9

La voce dietro il velo

La casa da tè della dama Oko, nel cuore del quartiere portuale, brulicava di una confusione inopportuna a quell’ora tarda. Circondata da un muretto bianco sovrastato da una piccola tettoia spiovente, la proprietà sembrava meno sordida dei locali che la circondavano, come trapiantata da una zona più prospera della città. Oltre il muro spuntavano i rami di un giardino di ciliegi; le loro foglie, ancora verdi nonostante l’autunno incipiente, frusciavano nel vento e sfioravano le terrazze del piano superiore, abitato da ombre che si muovevano in controluce dietro pannelli di carta di riso. Sporadiche risate fluttuavano lungo la strada, e il suono pulsante e acuto di uno shamisen proveniva da dentro il locale, sgranando una vecchia melodia che Ayala credeva di aver già sentito in passato. Quelli erano i suoni del “mondo fluttuante», dalle cui tentazioni sia i bonzi sia i bateren mettevano in guardia allo stesso modo.

Si fermò davanti alla porta che dava accesso al giardino, sorvegliata da un uomo dall’aspetto arcigno. Teneva le grosse braccia incrociate sopra una pancia prominente e indossava un kimono lungo fino alle ginocchia che gli lasciava le gambe nude. Il gesuita si appese il cappello all’avanbraccio, senza nascondere il suo barbuto volto da nanban.

«Mi aspettano dentro» mentì.

Il guardiano mosse le spalle all’indietro per aprirsi il kimono, in modo che l’uomo potesse vedere l’impugnatura della sciabola che portava in vita. Poi afferrò lo stuzzicadenti che faceva ballare da un lato all’altro della bocca e si fece da parte, concedendogli di passare.

Ayala annuì e si avviò nel giardino cercando di non mostrarsi intimorito. Quel primo incontro gli servì a scoprire che nel locale erano abituati alla presenza di stranieri, e a ricordargli che doveva fare attenzione, poiché con tutta probabilità lo zotico dell’ingresso non era l’unico uomo armato.

Si diresse verso la grande veranda che dava accesso alla casa; la ghiaia scricchiolava sotto i suoi passi e, oltre alle lampade in pietra che illuminavano il sentiero, si riusciva a intuire appena il contorno di alberi e arbusti agitati dal vento. Era impossibile sapere se qualcuno lo osservava dalle tenebre che popolavano il giardino, così cercò di non guardarsi intorno e mostrare una calma che non gli apparteneva.

Si tolse i calzari prima di salire sulla pedana di legno e fece scorrere la porta shōji. Oltre la porta trovò un lungo corridoio delimitato da pannelli laterali, ognuno dipinto con motivi osceni: dal riflesso di due amanti su uno stagno fino alla figura di una ragazza seduta sotto un albero, con un fiore aperto tra le gambe. L’aria era viziata dal miscuglio di incensi profumati e dal suono di parole appena sussurrate, accompagnate da risate impudiche mal dissimulate dietro il dorso della mano.

Era un luogo di lussuria, per quanto tentasse di mascherarsi dietro una patina di distinzione. Prima che potesse pentirsi di essere lì, una ragazza che non poteva avere più di dodici anni lo raggiunse dal fondo del corridoio per prendergli il cappello e il manto con cui si copriva; li ripose dietro una porta laterale e, con un leggero inchino, lo prese per mano per condurlo dentro.

Trascinato da quella bambina, Ayala osservava il delicato pannello alla fine del corridoio come se fosse la porta dell’inferno. Che cosa stava facendo? Sapeva bene che lì non avrebbe scoperto nulla sui suoi fratelli assassinati. Dietro quella porta lo attendevano solo vecchi demoni; eppure, aveva accettato la mano innocente che lo trascinava tra le fiamme di un fuoco che conosceva bene.

La ragazza fece scorrere di lato il pannello ed entrarono in una sala immersa nella penombra. La stanza era divisa da paraventi di carta, dietro ognuno dei quali si svolgeva un piccolo incubo: tra vuoti e ombre, Ayala riuscì a intravedere uomini e donne seminudi, con le mani perdute sotto i vestiti, e bambine che attendevano in ginocchio con brocche di liquori tra le mani, contemplando in silenzio per imparare il mestiere delle donne che erano arrivate lì prima di loro. Si obbligò a distogliere lo sguardo, ma non c’era modo di evitare i suoni di simile disgrazia: i sussurri, i sospiri, le saltuarie risate o l’ebbra ilarità… E mentre camminava tra quegli esseri consumati dalla dissolutezza, non trovò nel suo cuore la giusta ira di colui che avrebbe dovuto biasimare simili atti di lussuria, né la pietà che avrebbe dovuto provare per quelle bambine condannate. Aveva soltanto paura. La paura, nuda e chiarissima, che lei potesse trovarsi lì.

Quando la ragazza gli lasciò la mano, si accorse che l’aveva condotto al cospetto di una donna acconciata con la bellezza decadente di un pomeriggio d’autunno. La donna era seduta in ginocchio su una piattaforma rialzata, circondata da pannelli di legno decorati con foglie d’oro. In fondo alla stanza, nella penombra più appartata, due guardaspalle si mimetizzavano con le figure draconiane che la tinta dorata faceva emergere dalla lacca nera. Dalla sua posizione, la donna poteva vedere quanto succedeva oltre i paraventi, anche se ora dedicava tutta la sua attenzione al nuovo arrivato.

«Sono qui per incontrarmi con la dama Oko» annunciò lui semplicemente.

«La dama Oko non riceve visite.»

Ayala non aveva intenzione di discutere: estrasse una borsa da sotto il kimono e gliela porse. La donna sciolse il laccio e vide che si trattava di monete di bronzo: non meno di ottanta pezzi, a giudicare dal peso. Frugò con il dito per assicurarsi che i soldi non fossero mischiati a pietre e richiuse la borsa. La ripose sotto la sua obi di seta.

«Tsukumo, avvisa la signora.»

La ragazzina che aveva guidato Ayala fin lì annuì con un profondo inchino e scomparve dietro una porta vicina, del tutto impercettibile finché non fu aperta.

«Il mio nome è Sadashi,» si presentò allora la donna «mi occupo di gestire il locale quotidianamente. La dama Oko riceve solo i clienti più illustri, ma poiché lei è un uomo del tutto inusuale, è probabile che non si annoierà in sua compagnia. L’avverto che dovrà attendere, la dama ha bisogno di prepararsi.»

«Sono un uomo paziente» disse Ayala, e ringraziò per l’accoglienza con un leggero inchino.

Seduto sopra un cuscino sul tatami, Ayala attendeva in una stanza vuota, senza altre decorazioni che un recipiente di ceramica che faceva le veci di un incensiere. Alla sua destra, si trovava la porta dalla quale era entrato; alla sua sinistra, quella che dava accesso agli appartamenti della dama Oko, sorvegliata da due uomini che esibivano un’ineccepibile posa marziale. Non era sicuro che fossero gli stessi che aveva scorto nel salone principale, ma a giudicare dal loro atteggiamento e dalle sciabole che portavano in vita, poteva perfettamente trattarsi di rōnin e non di semplici zotici come quello dell’ingresso. Se così fosse stato, gli affari della dama Oko dovevano essere piuttosto redditizi, poiché non erano in molti a potersi permettere i servizi di due samurai.

Ayala, in ogni caso, si limitava a tenere gli occhi fissi sul braciere in ceramica. Il fumo dell’incenso, che fino ad allora era filtrato dagli interstizi del coperchio di ferro, si era estinto a poco a poco, insieme alla fragranza floreale che impregnava l’aria. Questo gli dava un’idea del tempo che stava passando lì in attesa.

La porta che dava sulla sala si aprì per far entrare un secondo cliente dall’aria dimessa. Camminava curvo e indossava abiti da viaggio molto consumati, e salutò con ripetute riverenze i presenti prima di sedersi sul cuscino accanto allo straniero. Mandava un aroma di erbe e spezie che si insediò nella stanza insieme a lui. Quando si fu accomodato, sorrise con timidezza ad Ayala, mostrando denti scuri e storti, e questi gli ricambiò la cortesia chinando la testa. Alla fine, l’ultimo arrivato si perse nella contemplazione del fumo che svaniva, come aveva fatto il gesuita poco prima.

«Magari potessi avere una barba come quella» mormorò tra sé, senza smettere di sorridere. «Forse così sembrerei meno brutto.»

Ayala lo guardò di sbieco e si accarezzò il mento. Fu un gesto incosciente, ma l’altro capì subito che lo straniero l’aveva inteso.

«Perdonate la mia insolenza» pregò, giungendo le mani in un gesto di supplica e chinandosi di fronte ad Ayala. «Non immaginavo che poteste capirmi.»

«Non dovete scusarvi. Non mi avete offeso.»

«Sono un uomo disprezzabile, terribilmente goffo» continuava a umiliarsi lo sconosciuto.

«Non dovete continuare a scusarvi» insisté Ayala. «Sono un viaggiatore di passaggio, non è così semplice offendermi.»

L’uomo sollevò brevemente lo sguardo e vide che lo straniero lo osservava in silenzio. A poco a poco, riprese la sua posizione sul cuscino.

«Mi dovete scusare, non sono abituato a trattare con gente come voi. Vi vedo sempre nei porti franchi, ma non ho mai immaginato che poteste parlare come noi.»

«Avete avuto sfortuna» disse il gesuita. «Di tutti i nanban che dovete aver incrociato, è probabile che io sia l’unico in grado di capirvi.»

Il suo interlocutore lo guardò di sbieco, non sapeva come interpretare esattamente quelle parole. In ogni caso, si fece coraggio e si presentò: «Il mio nome è Sadakata. Sono un fabbricante di incensi».

«Io sono Ayala» rispose lo straniero, senza specificare altro.

Il mercante lo salutò di nuovo con un piccolo inchino, come se la conversazione cominciasse in quel momento.

«Non so voi, ma io non sono abituato a questi ambienti così raffinati. È per questo che temo di sbagliarmi a ogni passo.»

Ayala diete un’occhiata intorno, alla sobria stanza e ai due uomini armati che parevano imperturbabili.

«Non credo si offenderanno, purché siate disposto a pagare quel che vi chiedono» disse con indifferenza.

«Oh, certo che pagherò. Sono qui per un festeggiamento speciale, capite?» Ayala non capiva né gli interessava capire, ma l’uomo continuò: «Ho avuto un colpo di fortuna, di quelli che ti cambiano la vita. Ieri stavo vendendo la mia mercanzia sul ponte Uji, davanti all’entrata del Grande Santuario, e un pellegrino si è fermato ad annusare l’incenso che avevo acceso. Con sommo godimento, ha elogiato la freschezza della fragranza e le sfumature di sandalo che la impregnavano. È uno dei miei tocchi speciali, insieme a qualche altro che preferisco non rivelare, non so se potete capirmi. Ha voluto comprarne alcuni bastoncini; io avevo già fatto cassa a sufficienza per la giornata, e lui è stato così gentile che ho deciso di non farglieli pagare. Poi ho saputo che quel pellegrino era lo shogōji di Ise, e il santuario ha deciso di comprarmi tutta la merce. Ho venduto in un giorno tutto l’incenso che avevo per il resto dell’anno. E se si conserva bene e ha una buona combustione, l’anno prossimo ne compreranno un altro carico, così mi hanno assicurato». L’uomo si sfregò le mani, orgoglioso. «Non è solo per la vendita, essere il fornitore del Grande Santuario di Ise mi darà un nuovo status. Capite cosa intendo?»

«Me lo posso immaginare» rispose Ayala con freddezza. «Vedo che voi siete un uomo pio.»

«Vi prego di non essere duro con me. Posso sembrare avaro, ma non è così. Vendere incenso nei santuari è un mestiere ingrato, ma grazie a questo colpo di fortuna forse la mia famiglia potrà prosperare.»

«Senza dubbio, questo è buon posto per celebrare la nuova vita» disse Ayala.

Il commerciante lo guardò ora apertamente, forse sorpreso che l’uomo con cui condivideva il bordello e la prostituta lo giudicasse con la severità di un bonzo. Allora credette di capirlo: «Non sono stato con nessuna delle ragazze» chiarì. «Vengo a far visita alla dama Oko, come voi. Si vede che entrambi apprezziamo di più la frutta matura» aggiunse, in cerca di una complicità che non trovò.

In quel momento, la porta in fondo all’anticamera si aprì. La ragazza che aveva fatto scorrere il pannello, inginocchiata dall’altro lato del vano, annunciò che la dama Oko poteva ricevere lo straniero. Ayala si alzò in piedi e avanzò verso gli appartamenti della signora della casa.

«Buon divertimento» lo salutò il mercante, ma il gesuita preferì evitare commenti.

Quando fu dentro, la ragazza scivolò fuori dalla stanza e si chiuse la porta alle spalle. Una sola fiamma fluttuava all’interno, sospesa sopra una candela mezza consumata. L’esigua luce riusciva appena a illuminare le filigrane del paravento posizionato al centro della sala, fra l’entrata e la grande terrazza che si apriva in fondo, dove si intravedeva quello che, senza dubbio, era il giardino personale della dama Oko, con forme e meandri tenuemente illuminati dal riverbero della luna.

«Mi dicono che, nonostante voi siate straniero, siete in grado di capire e parlare la nostra lingua» commentò una languida voce dietro il pannello di carta.

«Così è» rispose Ayala, mentre si accomodava su un cuscino che era stato disposto davanti al paravento.

«E com’è possibile una cosa del genere? Gli stranieri che girano per questo quartiere sono a malapena in grado di grugnire e sbavare sulle mie ragazze.»

Nella voce della donna c’era un tono frivolo che lo disgustava profondamente.

«Tutto si può imparare. Basta avere tempo e volontà a sufficienza.»

«Tempo e volontà» ripeté la dama Oko. «Molti uomini sprecano il primo, e la maggior parte non possiede la seconda.»

«Non è il mio caso.» Cominciava a spazientirsi. Forse i clienti di Oko cercavano l’illusione di corteggiare una gran signora, ma lui non era lì per quello. «Sono venuto perché ho bisogno di qualcosa da lei.»

«Tutti gli uomini che mi fanno visita hanno bisogno di qualcosa da me; ma spesso scoprono che ciò di cui hanno davvero bisogno non è ciò che li ha portati fin qui.»

«Non mi interessano i vostri incanti. Non è ciò che vengo cercando.»

La donna rise, leggera: «Forse saprete parlare la nostra lingua, ma nel trattare le signore non siete molto diverso da quegli altri barbari in grado solo di grugnire e ansimare».

«Cerco una ragazza di nome Junko» disse lui infine, incapace di protrarre ulteriormente quella pantomima. «È possibile che sia entrata a vostro servizio dieci anni fa.»

La voce dietro il velo rimase in silenzio, ma Ayala riuscì a sentire il fruscio della seta quando Oko-san si agitò dietro il paravento.

«Qui non abbiamo mai avuto nessuna Junko.»

La donna gli mentiva, Ayala lo capì da quella risposta brusca, dal suo tono grave, privo della frivolezza che aveva dimostrato fino a quel momento.

«Vi prego di fare uno sforzo per ricordare. Era una ragazza fragile, molto timida, doveva avere circa diciassette anni allora.»

«Mi state descrivendo tutte le ragazze che arrivano alla mia porta, straniero.»

Il gesuita sospirò, disperato.

«Nessuna delle bambine che sono state qui portava la croce al collo?»

«No. Quel tipo di cose non farebbero che mettere a disagio la nostra clientela» concluse la dama Oko. «Non so cosa voi stiate cercando, ma non lo troverete nella mia casa.»

Ayala capì che non poteva andare oltre. Lì non avrebbe trovato le risposte di cui aveva bisogno, e forse era meglio così.

«Ora, se lo desiderate, possiamo dedicarci a questioni più gradevoli» lo invitò la voce, recuperando la sua sfumatura allusiva.

«Non sarà necessario.»

Alzandosi in piedi, si scoprì con i pugni stretti e le spalle curve. Il suo animo oscillava sulla lama di un coltello, disposto ad abbandonarsi all’ira quanto alla più profonda delle malinconie.

Kudō Kenjirō attendeva nella penombra di un vicolo che puzzava di urina e umidità. Indossava ancora il cappello di paglia, nascondendo il volto come un delinquente, e aveva fatto girare la sua lunga spada sul fianco, con la lama orientata verso l’alto, in modo che potesse ferire nell’atto stesso di sguainarla. I suoi occhi, invisibili sotto l’ampia tesa del sugesaga, scrutavano l’uscita della casa da tè. Altre due persone erano entrate dopo lo straniero, ma nessuno aveva ancora lasciato il posto. Di tanto in tanto, una risata o una voce ebbra disturbava la notte serena, e in quelle occasioni aveva l’impulso di abbandonare il suo posto ed entrare in cerca dell’uomo che doveva proteggere.

L’incertezza cominciava a risultargli insopportabile quando, finalmente, vide Ayala uscire dal locale. Camminava a lunghi passi, con lo sguardo basso, completamente estraneo a quanto lo circondava, e Kenjirō ebbe l’impressione che qualcosa avesse turbato lo spirito di quell’uomo, di indole generalmente serena. Lo seguì con prudenza tra le ombre proiettate dai cornicioni delle case, finché non fu sicuro che nei dintorni non c’era nessun altro.

«Ayala-sensei» lo chiamò il samurai, uscendo allo scoperto e affrettandosi a raggiungerlo. «Vi accompagno alla locanda.»

L’interpellato lo guardò quasi sobbalzando, come se non ricordasse chi era quello straniero: «Kenjirō» mormorò. «Cosa ci fai qui?»

«Ho lasciato il cavallo alla prima locanda con stalla che ho trovato e sono venuto a cercarvi. Non vi allontanerete di nuovo da me, non permetterò che corriate ancora dei rischi.»

Ayala gli rivolse uno sguardo cupo: «Tu non puoi permettere o non permettere proprio niente, yōjinbō» esclamò irritato. «Non ho attraversato mezzo mondo per seguire le istruzioni di un ragazzino.»

Il goshi si costrinse a tacere. Nonostante arrivasse da terre incivili, quell’uomo non si era mai mostrato scortese fino a quel momento. Era ovvio che qualcosa l’aveva alterato, e solo uno sciocco discute con chi è sconvolto dalle circostanze, così si limitò a fargli strada in silenzio.

Raggiunsero la casa di posta dove Kenjirō aveva trovato alloggio, molto vicina alla strada principale che, ricucendo insieme i diversi quartieri come una lenza, univa i meandri del Miyagawa fino a riportare sulla strada Tōkaidō. Kenjirō fu il primo a entrare nella sala principale. A quell’ora erano pochi gli irriducibili che si rifiutavano di claudicare per la stanchezza o il sopore del sakè, e uno strano silenzio pesava sulla scarsa clientela.

Cercò con gli occhi il proprietario, ma trovò solo una cameriera inginocchiata accanto a uno dei tavoli. L’occupavano tre samurai un po’ bevuti, come mostrava il loro atteggiamento sprezzante, e la donna si sforzava di annotare le ordinazioni mentre si ritorceva per evitare le mani che quegli uomini le facevano scivolare sotto il kimono.

Il resto dei commensali assisteva alla scena in silenzio, guardandosi bene dal fare qualunque cosa che potesse risvegliare la facile collera di un samurai ubriaco.

«È tardi, sarà meglio cenare in camera» disse Kenjirō, senza distogliere gli occhi dalla scena.

Anche Ayala contemplò i tre spadaccini: guerrieri vestiti con il blasone del clan Oda che si comportavano come malviventi della peggior specie, e fu d’accordo con la proposta del suo giovane protettore. Aveva visto miserie a sufficienza per quel giorno.

Ma prima che potessero raggiungere la scala, uno dei samurai alzò la sua tazza di sakè e, cingendo la cameriera in vita, chiamò a gran voce: «Amici! Ecco qui un compagno d’armi, un samurai al servizio del Re Demone, come noi!».

Gli altri si accorsero della sua presenza, e insistettero con clamore perché i due si unissero alla festicciola. Il gesuita socchiuse gli occhi, infastidito da quella serata che sembrava non avere fine, ma Kenjirō prese la parola prima che lui potesse aprir bocca: «È un onore che dei samurai di sua signoria ci invitino al loro tavolo, ma la giornata è stata lunga e domattina dovremo partire presto».

«Ma perché tutto questo formalismo?» esclamò il primo. «Siediti con noi e porta con te il tuo amico barbuto.»

«Sì, sedetevi, è un ordine» disse un altro, probabilmente quello di maggior rango. «Dopo tutto, offre la casa.» E i suoi compagni gli fecero il coro celebrando la trovata a suon di risate.

Kenjirō guardò di sbieco Ayala e questi capì che avrebbero dovuto accettare. Rifiutare di netto l’invito di quegli uomini poteva essere interpretato come una grave offesa. Così si avvicinarono al tavolo e, dopo che l’altro ebbe congedato la cameriera con un buffetto sulle natiche, si sedettero insieme ai samurai.

«Da dove vieni, compagno?» gli chiese uno.

«Veniamo da Owari, sono vassallo del signor Akechi Mitsuhide.»

«Noi abbiamo servito per tre anni ad Azuchi, durante la costruzione del nuovo castello» disse quello che sembrava meno ubriaco, un uomo dai baffi brizzolati che ancora riusciva a tenersi in equilibrio senza doversi appoggiare al tavolo. «Tre anni a patire l’umidità di quel maledetto lago; di mattina la bruma nascondeva perfino il sole» si lamentò fra i denti.

«Ma ora abbiamo un lungo permesso, Nobumori» disse il più giovane dei tre, scuotendolo per la spalla. «Il Re Demone ha finalmente il suo gran castello e noi possiamo goderci l’alcol e le donne di Shima.»

«E tu, ragazzo, che ci fai con questo barbuto?» chiese il capo, indicando lo straniero con la sua tazza di sakè.

«Il maestro Ayala ha un permesso speciale della corte di Gifu per percorrere le nostre terre» spiegò brevemente Kenjirō. «Io lo assisto come guardaspalle per ordine del clan Oda, ecco perché indosso il blasone di sua signoria.» E, dopo un istante di esitazione, aggiunse: «E poi, è un abile interprete, capisce tutto quel che diciamo».

«Ah, sì?» l’ufficiale abbozzò un sorriso ebbro. «Capisci quello che ti dico, barbuto?»

Ayala annuì sobriamente.

«E com’è che uno straniero percorre queste terre? Credevo che non vi piacesse allontanarvi troppo da Osaka e Nagasaki.»

«Faccende della missione» rispose.

«Della missione?» ripeté il samurai, facendo ballare la ciotolina di sakè davanti alla faccia del gesuita. «Sei uno di quei bateren, uno di quei corvi che svolazzano qua e là con la loro croce?» Ayala non rispose. Si limitò a osservare con chiaro sdegno il guerriero, proprio come aveva fatto da quando era entrato. «Sua signoria vi tiene in gran considerazione, ma io credo che siate gente di cui non c’è da fidarsi, barbari che vanno dicendo ai contadini che non esiste altro signore che il vostro dio, e che tutto ciò che uccide, sia heimin o samurai, subirà la condanna eterna.»

«Così è, questo è ciò che insegniamo.»

«Io ho ucciso sette uomini, barbuto,» grugnì il samurai tra i denti «tutti per la maggior gloria del mio signore. Sono quindi condannato? Il tuo dio non apprezza forse la devozione e il valore di un guerriero?»

«Voi samurai tendete a pensare che l’abilità con la spada dimostri qualche sorta di elevazione spirituale, ma la verità è che saper uccidere è un talento di dubbia entità, in nessun caso superiore a quello del macellaio che affila bene i suoi coltelli.»

Le parole di Ayala, pronunciate con infinito disprezzo, fecero calare un pesante silenzio sul tavolo. I tre samurai si scambiarono uno sguardo torvo. Lentamente, il più giovane afferrò la spada che giaceva alla sua sinistra e mise mano all’impugnatura. Cominciava ad alzarsi in piedi quando Kudō Kenjirō colpì il tavolo con l’estremità della sua katana inguainata; i bicchierini di liquore si versarono e le bottiglie oscillarono, sul punto di cadere.

Senza riporre la spada, che mantenne salda davanti ai tre guerrieri, disse: «Se sguainerai la tua arma, compagno, la cosa più probabile è che uno di noi due morirà. È anche possibile che entrambi dovremo congedarci da questa vita. Pensa, piuttosto, che uno straniero è qualcuno che non conosce i nostri costumi né la minima educazione; irritarti per le sue parole è come irritarti per via del cane che abbaia al tuo passaggio».

I soldati di Oda rimasero in silenzio, le voci e le espressioni congelate, come il resto dei presenti nella sala. Il gesto di Kenjirō denotava una volontà ferrea, salda come la mano che reggeva la spada, e così la interpretò l’ufficiale, che alla fine fece un cenno con la testa al proprio subordinato. Questi obbedì riluttante, come se dovesse sovrapporsi a una forza che gli tirava il braccio; finalmente si rimise seduto e depositò di nuovo la spada alla sua sinistra.

«Devo chiedervi di andarvene» disse il maggiore dei tre guerrieri.

Kenjirō annuì con un inchino.

«Grazie per il vostro invito. È stato un onore dividere il tavolo con tre samurai di Oda-sama.»

Si ritirarono al piano superiore, lasciando il salone immerso in un silenzio insopportabile. Quando alla fine arrivarono in camera, una stanza praticamente vuota con due pagliericci stesi sul legno, Kenjirō chiuse veloce la porta e si girò verso Martín Ayala. Il gesuita sostenne lo sguardo del giovane goshi; non c’era pentimento negli occhi dello straniero, piuttosto un’ostinata aria di sfida. Quale stupore lo colse quando il samurai si prostrò in ginocchio davanti a lui e, con la testa china, disse: «Ayala-sensei, vi prego di non mettere mai più in pericolo le nostre vite inutilmente. Il mio dovere è proteggervi a costo della vita, e da questo incarico dipenderanno l’onore di mio padre e della mia casa, ma vi prego di non farmi morire per una ragione indegna».

Ayala fece un passo indietro, sopraffatto dalle parole di quell’uomo, molto più giovane di lui ma anche molto più assennato. E non poté che cadere in ginocchio a sua volta, sinceramente pentito, mentre Kenjirō continuava a protendersi in un inchino.

Sadakata, il venditore d’incensi, non distoglieva lo sguardo dal braciere di ceramica. Era passato parecchio tempo da quando lo straniero aveva lasciato gli appartamenti della dama Oko, eppure lui non era stato ancora ammesso alla sua presenza. Alle donne piace farsi pregare, pensò.

«Vi dispiace se smuovo un po’ le braci? Conviene mantenere riscaldata la stanza.»

«Fa’ quel che vuoi, ma non parlare» rispose brusco uno dei due sorveglianti.

Il commerciante sorrise, servile di fronte alla posa di quei due presunti bushi. Sollevò il coperchio di ferro sbalzato e cominciò a smuovere le braci con un piccolo attizzatoio.

«Aggiungerò un poco del mio incenso» disse, mentre depositava fra i tizzoni alcuni coni di resina pressata. «È quello che verrà bruciato durante il prossimo Kannamesai,1 quindi potete considerarvi privilegiati.»

Attizzò ancora un poco le braci prima di ricoprire il recipiente. All’istante, la fragranza di sandalo e artemisia cominciò a spandersi nell’aria, e Sadakata si immerse nuovamente nella contemplazione del fumo che filtrava dall’incensiere. Ma non dovette attendere ancora molto: la porta degli appartamenti venne socchiusa di nuovo e la giovane valletta annunciò che la dama Oko era pronta a riceverlo. Felice, l’uomo si diede una pacca sul ginocchio e si alzò in piedi.

«È stato un piacere chiacchierare con voi» si congedò con inattesa ironia, rivolgendo ai due guardaspalle il suo sorriso malridotto.

Sfregandosi le mani, entrò nel regno dolcemente profumato della gran signora dei postriboli di Uji-Yamada. Si fermò sulla soglia, e solo quando sentì che la ragazza faceva scorrere la porta alle sue spalle, si decise a fare qualche passo nella penombra. In mancanza di altre indicazioni, si accomodò davanti al pannello decorato con filigrane d’oro e attese.

«Mi hanno detto che voi siete un uomo accompagnato dalla fortuna, signor Sadakata» disse, infine, una voce.

«Vedo che le pareti della vostra residenza hanno le orecchie, mia signora.»

Una risata cadenzata si elevò dietro il paravento.

«Sono una donna d’affari, proprio come voi. Devo tenermi informata se voglio che la mia casa prosperi.»

«Sono felice che ci uniscano degli interessi comuni», commentò il mercante «non ho dubbi che la vostra casa sia tra le più prospere della provincia. E ditemi, quali altre indiscrezioni sui vostri visitatori avete raccolto questa sera?»

«Oh, non è cortese interrogare una dama, signor Sadakata. Cosa sarebbe di noi se consegnassimo le nostre confidenze al primo cavaliere che ce ne fa richiesta?» La dama rise di nuovo e, con un tono perverso, aggiunse: «E poi, sospetto che non siano questi i segreti che più vi interessano».

La donna dovette accendere una lampada, perché una luce calda si diffuse dal pannello e la sua figura si proiettò confusa sulla carta decorata. Aveva i capelli sciolti, lunghi sulle spalle, e la sua ombra si muoveva con fare elegante mentre si liberava della parte superiore del kimono, che frusciò con il rumore della seta.

Sadakata sorrise e, come se Oko avesse potuto vedere la sua espressione, la donna comprese che quell’uomo non era come il resto dei suoi clienti.

«La verità è che voi non sapete nulla dei segreti che mi interessano.»

Il mercante si alzò e, con un movimento della mano, scostò il paravento. Dall’altro lato, la dama Sadashi, la donna che riceveva i clienti nella sala grande, si copriva il petto con espressione offesa.

«Come osate essere così insolente?»

«Non vi preoccupate» disse Sadakata, inginocchiandosi vicino a lei. «Conosco i vostri sotterfugi da cortigiana. Ho già sentito parlare di donne straordinarie dalla bellezza atemporale, autentiche figlie dei kami che, tuttavia, si vendevano nei quartieri a luci rosse come sgualdrine qualsiasi. Nel momento della verità, nessuno le aveva mai viste in faccia, e quando arrivava il momento di metterglielo dentro, la presunta dama scivolava nell’ombra e veniva rimpiazzata da una giovinetta del bordello; questo è il segreto per mantenere la pelle tersa e le tette piene per anni, non è vero? E i poveri infelici là fuori che pagano una fortuna per libare la fonte dell’acqua eterna, quando in realtà si stanno scopando una puttana che, se l’avessero presa nella sala grande, gli sarebbe costata una manciata di bronzo.»

Con grande dignità, Sadashi smise di nascondere i seni e si posò le mani in grembo. L’uomo si permise di contemplarla per un istante, e si disse che quella donna si sbagliava: forse gli anni avevano sciupato la sua bellezza, ma non aveva bisogno di alcun artificio per risvegliare il desiderio degli uomini, poiché c’era nei suoi occhi una ferocia splendida, un’irresistibile determinazione cresciuta nella tempesta e contro i colpi della vita.

«Quale sarà il prezzo per mantenere il mio segreto?» chiese lei.

Sembrava davvero disposta a consegnargli tutto ciò che aveva, ma un gesto quasi impercettibile tradì le sue intenzioni: aveva guardato brevemente di sbieco alla sua destra, fuori dal circolo di luce, e l’uomo si accorse del fulgore smorzato di una campanella di metallo. Sapendosi scoperta, la dama Sadashi si sbilanciò sul piccolo strumento facendolo suonare.

Sadakata non la colpì né cercò di strapparle via la campanella.

«Non disturbarti» disse con calma. «I tuoi uomini devono essere già addormentati, proprio come la tua damigella. Nessuno accorrerà in tuo aiuto.»

L’intruso si alzò in piedi e, prendendola per i capelli, cominciò a trascinarla verso l’oscurità di uno degli angoli della stanza, dove non arrivava nemmeno la luce della luna proveniente dal giardino. Lei si contorse e prese a scalciare con le lacrime agli occhi, ma finì per capire che si sarebbe solo fatta più male.

«Nulla di tutto questo era necessario» disse infine Sadakata, obbligandola a sedersi contro la parete. «Voglio solo che mi parli dello straniero che ti ha fatto visita prima di me. Sospetto che non siano i tuoi incanti ad averlo portato fin qui.»

«Perché? Cosa può importarti che uno straniero parli con una donna come me?»

L’uomo le tirò i capelli per farle alzare la testa e obbligarla a sostenere il suo sguardo. Non c’era violenza né furia nei suoi occhi, solo la promessa che avrebbe fatto tutto il necessario per ottenere ciò che voleva.

«Limitati a dirmi la verità, e sparirò dalla tua vista.»

Sadashi trattenne le lacrime. Era molto tempo che un uomo non la trattava così; di fatto, tutto quel che aveva ottenuto negli ultimi anni aveva come unico obiettivo il tenerla lontana da certe situazioni.

«Voleva sapere di una ragazza di nome Junko. Pensava che potesse esser stata al mio servizio.»

Un’ombra di sconcerto si affacciò sugli occhi di Sadakata, che però non mollò la presa, anzi strinse ancor di più il pugno intorno alla ciocca di capelli prima di chiedere: «Ed è così? Hai tenuto qui la ragazza?».

La donna annuì.

«Molti anni fa, otto o nove, finché uno di quei barbari non si è incapricciato di lei e me l’ha comprata.»

«Quindi se l’è portata via un altro straniero. E a lui l’hai detto?»

«No. Il mio silenzio faceva parte dell’affare» rispose Sadashi.

«Ricordi qualcosa di quest’altro straniero? Il suo nome?»

Lei fece segno di no con la testa, e lui non si disturbò nemmeno a insistere. Si limitò a tirar fuori dal nulla un coltello dalla lama nera, che fece scivolare sotto il mento della donna.

«Te lo giuro, so solo che aveva delle barche e che veniva da Osaka. Credo che fosse di passaggio, è stata la prima e l’ultima volta che l’ho visto.»

«E la bambina? Che cosa ricordi di lei?»

«Era uguale a tutte le altre, ma portava una piccola croce al collo. Le ho permesso di tenerla perché ho pensato che potesse risvegliare l’appetito di determinati clienti; credo che fu questo ad attirare l’attenzione di quell’uomo.»

Il falso mercante ritirò la lama, ma solo per metterla di fronte agli occhi di Sadashi. Il metallo era così scuro che divorava ogni luce lo sfiorasse, senza mandare il minimo bagliore.

«Ascoltami bene» disse con il gelo nella voce. «Ora lascerò questa casa dalla porta principale, come ogni cliente soddisfatto, e tu mi dimenticherai come si fa con un brutto sogno. Perché in realtà non sai nulla di me: non sai chi sono, né di cosa sono capace. Ma se dovessi commettere una sciocchezza, tornerò con l’aspetto di un uomo qualsiasi; sarò uno qualunque dei disgraziati che si presentano ogni sera alla tua porta, e prima che tu possa anche solo sospettarlo, il mio coltello ti taglierà la gola così profondamente che non avrai voce per congedarti da questa vita.»

Lei annuì senza allontanare il viso.

«Sono contento di vedere che sei davvero una donna d’affari.»

Igarashi Bokuden scese fino alla spiaggia al riparo della notte. Avanzava verso la riva e, a ogni passo, si lasciava alle spalle il mercante Sadakata: raddrizzò le spalle e abbandonò l’espressione servile, lasciò cadere sulla sabbia l’haori e il kimono consunto, fino a entrare nudo in mare e sciacquarsi la bocca con l’acqua salata. Solo quando smise di percepire sulla lingua l’amarezza dell’inchiostro con cui si era scurito i denti, passò a lavarsi la faccia; insisté fino a far sparire completamente la polvere di carbone che approfondiva il contorno dei suoi occhi e accentuava le rughe. Infine, si dedicò con pazienza ai capelli infeltriti, districandoli finché questi non gli caddero, lisci e zuppi, a metà della schiena.

Quando non fu rimasta più alcuna traccia del venditore di incensi, camminò dietro una piccola montagnetta di pietre e cominciò a scavare nella sabbia in cerca dei suoi averi. Aveva poco tempo per riposare, poiché molto prima dell’alba doveva trovarsi vicino alla locanda dove alloggiavano il bateren e il suo guardaspalle, pronto a seguirli come aveva fatto finora. Nonostante questo, si prese qualche istante per riflettere di fronte al mare, mentre aspettava che la fredda brezza notturna gli asciugasse il corpo.

La prima idea che lo assalì fu che non capiva quell’uomo, e ciò lo preoccupava. Una ragazza venduta a uno straniero cosa poteva avere a che fare con gli omicidi che erano stati perpetrati lungo la strada Tōkaidō? Apparentemente, la ragazza aveva qualche relazione con i bateren, o perlomeno adorava il loro dio, se quanto aveva detto la donna era vero. Ma erano più di sette anni che se l’erano portata via, la cosa più probabile era che ormai fosse fuori dal paese, se non morta. Non riusciva a trovare una connessione, aveva bisogno di verificare altri dettagli… O forse quella ragazza non c’entrava nulla con i crimini, forse il corvo aveva i propri interessi, estranei a quelli di coloro che l’avevano mandato lì.

In ogni caso, adesso c’erano due fili da tirare in quel gomitolo. Restava da capire se, sbrogliandolo, si sarebbe trovato fra le mani le due estremità di una stessa corda o due capi completamente diversi.

1. Kannamesai: cerimonia più importante dell’anno al Grande Santuario di Ise. Si celebra nella seconda metà di ottobre.