Albeggiava quando la barca di Ayala si addentrò nelle calme acque della caletta. Quella mattina i remi si immergevano più facilmente tra le onde; eppure, un dolore pungente si era insediato tra le sue spalle e profonde piaghe gli laceravano il palmo delle mani, al punto che si era visto obbligato a bendarle con stracci impregnati di olio di aloe. Un rimedio che lo alleviava a malapena dalla triste verità: le sue dita erano così abituate alle leggere penne da scrivano che ricordavano a stento cosa significasse scontrarsi con il legno.
Quando il fondo si fece visibile sotto l’acqua, raccolse i remi e si alzò in piedi per spingere la barca con la pertica. Fu allora che scoprì il suo giovane guardaspalle seduto sulla riva, accanto a un falò che illanguidiva. La cavalcatura che si accontentavano di utilizzare come bestia da soma, libera della cavezza, si era allontanata per mordicchiare le erbacce che crescevano ai limiti dell’insenatura, lì dove cominciavano le ondulate colline.
Spinse la barca fino a far sprofondare la chiglia nella sabbia e, senza forze per trascinare l’imbarcazione fuori dall’acqua, recuperò il suo bagaglio e legò la corda al palo sulla riva. Cominciò a camminare verso Kudō Kenjirō, che non alzò nemmeno la testa alla sua presenza. Era assorto in qualche tipo di occupazione che Ayala non riuscì a comprendere, finché il riflesso del sole sul metallo non gli fece capire che si stava prendendo cura di una delle sue spade.
Quando fu vicino al giovane, lasciò cadere il bagaglio sopra il resto degli involti e si sedette sulla sabbia. Nemmeno allora Kenjirō lo guardò. Aveva steso davanti a sé un panno bianco, fermandolo con quattro pietre perché la brezza non lo agitasse, e sopra vi aveva disposto una piccola scatola di legno e i vari pezzi smontati dell’impugnatura.
Teneva la katana per il codolo, con la lama completamente esposta mentre dava leggeri colpi all’acciaio con un bastoncino che diffondeva una polvere bianca. Quando la lama fu completamente impregnata della limatura minerale, depositò il bastoncino di seta nella scatola ed estrasse dalla pettorina un foglio di carta. Lo usò per ripulire la polvere e il grasso in eccesso, sempre facendo attenzione a non passare le dita sul filo. Poi si appoggiò la lama sull’avanbraccio e la osservò contro la luce del mattino. La trovò ben pulita, così prese dalla scatola una bottiglietta di ceramica, la aprì con i denti e unse l’acciaio con tre gocce. Con delicatezza reverenziale, cominciò a spandere l’olio aiutandosi con altra carta di riso.
Ayala contemplava in silenzio, catturato dalla serenità che guidava i movimenti di Kenjirō, assaporando la strana contraddizione secondo cui prendersi cura di uno strumento di morte potesse infondergli una simile pace. Finché il giovane guerriero non diede per terminato il suo lavoro e posò la lama sulle gambe incrociate. Allora fece un lungo sospiro e l’incanto si ruppe.
«Sembra una spada magnifica» si avventurò a osservare Ayala.
Il samurai non rispose, si limitò a tenere lo sguardo fisso sull’orizzonte, e il gesuita capì che era ancora offeso con lui perché lo aveva lasciato indietro il giorno prima. Gli aveva impedito di compiere il suo dovere, anche se solo per un giorno, ed era qualcosa che non avrebbe dimenticato facilmente.
«Forse credi che poiché sono un sacerdote non so nulla di armi, ma mio padre era soldato. Ha combattuto a lungo per il suo re, e se ha voluto che io seguissi i passi di Dio è stato proprio per allontanarmi da quell’altro cammino.» Ayala scosse la testa. «Certo lui non poteva immaginare che un missionario dovesse percorrere così spesso il sentiero che in precedenza avevano calpestato gli eserciti.»
Kenjirō deviò brevemente lo sguardo, ma lo riportò sul mare prima di chiedere: «Quindi appartenete a una casta di guerrieri?».
«Vengo da una lunga tradizione militare, ma non ho mai avuto lo spirito di un soldato.»
«E come sono le armi dei vostri eserciti?» volle sapere il ragazzo. «Si uccide solo con il teppō ?»
«Si usa anche la spada, però di solito è dritta e con una lama a doppio filo. Ma ben poche sono favolose come la tua.»
Il samurai abbassò lo sguardò sulla lama che gli riposava in grembo.
«Questo daishō non appartiene a me. Sono le spade di famiglia e sono destinate a mio fratello.»
Ayala credette di sentire un certo tono di rimprovero verso se stesso nelle parole del giovane, per questo scelse con attenzione come rispondere: «Capisco perché le curi con tanta devozione. Devono essere state l’orgoglio della tua famiglia per molto tempo».
Kenjirō annuì, le spalle dritte e lo sguardo ancora distante.
«Il bisnonno di mio padre le ricevette in dono; da allora hanno accompagnato e protetto ogni primogenito della mia casa che sia andato in guerra.»
«È stato un regalo del vostro signore?»
«No» rispose Kenjirō Mentre raccoglieva l’impugnatura e, disfacendo il nodo all’estremità, cominciava a stringere i cordami. «Nessuno della mia famiglia ha mai avuto un rango tale da trovarsi in presenza di sua signoria, e men che meno ricevere un presente di un tale valore. Fu un forgiatore di spade di nome Enju Kunimura a regalargliela.»
«E come ha fatto il tuo antenato a meritarsi un regalo simile?» chiese il gesuita, ora che il suo silenzioso accompagnatore sembrava finalmente disposto a parlare di qualcosa.
«Secondo quanto raccontava mio nonno, Kunimura era un shokunin molto stimato nella provincia di Higo.» Kenjirō passò l’estremità dei cordami all’interno dell’apertura che coronava l’impugnatura, fissando il nodo con forza. «Un giorno, senza che nessuno sapesse perché, decise di espellere i suoi aiutanti dal laboratorio e, accompagnato solo da suo figlio, salì sulla montagna, fino a una fucina abbandonata scavata in una grotta vulcanica. Apparentemente, ci misero settimane a far rombare nuovamente il fuoco, ma quando fu pronto, possedette l’anima e il braccio di Kunimura per sette mesi.» Mentre parlava, il giovane fece scivolare lungo il codolo la guardia che separava l’impugnatura dalla lama, decorata con l’incisione di un kami che disperdeva le nuvole con il fiato. «Si dice che il fabbro sferrò mille volte mille martellate, piegando il lingotto ancora e ancora, limando le imperfezioni a ogni colpo fino a ottenere un acciaio bianco quanto il fulgore dell’alba. Per tutto quel tempo obbligò il figlio ad alimentare la fucina con una tale frenesia che per tener vivo il fuoco fu necessario il legno di un piccolo bosco; e tanto era il calore che emanava dal forno che tutti gli esseri viventi fuggirono dalla montagna, e rimasero solo i kami del fuoco e dell’acciaio, assorti dal fanatico martellare del fabbro. Il sudore dei loro corpi evaporava a una tale velocità che ogni notte bevevano l’acqua che avrebbe saziato un villaggio intero per una settimana, finché l’ultimo mese il figlio del fabbro non svenne e perse conoscenza, e lo stesso sarebbe successo anche al padre se non fosse perché Susano-o in persona sostenne il braccio dell’uomo permettendogli di battere e battere senza sosta, facendo tuonare a ogni scarica del martello.»
Kenjirō fece scivolare il codolo della lama dentro l’impugnatura; quando si incastrò completamente, incrociò di nuovo la spada sulle cosce e prese dal panno a terra due piccoli tasselli di legno. Fece da parte il cordame finché non trovò un’apertura in cui il pezzo si incastrava alla perfezione. Spinse con il dito e, subito dopo, si servì di un piccolo martello di metallo per fissare il passante.
«Quando ebbe concluso il suo lavoro,» proseguì il giovane senza interrompere il proprio «Enju Kunimura annunciò che aveva forgiato la sua ultima spada, perché se anche ne avesse fatte altre non sarebbero state che pallide imitazioni di quella, e poiché non era frutto di un incarico, annunciò che avrebbe ascoltato con attenzione le proposte di chiunque avesse voluto farne la propria spada di famiglia.» Si asciugò il sudore della fronte con il dorso della mano; il sole cominciava a scaldare la spiaggia. «Quando si sparse la voce, grandi signori delle province vicine si presentarono al laboratorio del fabbro. Uno dopo l’altro interloquirono con il maestro, e uno dopo l’altro furono rifiutati. Nessun pagamento sembrava sufficiente per una spada tanto superba, e il maestro era solito esibirla sguainata alle proprie spalle quando incontrava gli interessati. Alcuni signori offrirono la metà della decima del proprio feudo per un anno, altri la mano di una figlia in matrimonio, ci fu anche chi offrì castelli, cavalli di Kansai e perfino un piccolo latifondo da tremila koku, ma ogni proposta fu rifiutata.
I signori della regione finirono per convincersi che il vecchio fabbro aveva perso la testa e che non avrebbe mai consegnato la spada a nessuno. A poco a poco, nella casa di Kunimura tornò la pace.» Kenjirō prese il secondo passante e cercò sotto il cordame l’apertura in cui doveva incastrarlo; quando la trovò, sistemò il tassello di legno e cominciò a fissarlo con il martello. «Fu allora che un samurai di campagna osò visitare il laboratorio dello shokunin. Voleva comprare la spada più modesta che il fabbro avesse a disposizione, quella che considerasse meno degna del proprio talento, giacché, secondo quanto disse, quell’arma avrebbe comunque rappresentato un enorme privilegio per la sua famiglia. Voleva che fosse il regalo per la maggiore età di suo figlio, il mio bisnonno. Il fabbro gli chiese quanto era disposto a pagare e l’uomo gli disse che aveva con sé tutta la fortuna della famiglia, che ammontava a soli trentacinque ryō, più la promessa che mai nessuno con il suo cognome avrebbe disonorato la spada che lui gli avrebbe consegnato. “Allora ti voglio affidare quella che sarà la mia ultima creazione,” gli disse Kunimura “si chiama Filo di Vento, perché il vento invernale ha soffiato dentro la mia fucina per ravvivare il fuoco quando io sono svenuto. Non l’ho considerata degna di alcun signore, ma forse potrebbe essere l’arma adeguata a un samurai di campagna che vuole regalarla al figlio per la maggiore età”.»
Kenjirō si assicurò che l’impugnatura fosse fermamente legata alla lama. Soddisfatto, sollevò la punta della spada e osservò l’acciaio imbeversi della luce del mattino.
«Il mio trisnonno, appena vide questa spada, fu cosciente dell’immenso regalo che il fabbro gli stava offrendo. Lo accettò con umiltà e, per non essere castigato poiché possedeva un’arma migliore di quella del suo signore, avvolse il fodero in una tela intrecciata e sostituì il ricco cordame di seta con nastri di cotone in modo che, inguainata, sembrasse una spada qualunque.»
Kenjirō prese quindi la guaina foderata e, con estrema attenzione, ci fece scivolare dentro la lama.
Si rimisero in cammino dopo colazione, con la curiosa storia di Kenjirō che ancora risuonava nella testa di Ayala. Il gesuita conduceva il cavallo per la cavezza, e mentre si addentravano fra colline ancora coperte da un fine sudario di rugiada, si permise di guardare di sbieco le due lame che il suo giovane guardaspalle portava alla cintura.
L’ingenuità di quella leggenda familiare continuava a sorprenderlo, eppure al tempo stesso apprezzava l’astuzia di infondere all’arma un’aura quasi mistica. «È impossibile sconfiggere il tuo nemico se non hai prima incrinato il suo animo» sentì dire una volta a suo padre, e così doveva essere, poiché le canzoni di gesta e tante altre epiche avevano come obiettivo quello di incoraggiare il cuore dei guerrieri, infiammarli in vista della battaglia. Cosa avrebbe sentito chi avesse impugnato la daga del clan Kudō, forgiata quasi dagli dèi in persona e riverita da ogni generazione della famiglia?
«Non mi avete ancora detto dove siamo diretti» disse d’un tratto Kenjirō, che aveva percepito le sue occhiate nascoste.
Ayala rivolse la vista al sentiero e alle pianure coperte di risaie che si intuivano in lontananza.
«Dobbiamo raggiungere Sakai, dove è stato trovato morto due mesi fa padre Lorenzo, ultima vittima di questa ingiustizia.» Il gesuita strinse i denti. «Ma non ci andremo subito, prima voglio visitare Uji-Yamada, a nord del Grande Santuario di Ise. È la città portuale più vicina, dove attraccano le navi portoghesi. Devo capire alcune cose che non potrò verificare tra i miei.»
«Avete intenzione di attraversare i terreni del santuario?»
«Non sono così sciocco. Prenderemo il sentiero dei pellegrini, ma devieremo verso il cammino del mare dell’Est molto prima di arrivare al Grande Santuario. Poi seguiremo la strada Tōkaidō fino al valico di Sakanoshita, e da lì scenderemo a Uji-Yamada.»
«È sorprendente vedere quanto bene conoscete questa regione.»
«Ho una mappa con il percorso ben tracciato.» Ayala toccò la borsa che portava a tracolla, e continuarono a camminare senza altro da dirsi.
Fino a quando, dopo qualche istante, Ayala decise di rompere quel silenzio con una strana domanda: «In cosa riponi la tua fede, Kudō Kenjirō?».
Il goshi titubò per un istante.
«A cosa vi riferite?»
«Chi preghi? In cosa credi?» insisté Ayala, semplificando la domanda. «Tutti crediamo in qualcosa.»
Kenjirō guardò il cielo mattutino, coperto di nuvole di un bianco sfacciato, e le colline che costeggiavano il sentiero, sempre meno verdi e più agresti, come se lì potesse trovare qualche risposta. Si strinse nelle spalle: «Non so, credo in ciò che è. In cos’altro potrei credere?».
«E che cos’è ciò che semplicemente è, e che per te pare così evidente?»
«La mia famiglia. Quelli che mi aspettano a casa e coloro che c’erano prima, anche se io non li ho conosciuti se non attraverso il racconto dei miei avi. Credo anche nel lavorare la terra per dare nutrimento a chi dipende da noi. E nell’assistere il nostro signore, con il pagamento delle decime e, se necessario, con la guerra. Se arriverò alla fine dei miei giorni avendo onorato il mio signore e mio padre, avrò avuto una buona vita.»
«Però c’è qualcosa oltre alla vita terrena. Non ci pensi mai? Non ti preoccupa la possibilità che Buddha e gli dèi che preghi non siano coloro nei quali devi depositare la tua fede?»
«Mi preoccupa soltanto non essere degno del mio nome» disse con calma Kenjirō. «Buddha e i kami sono la fede dei miei genitori e dei miei antenati, come potrei onorarli se non attraverso di loro?»
Ayala annuì alla facilità con cui il giovane pose fine alla questione. Era difficile ribattere a tanto pragmatismo, quindi optò per rimandare questo genere di conversazione. Forse padre Melchior aveva ragione, forse non aveva mai avuto la determinazione necessaria a evangelizzare.
Si lasciarono alle spalle le colline e si addentrarono fra risaie di un verde che cominciava a diluirsi in toni ocra. I campi si erano già seccati e il raccolto era cominciato in diversi appezzamenti. Dal sentiero polveroso che stavano seguendo, più in alto dei campi coltivati, contemplarono centinaia di donne e uomini al lavoro nelle risaie. Si chinavano sui germogli dorati e li segavano a colpi di falce, poi li gettavano nelle ceste che avevano in spalla. Alcuni si alzavano al passaggio dei viaggiatori e li osservavano per un istante, prendendo fiato sotto il sole di mezzogiorno.
Kenjirō sentì una fitta nel vedere che in quella regione il raccolto era già cominciato. Presto sarebbe stato così anche nella sua terra e, per la prima volta, lui non era lì. In quel momento non aveva dubbi: sapeva che sarebbe stato più felice a casa sua, mentre suo fratello avrebbe preferito essere al suo posto.
Il sole era ancora alto quando si lasciarono alle spalle i campi di riso e cominciarono a percorrere i sentieri dei pellegrini. Alla fine, si trovarono a camminare accanto a uomini e donne che si coprivano la testa con un fazzoletto bianco e si appoggiavano su bastoni di bambù per facilitare il passo. Alcuni portavano bauli di legno sulla schiena, forse offerte oppure oggetti da smerciare alle porte del Grande Santuario di Ise; altri, più devoti, stringevano in pugno un rosario e avevano lo scapolare al collo. Di tanto in tanto, incrociavano qualche samurai che chinava il capo per salutare Kudō Kenjirō.
Ma tutti, senza distinzione di condizione o casta, scrutavano la figura dello straniero. Nonostante Ayala si coprisse con un cappello a tesa larga che gli nascondeva il volto, la sua figura e il mantello scuro così caratteristico dei padri cristiani non gli permettevano di passare inosservato. Che cosa ci faceva lì quel corvo? Come osava addentrarsi nei boschi che circondavano il Grande Santuario?
Quella malcelata curiosità, così simile all’avversione, cominciava a inquietare il giovane samurai che, incoscientemente, posò la mano sull’impugnatura della spada e lì la lasciò. Il gesuita, che fino a quel momento aveva camminato con lo sguardo perso, finì per accorgersi del diverso atteggiamento di Kenjirō. Solo allora notò i mormorii che alcuni si scambiavano incrociandoli, o gli sguardi malintenzionati che, a volte, scivolavano fin sotto il suo cappello di paglia. Capiva che molti di quei pellegrini lo consideravano un intruso e cercò di accettarlo con naturalezza. Era più preoccupato, questo sì, per il fatto che la sua presenza attirasse così tanto l’attenzione, ovunque si trovasse. Doveva passare inosservato se voleva portare a termine le sue indagini con una certa discrezione.
A un bivio imboccarono il sentiero che deviava verso il mare dell’Est, evitando le strade che, prima o poi, li avrebbero condotti fino alle prime porte torii del santuario. Attraversarle avrebbe significato addentrarsi nel territorio sacro che potevano calpestare solo i devoti di Amaterasu-ō-mi-kami, la dea del sole, ed era una frontiera che Ayala preferiva non superare, per quanto lo costringesse ritardare la propria marcia.
Abbandonarono la spessa vegetazione dei cipresseti per incamminarsi verso i sentieri che serpeggiavano tra i monti Maruyama e Asamagatake. Secondo gli appunti di Ayala, dietro a quei rilievi si trovava la costa e, una volta lì, gli sarebbe bastato avanzare verso nord per trovare l’estuario del Miyagawa, tra le cui correnti si trovava la loro destinazione: la città di Uji-Yamada.
Con le due montagne come punto di riferimento, cominciarono a salire lungo percorsi sempre più ripidi dietro al valico di Sakanoshita, che raggiunsero sul calar della sera. Lì trovarono una stazione di posta inaspettatamente frequentata: non meno di venti persone riposavano sotto una tettoia che si apriva sulla valle formata dai pendii del Maruyama e dell’Asamagatake. Quattro cameriere entravano e uscivano dalla locanda lì accanto, costruita – secondo Ayala – troppo vicino allo strapiombo. Nei pressi di quel locale sgangherato erano sorti una piccola bottega, un’umile stalla e un bagno pubblico, con caldaie fumanti che parevano in buono stato.
Legarono il cavallo vicino all’abbeveratoio e si incamminarono verso uno dei lunghi tavoli sul belvedere. Si sedettero uno di fronte all’altro e, con grande sorpresa di Kenjirō, Ayala ordinò del sakè. La cameriera esitò alla presenza dello straniero, che non tardò ad attirare anche l’attenzione degli altri clienti, ma la compagnia di un samurai bastava a dissipare qualsiasi obiezione o riserva, quindi la ragazza annuì chinando il capo e si affrettò a servirli.
«Ho bisogno di altri vestiti» disse allora Ayala, come se pensasse a voce alta. «Devo assomigliare di più a un semplice viandante.»
Kenjirō incrociò le braccia e osservò lo straniero dalla testa ai piedi.
«Dubito che basti cambiare mantello per ingannare qualcuno.»
«Forse no se mi osservano con attenzione, ma se avessi vestiti da viaggio e un mantello come quello dei pellegrini o dei monaci mendicanti, potrei passare inosservato lungo i sentieri.» Ayala inclinò la testa per indicare la bottega. «Forse lì troveremo quello che ho in mente.»
«Se il punto è passare inosservato, mentre io cerco di procurarmi dei vestiti nuovi, vi consiglio di passare un po’ di tempo lì dentro», e indicò a sua volta il bagno pubblico.
«Che cosa vuoi dire? Mi sono lavato la sera prima di partire da Owari e poi di nuovo nel fiume Isuzu cinque giorni fa.»
Il samurai si strinse nelle spalle.
«Io mi sono lavato cinque volte in questi giorni, e mi sono immerso altre due volte nell’acqua di mare, l’ultima questa mattina stessa, prima che voi tornaste con la vostra barca.» La cameriera depositò sul tavolo una bottiglia di sakè con vari bicchierini e due ciotole di riso. «Ora visiterò la casa da bagno per ripulirmi dal sale e dal sudore e, se davvero non volete attirare l’attenzione, vi suggerisco di fare altrettanto. E di farlo tutte le volte che ne avrete occasione.»
Detto questo, versò la bevanda tiepida nei bicchierini e cominciò a bere. Ayala lo imitò corrugando la fronte, ma prima di bere il primo sorso, non poté evitare di annusare la manica del proprio abito, in cerca di quell’odore che soltanto lui sembrava non percepire.
Cadeva la sera quando cominciarono la discesa dal passo di montagna. Ayala indossava gli abiti più ampi che Kenjirō era riuscito a procurargli: un austero kimono marrone, ruvido e spesso, sul quale portava una giacca haori che gli arrivava fino a metà coscia. Aveva sostituito i sandali di cuoio con un paio di paglia intrecciata, e lo sfregamento non tardò a provocargli delle vesciche tra le dita. Continuava a coprirsi la testa con l’ampio cappello di paglia e si avvolgeva in un mantello da viaggio grigio, oltre ad appoggiarsi a un bastone il cui ticchettio marcava ogni suo passo. Come lo aveva avvertito Kenjirō, la sua statura e il modo di muoversi lo tradivano davanti agli occhi più vigili, ma adesso dava sicuramente meno nell’occhio.
Non erano ancora giunti al livello del mare quando riuscirono a intravedere la frangia di costa e l’estuario del Miyagawa, smembrato in decine di arenili secchi sui quali era stata edificata Uji-Yamada. La città, anticamente un semplice villaggio di pescatori, era cresciuta grazie alla licenza portuale concessagli dal clan Oda. Ora poteva accogliere più di cinquemila anime nei suoi quartieri uniti da ponti e chiatte, senza contare i marinai e commercianti nanban ammucchiati nella zona del porto.
Attraversarono il primo ponte che si estendeva sull’estuario fino a addentrarsi in città. Stava facendo sera, ma c’era ancora gente in strada, per la maggior parte viaggiatori che percorrevano la strada Tōkaidō e sfruttavano l’ultima ora di luce prima di cercare un locale dove passare la notte. Si respirava la spensieratezza dei posti di passaggio, di coloro che non avevano altro obbligo se non quello di seguire la propria strada, estranei alla fatica del tran tran quotidiano.
«Dobbiamo arrivare al porto» disse Ayala.
«Basta camminare verso il punto in cui svolazzano i gabbiani.»
Condussero il cavallo per le stradine di terra battuta circondate da case le cui piattaforme erano appena a uno shaku da terra. Le porte si chiudevano al loro passaggio e le persiane si sollevavano discretamente. Chi li incrociava per strada si guardava bene dal farsi da parte e salutare il samurai, mentre altri cercavano una rapida deviazione quando notavano che Kenjirō non era affatto un rōnin, ma, anzi, ostentava nientemeno che lo stemma del clan Oda.
A poco a poco l’odore di sale e olio da calafataggio di fece più intenso, e alla fine spuntarono sul molo. Al largo della scogliera galleggiavano lance di bordo e giunchi di pescatori, cullati dallo sciabordio delle onde contro gli ormeggi. La solitudine del posto aveva un che di inquietante, e solo lo scampanio degli zoccoli del cavallo sul selciato sembrava scongiurare quel silenzio… Finché il vento non trascinò fino a loro voci e risate dai confini del molo, là dove finivano i pontili e cominciava la spiaggia. Era la zona destinata alle navi nere1 e, dopo essersi scambiati un breve sguardo, il samurai e il gesuita si avviarono in quella direzione.
Camminarono alla luce delle lampade appese fuori dalle botteghe chiuse, avvicinandosi alle tre navi mercantili di bandiera portoghese. Queste oscillavano pesantemente vicino agli ormeggi, cullate dal flusso e riflusso della marea. Dalle coperte, elevate su enormi scafi gonfi di merci, si diffondevano le voci dei marinai. Ayala non faticò a immaginarseli mentre si passavano la bottiglia e si tormentavano a suon di battute e scommesse intorno a una partita a carte. Il suo accompagnatore, però, contemplava le strane imbarcazioni con la mandibola tesa e una mano sulla spada. Probabilmente, tutto ciò che sapeva degli stranieri erano solo le maldicenze raccontate dai mercanti di passaggio per Anotsu. Nella sua mente, quegli uomini dovevano essere gente rozza e litigiosa, demoni da evitare per quanto possibile… Una visione poi non così sbagliata.
Percorsero il molo verso l’ultima nave, l’unica che aveva la scaletta abbassata. Tre uomini stavano imbarcando un carico tardivo mentre un quarto supervisionava l’operazione. Senza esitare, Ayala si avvicinò all’uomo che dava le indicazioni dal fondo della scaletta. I marinai interruppero il lavoro e guardarono con diffidenza i nuovi arrivati.
«Sono padre Martín Ayala» salutò in portoghese, scoprendosi il capo e appendendo il cappello all’avanbraccio. «Scusate per l’interruzione, ma è necessario che io parli con l’armatore della nave.»
Il marinaio lo guardò da capo a piedi, lievemente sconcertato. Quando riuscì a reagire, schioccò le dita due volte nell’aria e fischiò agli altri membri dell’equipaggio: «Su, che questi pacchi non si caricheranno da soli, canaglie! Ho visto perdigiorno lavorare più di voi».
Gli uomini imprecarono e tornarono al proprio lavoro.
«Scusate, padre. Non siamo abituati a visite come la vostra e questi sono dei fannulloni fatti e finiti» disse il suo interlocutore, senza staccare lo sguardo dallo spadaccino che se ne stava qualche passo dietro al presunto sacerdote.
«Non vi preoccupate per lui. È un giapponese convertito che ci accompagna di solito quando dobbiamo avventurarci fuori dalla missione.»
«E da dove avete detto che venite, padre?»
«Oh, mi mandano dalla casa della Compagnia a Shima. C’è la possibilità che possiate aiutarci con una certa questione, ma dovrei parlare con il proprietario della nave… O con il vostro capitano.»
Il marinaio si grattò la nuca, confuso.
«L’armatore è a Nagasaki, padre. Da lì gestisce le sue faccende e le tre barche che fa andare su e giù per queste coste; e il capitano è sbarcato a Sakai per sistemare alcuni affari dei quali è meglio non parlare. Io sono Antonio da Vaz, nostromo di questa nave, che è la Santa Sofía, finché non le cambieranno di nuovo il nome. E, in tutta onestà, non so fare molto altro oltre al marinaio.»
Ayala annuì. Non era ciò che cercava, ma forse avrebbe potuto comunque estorcere qualche informazione a quell’uomo.
«Ascoltatemi bene, perché si tratta di una questione che richiede una certa discrezione» cominciò. «Alla missione abbiamo bisogno di qualcuno che possa incaricarsi di certi compiti che per noi sono pesanti, una ragazza se possibile, giapponese o coreana, che non abbia nessuno che la reclami né un posto dove tornare, non so se mi spiego.»
«Certo, padre, ma è da tempo che non abbiamo quel genere di carico in stiva.»
«E non conoscete qualcuno che possa aiutarmi? Ho sentito che qui avremmo potuto trovare ciò che cerchiamo.»
«Non è un porto per attività di questo genere, padre. A Osaka o a Firando non avreste problemi. Lì le ragazze si imbarcano ogni giorno a decine, dirette a Macao o a Goa, ma in verità qui non ho mai visto cose simili, e attracco in questo buco di posto da più di cinque anni.»
Ayala rimase zitto, quasi contrariato. Confidava di scoprire che Uji-Yamada era un porto di schiavi, perché la cosa avrebbe dato consistenza ad alcuni suoi sospetti.
«Va bene» concluse. «Mi dispiace avervi distratti dai vostri doveri.»
Cominciava ad allontanarsi quando l’uomo parlò di nuovo.
«Padre, se vi occorre qualcuno che si occupi della casa,» ragionò «forse vi conviene visitare il locale di quella sgualdrina che i marinai chiamano Oko-san.»
«Una sgualdrina?» ripeté Ayala, voltandosi verso il nostromo.
«Perdonate il mio linguaggio, padre, non è mia intenzione offendervi» disse Antonio da Vaz. «Ma quella donna gestisce una casa di appuntamenti, per così dire, e ha fama di raccattare tutte le ragazze traviate della zona. Molte orfane, di quelle che si aggirano per il porto, e perfino le figlie di cui certi contadini vogliono liberarsi finiscono lì. Non credo che quella Oko-san abbia problemi a vendervene qualcuna.»
Ayala annuì e tornò a coprirsi la testa con il sugegasa. Mentre si allontanava, seguito da Kenjirō e dal cavallo, si dispiacque di sapere che i marinai cercavano di pacificare le proprie pene in un postribolo e non in chiesa. Eppure le parole di quel portoghese avevano seminato in lui un certo turbamento.
«Molte orfane finiscono lì», di quelle che si aggirano per il porto, le ripudiate, quelle che non hanno un posto dove stare… Di quelle che non arriveranno mai a un santuario di montagna.
D’un tratto, sentì schegge di ghiaccio fargli accapponare la pelle. Non poteva tornare su quella strada, non era quello il motivo per cui era lì, anzi, era il motivo per cui se n’era andato. Eppure, come voltarle le spalle?
«Dobbiamo trovare un posto dove passare la notte» consigliò Kenjirō, estraneo alle sue tribolazioni. «Magari una locanda con stalla per riposare prima di partire per Sakai.»
«Non andremo ancora a Sakai» lo contraddisse il gesuita. «Cerca tu la locanda, io devo trovare la casa della dama Oko.»