héctor Bienvenido salí con la moglie nordamericana su un aereo per la Giamaica. E Petán salpò con la fregata Presidente Trujillo per una presunta crociera nel Caribe. Il console John Calvin Hill confessò a Balaguer che, adesso sí, aumentavano le possibilità che venissero revocate le sanzioni.
– Ma che non si tardi troppo, signor console, – lo incalzò il Presidente. – Ogni giorno, la Repubblica ci si asfissia un po’ di piú.
Le imprese industriali erano quasi paralizzate dall’incertezza politica e dalle limitazioni per importare materie prime; i negozi, vuoti a causa del crollo delle entrate. Ramfis svendeva le ditte non registrate a nome dei Trujillo e le azioni al portatore, e la Banca Centrale doveva trasferire quelle somme, trasformate in valuta estera all’irreale cambio ufficiale di un peso contro un dollaro, in banche del Canada e d’Europa. La famiglia non aveva trasferito all’estero tanta valuta quanto il Presidente aveva temuto: doña María dodici milioni di dollari, Angelita tredici, Radhamés diciassette e, fino a quel momento, Ramfis circa ventidue, il che ammontava in totale a sessantaquattro milioni di dollari. Sarebbe potuta andare peggio. Ma le riserve stavano per finire e tra breve non sarebbe piú stato possibile pagare soldati, maestri e dipendenti pubblici.
Il 15 novembre, il ministro dell’Interno lo chiamò agitato: i generali Petán e Héctor Trujillo erano rientrati in modo del tutto imprevisto. Lo invitò a chiedere asilo; da un momento all’altro sarebbe scoppiato il colpo di Stato militare. Il grosso dell’Esercito li appoggiava. Balaguer convocò d’urgenza il console Calvin Hill. Gli spiegò la situazione. A meno che Ramfis non lo avesse impedito, molte guarnigioni avrebbero appoggiato Petán e Negro nel loro tentativo insurrezionale. Ci sarebbero stati una guerra civile dagli incerti risultati e un massacro generalizzato di antitrujillisti. Il console sapeva tutto. A sua volta lo informò che il Presidente Kennedy, in persona, aveva appena ordinato l’invio di una flotta da guerra. Provenienti da Puerto Rico, facevano rotta verso le coste dominicane la portaerei Valley Forge, l’incrociatore Little Rock, nave ammiraglia della Seconda Flotta, e i cacciatorpediniere Hyman, Bristol e Beatty. Circa duemila marines sarebbero sbarcati in caso di colpo di Stato.
In una breve conversazione telefonica con Ramfis – aveva cercato di mettersi in contatto con lui per quattro ore prima di riuscirvi –, questi gli diede una notizia orribile. Aveva avuto una violenta discussione con gli zii. Non se ne sarebbero andati dal paese. Ramfis li aveva avvertiti che, in tal caso, se ne sarebbe andato lui.
– Che cosa succederà adesso, generale?
– Che a partire da questo momento lei rimane da solo nella gabbia delle belve, signor Presidente, – rise Ramfis. – Buona fortuna.
Il dottor Balaguer chiuse gli occhi. Le ore, i giorni seguenti sarebbero stati cruciali. Che cosa pensava di fare il figlio di Trujillo? Partire? Spararsi un colpo? Se ne sarebbe andato a Parigi, a raggiungere la moglie, la madre e i fratelli, a consolarsi con feste, partite di polo e donne nella bella casa che aveva comprato a Neuilly. Aveva già portato fuori tutto il denaro che poteva; lasciava alcune proprietà immobiliari che presto o tardi sarebbero state sequestrate. Insomma, questo non era un problema. Lo erano le bestie irrazionali. I fratelli del Generalissimo avrebbero presto cominciato a sparare, la sola cosa che sapevano fare con abilità. In tutte le liste di nemici da liquidare che, secondo le voci correnti, aveva preparato Petán, Balaguer figurava al primo posto. Cosicché, come diceva un proverbio che gli piaceva citare, bisognava «guadare questo fiume pian piano e passando sui sassi». Non aveva paura, provava soltanto tristezza all’idea che la squisita opera di cesello che aveva messo in moto finisse rovinata dal colpo di pistola di uno spaccone.
All’alba del giorno seguente, il suo ministro dell’Interno lo svegliò per informarlo che un gruppo di militari aveva trafugato il cadavere di Trujillo dalla sua sepoltura nella chiesa di San Cristóbal. Lo avevano trasportato a Boca Chica, dove, di fronte all’imbarcadero privato del generale Ramfis, era attraccato lo yacht Angelita.
– Non ho sentito niente, signor ministro, – lo interruppe Balaguer. – Lei non mi ha detto niente, d’altra parte. Le consiglio di riposare qualche ora. Ci aspetta un giorno molto lungo.
All’opposto di quanto aveva consigliato al ministro, lui non si dedicò al riposo. Ramfis non sarebbe partito senza aver liquidato gli assassini del padre e questo assassinio avrebbe potuto mandare in frantumi i suoi laboriosi sforzi di quegli ultimi mesi per convincere il mondo che, con lui alla Presidenza, la Repubblica si stava trasformando in una democrazia, senza guerre civili e senza il caos temuto dagli Stati Uniti e dalle classi dirigenti dominicane. Ma che cosa poteva fare? Qualunque suo ordine riguardante i prigionieri che avesse contraddetto quelli di Ramfis sarebbe stato disatteso e avrebbe messo in evidenza la sua assoluta mancanza di autorità sulle Forze Armate.
Tuttavia, misteriosamente, al di là del proliferare di voci circa imminenti sollevazioni armate e massacri di civili, né il 16 né il 17 novembre successe nulla. Lui continuò a sbrigare gli affari correnti, come se il paese si stesse godendo la piú totale tranquillità. Al tramonto del 17 venne informato che Ramfis aveva lasciato la sua casa sulla spiaggia. Poco dopo, lo videro scendere ubriaco da un’automobile e lanciare un insulto e una granata – che non esplose – contro la facciata dell’Hotel El Embajador. Da quel momento, non si sapeva piú dove si trovasse. Il mattino seguente, una commissione dell’Unión Cívica Nacional, presieduta da Ángel Severo Cabral, pretese di essere ricevuta immediatamente dal Presidente: era questione di vita o di morte. La ricevette. Severo Cabral era fuori di sé. Sventolava un foglio scarabocchiato in fretta da Huáscar Tejeda per la moglie Lindín, portata fuori di contrabbando da La Victoria, in cui si rivelava che i sei accusati della morte di Trujillo (compresi Modesto Díaz e Tunti Cáceres) erano stati separati dagli altri prigionieri politici per essere trasferiti in un’altra prigione. «Ci ammazzano, amore», concludeva la lettera. Il leader dell’Unión Cívica pretese che i prigionieri fossero messi nelle mani del Potere Giudiziario o liberati con un decreto presidenziale. Le mogli dei detenuti stavano manifestando alle porte del Palacio, con i loro avvocati. La stampa internazionale era stata avvisata, come pure lo State Department e le ambasciate occidentali.
Un allarmato dottor Balaguer assicurò loro che sarebbe intervenuto personalmente nella questione. Non avrebbe tollerato un crimine siffatto. Secondo le sue informazioni, il trasferimento dei sei congiurati aveva come scopo, piuttosto, accelerare le procedure. Si trattava di un puro e semplice espediente per la ricostruzione del delitto, dopo di che il processo sarebbe cominciato senza ulteriori indugi. E, naturalmente, con la presenza di osservatori della Corte Internazionale dell’Aja, che lui stesso avrebbe invitato nel paese.
Non appena furono usciti i rappresentanti dell’Unión Cívica, telefonò al procuratore generale della Repubblica, il dottor José Manuel Machado. Sapeva perché il capo della Polizia Nazionale, Marcos A. Jorge Moreno, aveva ordinato il trasferimento di Estrella Sadhalá, Huáscar Tejeda, Fifí Pastoriza, Pedro Livio Cedeño, Tunti Cáceres e Modesto Díaz nelle celle del Palazzo di Giustizia? Il procuratore generale della Repubblica non ne sapeva nulla. Reagí indignato: qualcuno usava indebitamente il nome del Potere Giudiziario, nessun giudice aveva ordinato una nuova ricostruzione del delitto. Mostrandosi molto inquieto, il Presidente affermò che era una cosa intollerabile. Avrebbe ordinato immediatamente al ministro della Giustizia di indagare a fondo, di chiarire le responsabilità e di incriminare chi del caso. Per lasciare tracce scritte di quanto stava facendo, dettò un promemoria al suo segretario, e ordinò di consegnarlo urgentemente al Ministero della Giustizia. Poi telefonò al ministro. Lo trovò frastornato:
– Non so che cosa fare, signor Presidente. Ho alla porta le mogli dei prigionieri. Ricevo pressioni da ogni parte perché io fornisca informazioni e io non so niente. Lei lo sa perché sono stati trasferiti nelle celle del Potere Giudiziario? Nessuno è in grado di spiegarmelo. Adesso li stanno portando sull’autostrada, per una nuova ricostruzione del delitto, che nessuno ha ordinato. Non c’è modo di arrivarci perché soldati della Base di San Isidro hanno recintato la zona. Che cosa devo fare?
– Vada di persona e pretenda una spiegazione, – lo istruí il Presidente. – È imprescindibile che vi siano testimoni del fatto che il governo ha tentato quanto ha potuto per impedire che venisse violata la legge. Si faccia accompagnare dai rappresentanti degli Stati Uniti e della Gran Bretagna.
Il dottor Balaguer chiamò di persona John Calvin Hill e lo pregò di appoggiare quell’intervento del ministro della Giustizia. Allo stesso tempo, lo informò che se, a quanto sembrava, il generale Ramfis si accingeva ad abbandonare il paese, i fratelli di Trujillo sarebbero passati all’azione.
Continuò a sbrigare pratiche, apparentemente assorto nell’occuparsi della critica situazione delle finanze. Non si mosse dall’ufficio all’ora di pranzo, e, lavorando insieme al segretario di Stato per le Finanze e al governatore della Banca Centrale, diede disposizione di non passare telefonate né di annunciare visitatori. Al tramonto, il suo segretario gli consegnò una nota del ministro della Giustizia, in cui lo informava che a lui e al console statunitense era stato impedito da soldati armati dell’Aviazione di avvicinarsi al luogo della ricostruzione del delitto. Gli confermava che nessuno al Ministero, alla procura né nei tribunali aveva chiesto, né era stato informato, di quell’atto, una decisione esclusivamente militare. Arrivato a casa, alle otto e mezza di sera, ricevette una telefonata dell’allora capo della Polizia, il colonnello Marcos A. Jorge Moreno. Il furgone con tre guardie armate che, assolto l’incarico giudiziario sull’autostrada, riportava i prigionieri a La Victoria, era scomparso.
– Non lesini gli sforzi per ritrovarli, colonnello. Mobiliti tutte le forze di cui ci sarà bisogno, – gli ordinò il Presidente. – Mi telefoni a qualunque ora.
Alle sorelle, inquiete per le voci secondo cui i Trujillo avevano assassinato nel pomeriggio quelli che avevano ucciso il Generalissimo, disse di non sapere nulla. Probabilmente, invenzioni degli estremisti per accrescere il clima di agitazione e di incertezza. Mentre le tranquillizzava con le sue bugie, rifletteva: Ramfis sarebbe dovuto partire quella notte, se non lo aveva già fatto. Lo scontro con i fratelli Trujillo doveva avvenire all’alba, allora. Lo avrebbero fatto catturare? Lo avrebbero ammazzato? I loro minuscoli cervelli erano capaci di credere che, uccidendolo, avrebbero potuto interrompere un meccanismo storico che, ben presto, li avrebbe cancellati dalla politica dominicana. Non provava inquietudine, soltanto curiosità.
Mentre si stava infilando il pigiama, telefonò di nuovo il colonnello Jorge Moreno. Il furgone era stato ritrovato: i sei prigionieri erano fuggiti, dopo aver assassinato le tre guardie.
– Smuova cielo e terra finché non avrà ritrovato i fuggitivi, – recitò, senza cambiare intonazione. – Lei mi dovrà rispondere con la sua vita di quei prigionieri, colonnello. Devono presentarsi davanti a un tribunale, per essere giudicati nel rispetto della legge per questo nuovo delitto.
Prima di addormentarsi, lo prese un senso di pena. Non per i prigionieri, assassinati quel pomeriggio senza dubbio da Ramfis in persona, ma per quei tre giovani soldati che il figlio di Trujillo aveva a loro volta fatto ammazzare per dare un’apparenza di verità alla farsa della fuga. Tre povere guardie trucidate a freddo, per far sembrare credibile una pagliacciata alla quale nessuno avrebbe mai creduto. Che inutile spargimento di sangue!
L’indomani, mentre andava verso il Palacio, lesse sulle pagine interne de «El Caribe» della fuga degli «assassini di Trujillo, dopo aver liquidato a tradimento le tre guardie che li riportavano a La Victoria». Tuttavia, lo scandalo che temeva non si verificò; rimase offuscato da altri avvenimenti. Alle dieci del mattino, una pedata spalancò la porta del suo studio. Mitra in mano e grappoli di granate e pistole alla cintura, fece irruzione il generale Petán Trujillo, seguito dal fratello Héctor, a sua volta vestito da generale, e da altri ventisette uomini armati della sua guardia personale, le cui facce gli sembrarono, oltre che ruffianesche, in preda all’alcol. Lo schifo che gli suscitò quella turba incivile fu piú forte della paura.
– Non posso offrirvi da sedere, non ho cosí tante sedie, mi dispiace, – si scusò il piccolo Presidente, alzandosi. Sembrava tranquillo e la sua faccia tonda sorrideva urbanamente.
– È arrivata l’ora della verità, Balaguer, – ruggí l’animalesco Petán, sputando saliva in giro. Brandiva il mitra, minaccioso, e lo passò davanti alla faccia del Presidente. Il quale non si fece indietro. – Basta con queste coglionate e ipocrisie! Come ieri Ramfis l’ha fatta finita con quei figli di puttana, noi la faremo finita con quelli che sono rimasti in giro. A cominciare dai giuda, nano traditore.
Anche quella nullità volgare era un po’ ubriaca. Balaguer nascondeva la sua indignazione e la sua ansia, con totale controllo di se stesso. Con calma, indicò la finestra:
– La prego di venire con me, generale Petán – si rivolse poi a Héctor. – Anche lei, per favore.
Si spostò e, attraverso la vetrata, indicò il mare. Era un mattino radioso. Di fronte alle coste si vedevano nitidamente, rilucenti, le sagome di tre navi da guerra nordamericane. Non si riusciva a leggerne i nomi, ma si potevano osservare i lunghi cannoni dell’incrociatore equipaggiato con missili Little Rock e delle portaerei Valley Forge e Franklin D. Roosevelt, che tenevano sotto mira la città.
– Aspettano che prendiate il potere per cominciare il cannoneggiamento, – disse il Presidente, con molta lentezza. – Aspettano che diate loro il pretesto per invaderci un’altra volta. Volete passare alla storia come i dominicani che hanno permesso una seconda occupazione yanqui della Repubblica? Se è questo che volete, sparate e fate di me un eroe. Il mio successore non rimarrà seduto su quella poltrona nemmeno un’ora.
Dato che lo avevano lasciato pronunciare tutta quella frase, si disse, era improbabile che lo avrebbero ucciso. Petán e Negro confabulavano, parlando allo stesso tempo e senza capirsi. I killer e guardaspalle si scrutavano tra loro, confusi. Alla fine, Petán ordinò ai suoi uomini di uscire. Quando si vide solo nello studio con i due fratelli, concluse che aveva vinto la partita. Si sedettero di fronte a lui. Poveri diavoli! Si vedeva che si sentivano proprio a disagio! Non sapevano da che parte cominciare. Bisognava facilitare il loro compito.
– Il paese si aspetta un gesto da voi, – disse loro, con simpatia. – Che agiate con il disinteresse e il patriottismo del generale Ramfis. Vostro nipote ha lasciato il paese per rendere possibile la pace.
Petán lo interruppe, infastidito e sbrigativo:
– È molto facile essere patrioti quando si hanno all’estero i milioni e le proprietà di Ramfis. Ma né Negro né io abbiamo fuori di qua case, azioni né conti correnti. Tutto il nostro patrimonio è qui, nel paese. Noi siamo stati gli unici coglioni a obbedire al Capo, che aveva proibito di portare soldi all’estero. E questo sarebbe giusto? Non siamo idioti, signor Balaguer. Tutte le terre e i beni che abbiamo qui ce li confischeranno.
Si sentí sollevato.
– A questo c’è rimedio, signori, – li tranquillizzò. – Ci mancherebbe altro! Un gesto generoso come quello che la Patria vi chiede deve essere ricompensato.
Da quel momento, tutto si ridusse a una noiosa trattativa crematistica, che finí per confermare il Presidente nel suo disprezzo per le persone avide di denaro. Era una cosa cui non aveva mai ambito. Contrattò fino ad arrivare a cifre che gli sembrarono ragionevoli, data la pace e la sicurezza che con ciò si sarebbe assicurata la Repubblica. Diede disposizioni alla Banca Centrale perché venissero consegnati due milioni di dollari a ciascuno dei due fratelli, e che venissero cambiati in valuta estera gli undici milioni di pesos che possedevano, parte dentro scatole da scarpe e parte depositati in banche della capitale. Per essere sicuri che l’accordo sarebbe stato rispettato, Petán e Héctor pretesero che lo controfirmasse il console nordamericano. Calvin Hill arrivò immediatamente, ben contento che le cose si stessero sistemando con la buona volontà e senza spargimento di sangue. Si congratulò con il Presidente e sentenziò: «È nelle crisi che si riconosce il vero statista». Abbassando gli occhi con modestia, il dottor Balaguer si disse che, con l’uscita di scena dei Trujillo, ci sarebbe stata una tale esplosione di gioia e di allegria – un po’ di caos, anche – che pochi si sarebbero ricordati dell’assassinio dei sei prigionieri, i cui cadaveri, su questo non potevano esservi dubbi, non sarebbero mai ricomparsi. L’episodio non lo avrebbe danneggiato poi troppo.
Nel Consiglio dei Ministri chiese l’accordo unanime dei componenti per un’amnistia politica generale, che svuotasse le carceri e annullasse tutti i processi per sovversione, e ordinò che venisse sciolto il Partido Dominicano. I ministri, in piedi, lo applaudirono. Allora, con le guance un po’ arrossate, il dottor Tabaré Álvarez Pereyra, il ministro della Salute, gli comunicò che da sei mesi teneva nascosto in casa – la maggior parte del tempo rinchiuso in un angusto armadio, tra vestaglie e pigiami – il fuggitivo Luis Amiama Tió.
Il dottor Balaguer elogiò il suo spirito umanitario e gli disse di accompagnare lui stesso, al Palacio Nacional, il dottor Amiama, perché sia lui sia don Antonio Imbert, che, senza dubbio, sarebbe riapparso da un momento all’altro, sarebbero stati ricevuti in persona dal Presidente della Repubblica con il rispetto e la gratitudine che meritavano per gli alti servizi prestati alla Patria.