Dopo che Amadito era andato via, Antonio Imbert rimase ancora per un bel po’ a casa del cugino, il dottor Manuel Durán Barreras. Non nutriva nessuna speranza che Juan Tomás Díaz e Antonio de la Maza trovassero il generale Román. Forse, il Piano politico militare era stato scoperto e Pupo era morto o prigioniero; forse, aveva avuto paura e si era tirato indietro. Non c’era altra alternativa che nascondersi. Con il cugino Manuel vagliarono tutte le possibilità, prima di decidere per una lontana parente, la dottoressa Gladys de los Santos, cognata di Durán. Abitava lí vicino.
Erano le prime ore dell’alba ma regnava ancora il buio, quando Manuel Durán e Imbert percorsero a passo sostenuto quei sei isolati senza incontrare veicoli né passanti. La dottoressa ci mise un po’ ad aprire la porta. Era in vestaglia e si strofinava gli occhi con furia, mentre loro spiegavano. Non si spaventò troppo. Reagí con estrema calma. Era una donna un po’ grassa ma agile, tra i quaranta e i cinquanta, che mostrava controllo di sé e guardava il mondo con apatia.
– Ti accoglierò comunque, – disse a Imbert. – Ma questo non è un rifugio sicuro. Sono già stata arrestata una volta, il Sim mi ha schedata.
Per evitare che la domestica lo scoprisse, lo sistemò accanto al garage, in una dispensa senza finestre, dove stese un materasso pieghevole. Era un ambiente microscopico e senza aerazione, e Antonio non riuscí a chiudere occhio per il resto della notte. Tenne sempre la Colt 45 accanto a sé, su un ripiano pieno di barattoli di conserve; teso, stava con l’udito all’erta per qualunque rumore sospetto. Ogni tanto pensava al fratello Segundo e gli veniva la pelle d’oca: forse lo stavano torturando o forse lo avevano già ammazzato, laggiú a La Victoria.
La padrona di casa, che aveva chiuso la dispensa a chiave, andò a tirarlo fuori dal suo nascondiglio alle nove del mattino.
– Ho dato un giorno di libertà alla domestica per andare a Jarabacoa, a trovare la famiglia, – lo incoraggiò. – Potrai girare per tutta la casa. Ma non farti vedere dai vicini. Bella nottata, devi aver passato dentro quella gabbia.
Mentre facevano colazione in cucina, con mangú, formaggio fritto e caffè, accesero la radio per sentire le novità. Nessuno dei notiziari diceva niente dell’attentato. La dottoressa de los Santos uscí poco dopo per andare al lavoro. Imbert si fece una doccia e scese nella piccola sala, dove, disteso su una poltrona, si addormentò con la Colt 45 sulle gambe. Ebbe un grande sussulto e gemette mentre lo scuotevano.
– I caliés hanno preso Manuel all’alba, poco dopo che tu sei venuto via da lí, – gli disse, molto in ansia, Gladys de los Santos. – Prima o poi gli faranno dire che tu sei qui. Te ne devi andare, al piú presto.
Sí, ma dove? Gladys era passata dagli Imbert e la strada brulicava di guardie e di caliés; senza dubbio, avevano arrestato la moglie e la figlia. Gli sembrò che mani invisibili cominciassero a stringergli il collo. Non lasciò trasparire la sua angoscia, per non accrescere la paura della padrona di casa, che si era trasformata: il nervosismo le faceva aprire e chiudere gli occhi ininterrottamente.
– Ci sono cepillos con caliés e camion di guardie dappertutto, – gli disse. – Perquisiscono le auto, chiedono i documenti a tutti, entrano nelle case.
Ancora non avevano detto niente alla televisione, nelle radio, sui giornali, ma le voci erano indiscutibili. Il tamtam umano faceva circolare per tutta la città la notizia che avevano ammazzato Trujillo. La gente era turbata e confusa per quello che sarebbe potuto succedere. Per circa un’ora, continuò a rimuginare: dove andare? Al piú presto, filare via da lí. Ringraziò la dottoressa de los Santos per l’aiuto e uscí in strada, con la mano sulla pistola che teneva nella tasca destra dei pantaloni. Camminò per un bel tratto, senza destinazione, finché non si ricordò del suo dentista, il dottor Camilo Suero, che abitava dalle parti dell’Ospedale Militare. Camilo e la moglie, Alfonsina, lo fecero entrare. Non potevano nasconderlo, ma lo aiutarono a studiare possibili rifugi. E allora gli venne in mente l’immagine di Francisco Rainieri, un vecchio amico, figlio di un italiano e ambasciatore dell’Ordine di Malta; la moglie di lui, Venecia, e Guarina, sua moglie, prendevano il tè insieme e giocavano a canasta. Forse il diplomatico avrebbe potuto trovargli il modo per chiedere asilo in qualche legazione. Per colmo di cautela, compose il numero di casa Rainieri e porse la cornetta a Alfonsina, che si fece passare per la signora Guarina Tessón, nome da nubile della moglie di Imbert. Chiese di parlare con Queco. Lui venne subito al telefono e la lasciò sbalordita con un cordialissimo saluto:
– Come stai, carissima Guarina, sono contento di sentirti. Chiamavi per l’appuntamento di questa sera, non è vero? Non preoccuparti. Manderò la macchina a prenderti. Alle sette in punto, se per te va bene. Mi ricordi il tuo indirizzo, per favore?
– O è un indovino o è diventato matto, o non so che altro, – disse la padrona di casa, riagganciando la cornetta.
– E adesso che cosa facciamo fino alle sette, Alfonsina?
– Preghiamo Nuestra Señora de la Altagracia, – si fece il segno della croce. – Se arrivano i caliés prima di allora, usa la tua pistola.
Alle sette in punto si fermò davanti alla porta una fiammante Buick azzurra. Con targa diplomatica. Guidava lo stesso Francisco Rainieri. Partí non appena Antonio Imbert si sedette accanto a lui.
– Ho capito che il messaggio veniva da te perché Guarina e tua figlia stanno a casa mia, – gli disse Rainieri, a mo’ di saluto. – Non ci sono due Guarine Tessón a Ciudad Trujillo, potevi essere soltanto tu.
Era molto tranquillo, addirittura ridente, con la guayabera ben stirata e il suo profumo di lavanda. Portò Imbert in una casa isolata per strade appartate, facendo un grande giro, perché sulle avenidas principali c’erano sbarramenti che fermavano i veicoli per perquisirli. Era meno di un’ora che era stata annunciata ufficialmente la morte di Trujillo. Regnava un’atmosfera carica di sospetto, come se tutti quanti stessero aspettando un’esplosione. Elegante come sempre, l’ambasciatore non gli rivolse una sola domanda sull’assassinio di Trujillo, né sui suoi compagni di congiura. Con naturalezza, come se stesse parlando del prossimo torneo di tennis al Country Club, disse:
– Cosí come stanno le cose, è impensabile che qualche ambasciata ti conceda l’asilo. Del resto non servirebbe granché. Il governo, se c’è ancora un governo, non lo rispetterebbe. Ti tirerebbero fuori con la forza, dovunque tu possa essere. La sola cosa che ti rimane, per il momento, è nasconderti. Nel consolato d’Italia, dove ho degli amici, c’è troppo viavai di impiegati e di visite. Ma ho trovato la persona, in piena sicurezza. L’ha già fatto un’altra volta, con Yuyo d’Alessandro, quando era ricercato. Ha posto una sola condizione. Nessuno deve sapere, neppure Guarina. Per la sicurezza di lei, soprattutto.
– Naturalmente, – mormorò Tony Imbert, sorpreso che, di sua iniziativa, quell’uomo cui lo legava un’amicizia superficiale, rischiasse tanto per salvargli la vita. Era cosí disorientato dalla generosità temeraria di Queco che non riuscí neppure a ringraziarlo.
A casa dei Rainieri poté abbracciare la moglie e la figlia. Date le circostanze, mantenevano una grande calma. Ma quando la ebbe tra le braccia, sentí tremare il corpicino di Leslie. Rimase con loro e i Rainieri quasi un paio d’ore. La moglie gli aveva portato una valigetta con biancheria pulita e il necessario per radersi. Non nominarono Trujillo. Guarina gli raccontò quel che aveva potuto sapere dalle vicine. La loro casa era stata invasa all’alba da poliziotti in divisa e in borghese; l’avevano svuotata, rompendo e facendo a pezzi quello che non si erano portati via, su due furgoni.
Quando arrivò l’ora, il diplomatico gli fece un piccolo gesto, indicandogli l’orologio. Abbracciò e baciò Guarina e Leslie, e seguí Francisco Rainieri, dalla porta di servizio, fino alla strada. Qualche secondo dopo, un piccolo veicolo che aveva le luci di posizione accese, frenò davanti a loro.
– Addio e buona fortuna, – lo salutò Rainieri, dandogli la mano. – Non preoccuparti per la tua famiglia. Non le mancherà niente.
Imbert salí sull’auto e si sedette accanto al guidatore. Era un uomo giovane, in camicia e cravatta, ma senza la giacca. In uno spagnolo impeccabile, anche se con musicalità italiana, si presentò:
– Mi chiamo Cavaglieri e sono un funzionario dell’ambasciata italiana. Mia moglie e io faremo del nostro meglio perché il suo soggiorno nel nostro appartamento sia il piú gradevole possibile. Non si preoccupi, nella mia casa non ci sono testimoni indiscreti. Viviamo da soli. Non abbiamo cuoca né domestici. A mia moglie piace fare le faccende di casa. E a tutt’e due piace cucinare.
Si mise a ridere e Antonio Imbert immaginò che la cortesia gli imponesse di abbozzare una risatina. La coppia abitava all’ultimo piano di un palazzo costruito da poco, non distante da calle Mahatma Gandhi e dalla casa di Salvador Estrella Sadhalá. La signora Cavaglieri era ancora piú giovane del marito – una ragazza minuta, dagli occhi a mandorla e i capelli neri – e lo accolse con una cortesia rapida e sorridente, come un vecchio amico di famiglia che viene a passare il fine settimana. Non mostrava alcuna apprensione nell’ospitare in casa uno sconosciuto, assassino del padrone supremo del paese, che migliaia di guardie e poliziotti cercavano con accanimento e con odio. Nei sei mesi e tre giorni durante i quali visse con loro, mai, non una sola volta, nessuno dei padroni di casa gli fece sentire – e pure era assai teso, e la situazione lo predisponeva a vedere fantasmi – che la sua presenza disturbasse. Sapeva, quella coppia, che si stava giocando la vita? Certo. Ascoltarono e videro alla televisione i resoconti dettagliati del panico che provocavano quegli appestati assassini tra i dominicani, e come molti di loro, non contenti di rifiutare loro un rifugio, si fossero affrettati a denunciarli. Avevano visto cadere in trappola, per primo, l’ingegnere Huáscar Tejeda, cacciato in maniera ignobile dalla chiesa del Santo Curato d’Ars dal parroco terrorizzato, che lo aveva spinto tra le braccia del Sim. Avevano seguito, nei dettagli, l’odissea del generale Juan Tomás Díaz e di Antonio de la Maza, finiti a percorrere su un’auto pubblica le strade di Ciudad Trujillo e denunciati dalle persone cui si erano rivolti in cerca di aiuto. E videro come i caliés si erano portati via la povera vecchia che aveva dato asilo a Amadito García Guerrero, dopo che lo avevano ammazzato, e come la folla avesse smantellato e fatto scomparire la sua casa. Ma quelle scene e quei racconti non intimidirono i Cavaglieri né raffreddarono la cordialità con cui lo trattavano.
Dopo il ritorno di Ramfis, Imbert e i padroni di casa capirono che il suo soggiorno clandestino presso di loro sarebbe stato di lunga durata. Gli abbracci pubblici tra il figlio di Trujillo e il generale José René Román erano eloquenti: il generale aveva tradito e non ci sarebbe stata nessuna sollevazione militare. Dal suo piccolo universo, dal penthouse dei Cavaglieri, vide la folla in coda, ore e ore, per rendere omaggio a Trujillo, e vide se stesso, sullo schermo della televisione, fotografato, accanto a Luis Amiama (che lui non conosceva), sotto annunci che offrivano prima centomila, poi duecentomila e, alla fine, mezzo milione di pesos a chi avesse denunciato il suo nascondiglio.
– Psst, con il crollo del valore del peso dominicano non è un affare interessante, – commenta Cavaglieri.
Ben presto, la sua vita fu assorbita da una rigida routine. Aveva una stanzetta tutta per sé, con un letto e un comodino, illuminata da un abat-jour. Si alzava presto e faceva flessioni, corsa sul posto, addominali, per circa un’ora. Andava a colazione con i padroni di casa. Dopo lunghe discussioni, ottenne che gli permettessero di aiutare nelle pulizie. Spazzare, passare l’aspirapolvere, andare con il piumino su oggetti e mobili, diventò un divertimento e un dovere, una cosa che eseguiva coscienziosamente, con totale concentrazione e una certa allegria. La signora Cavaglieri, però, non gli permise mai di entrare in cucina. Lei preparava da mangiare molto bene, soprattutto la pasta, che portava in tavola due volte al giorno. A lui la pasta era piaciuta sin da bambino. Ma, dopo sei mesi di quel soggiorno forzato, non avrebbe mai piú mangiato tagliolini, tagliatelle, ravioli né nessun’altra variante di quel piatto forte della cucina italiana.
Conclusi i suoi doveri domestici, leggeva per molte ore. Non era mai stato un grande lettore; in quei sei mesi, scoprí il piacere della lettura. Libri e riviste furono la migliore difesa contro la depressione che a volte gli provocavano la segregazione, la routine e l’incertezza.
Soltanto quando la televisione annunciò che una commissione dell’Osa sarebbe venuta per incontrare i prigionieri politici, seppe che Guarina era in carcere da diverse settimane, come pure le mogli di tutti i suoi compagni del complotto. I padroni di casa gli avevano tenuto nascosto fino a quel momento che Guarina era stata imprigionata. Invece, un paio di settimane dopo, gioiosi gli diedero la buona notizia che era stata rimessa in libertà.
Mai, neppure quando lustrava i pavimenti, spazzava o passava l’aspirapolvere, smise di portare con sé la sua Colt 45 carica. La sua decisione era irremovibile. Avrebbe fatto come Amadito, Juan Tomás Díaz e Antonio de la Maza. Non si sarebbe consegnato vivo, sarebbe morto uccidendo. Era un modo piú dignitoso di morire, anziché sottoposto a vessazioni e torture ideate dalle menti contorte di Ramfis e dei suoi compari.
Di pomeriggio e di sera leggeva i giornali che portavano i padroni di casa e guardava con loro i notiziari alla televisione. Senza crederci piú di tanto, seguí il confuso dualismo in cui si andava imbarcando il regime: un governo civile guidato da Balaguer che faceva gesti e dichiarazioni con cui si assicurava che il paese si stava democratizzando, e un potere militare e poliziesco, guidato da Ramfis, che continuava ad assassinare, torturare e far scomparire persone con la stessa impunità di quando c’era il Capo. Comunque, non poteva fare a meno di sentirsi incoraggiato dal ritorno degli esuli, dall’apparire di piccole pubblicazioni d’opposizione – organi dell’Unión Cívica e del 14 de Junio – e dalle manifestazioni studentesche contro il governo di cui a volte davano notizia gli organi ufficiali, sia pure soltanto per poter accusare i manifestanti di essere comunisti.
Il discorso di Joaquín Balaguer alle Nazioni Unite, in cui criticava la dittatura di Trujillo e s’impegnava a democratizzare il paese, lo lasciò sbalordito. Era lo stesso ometto che per trentuno anni era stato il piú fedele e costante servitore del Padre della Patria Nuova? Nelle lunghe chiacchierate che facevano di solito dopo cena, quando i Cavaglieri mangiavano a casa – molte volte cenavano fuori, ma in quel caso la signora Cavaglieri gli lasciava in forno l’inevitabile pasta –, loro gli completavano le informazioni con i pettegolezzi che si moltiplicavano in quella città improvvisamente ribattezzata con il suo vecchio nome di Santo Domingo de Guzmán. Sebbene tutti temessero un colpo di Stato dei fratelli Trujillo, che avrebbe restaurato la dittatura cruda e dura, era evidente che, a poco a poco, la gente andava perdendo la paura, o, meglio, si andava spezzando l’incantesimo che aveva tenuto tanti dominicani legati corpo e anima a Trujillo. Proliferavano voci, dichiarazioni e prese di posizione antitrujilliste, e ancora appoggio all’Unión Cívica, al 14 de Junio o al Prd, i cui leader erano appena rientrati nel paese e avevano aperto una sede in centro.
Il giorno piú triste della sua odissea fu anche il piú felice. Il 18 novembre, nello stesso tempo in cui annunciava la partenza di Ramfis dal paese, la televisione informava che i sei assassini del Capo (quattro esecutori materiali e due complici) erano fuggiti, dopo avere assassinato tre soldati che li riportavano alla prigione de La Victoria dopo una ricostruzione del delitto. Di fronte allo schermo della televisione non poté trattenersi e scoppiò in singhiozzi. Cosí, dunque, i suoi amici – il Turco, il suo amico del cuore – erano stati assassinati, insieme a tre povere guardie, come alibi della pantomima. Naturalmente, i cadaveri non sarebbero mai stati ritrovati. Il signor Cavaglieri gli versò un bicchiere di cognac:
– Si consoli, signor Imbert. Pensi che presto vedrà sua moglie e sua figlia. Sta finendo tutto.
Poco dopo veniva annunciata l’imminente partenza per l’estero dei fratelli Trujillo, con le loro famiglie. Era la fine della segregazione, adesso sí. Almeno per il momento, era sopravvissuto alla caccia in cui praticamente, a eccezione di Luis Amiama – presto seppe che lui aveva passato sei mesi chiuso in un armadio a muro per molte ore al giorno –, tutti i principali congiurati, oltre a centinaia di innocenti, tra cui suo fratello Segundo, erano stati assassinati, torturati o erano ancora in carcere.
Il giorno seguente la partenza dei Trujillo fu promulgata un’amnistia politica. Si cominciarono ad aprire le carceri. Balaguer annunciò che veniva costituita una commissione per ricercare la verità su quanto era accaduto ai «giustizieri del tiranno». Le radio, i giornali e la televisione smisero da quel giorno di chiamarli assassini; da giustizieri, il loro nuovo nome, presto li si sarebbe cominciati a chiamare eroi e, non molto dopo, strade, piazze e viali di tutto il paese sarebbero stati a poco a poco ribattezzati con i loro nomi.
Al terzo giorno, discretamente – i padroni di casa non gli permisero neppure di attardarsi a ringraziarli di quello che avevano fatto per lui e la sola cosa che gli chiesero fu di non far conoscere a nessuno la loro identità, per non compromettere la loro condizione di diplomatici –, uscí sul far della sera dal suo nascondiglio e si presentò, solo, a casa. A lungo, lui, Guarina e Leslie si abbracciarono senza riuscire a parlare. Esaminandosi, verificarono che mentre Guarina e Leslie erano dimagrite, lui era ingrassato di cinque chili. Spiegò loro che nella casa in cui era stato nascosto – non poteva dire quale – si mangiavano molti spaghetti.
Non poterono parlare a lungo. Lo scompigliato appartamento degli Imbert cominciò a riempirsi di mazzi di fiori, di parenti, amici e sconosciuti che andavano lí per abbracciarlo, per complimentarsi con lui e – a volte, tremando di emozione, con gli occhi pieni di lacrime – per chiamarlo eroe e ringraziarlo di quanto aveva fatto. Tra i visitatori, apparve all’improvviso un militare. Era un aiutante della Presidenza della Repubblica. Dopo i saluti di rigore, il maggiore Teofronio Cáceda gli disse che lui e il signor Luis Amiama – che a sua volta era appena riemerso dal suo nascondiglio, nientemeno che la casa dell’attuale ministro della Salute – erano attesi per essere ricevuti dal Capo dello Stato al Palacio Nacional, l’indomani a mezzogiorno. E, con una risatina complice, lo informò che il senatore Henry Chirinos aveva appena presentato al Congresso («Lo stesso Congresso di Trujillo, sissignore») una legge per nominare Antonio Imbert e Luis Amiama generali a tre stelle dell’Esercito Dominicano, per servizi straordinari prestati alla Nazione.
Il mattino dopo, accompagnato da Guarina e da Leslie – tutt’e tre con i loro vestiti migliori, anche se a Antonio il suo andava un po’ stretto –, si recò all’appuntamento nel Palacio. Uno sciame di fotografi li accolse, e un picchetto di militari in divisa da parata presentò loro le armi. Lí, nella sala d’attesa, conobbe Luis Amiama, un uomo molto magro e serio, con la bocca senza labbra, del quale, a partire da allora, sarebbe stato inseparabile amico. Si strinsero la mano e rimasero d’accordo per vedersi, dopo l’incontro con il Presidente, per andare a far visita insieme alle mogli (e alle vedove) di tutti i congiurati morti o desaparecidos, e per raccontarsi le rispettive avventure. A quel punto si aprí lo studio del Capo dello Stato.
Sorridente e con un’espressione di profonda allegria, il dottor Joaquín Balaguer avanzò verso di loro, sotto i flash dei fotografi, a braccia aperte.