Martín Ayala attendeva nel cortile allagato, riparandosi dalla pioviggine costante sotto il mantello gesuitico che aveva recuperato per il suo soggiorno a Sakai. Era in compagnia di padre Farías e fratello Peiró, con un accenno di giusta indignazione in volto per quanto era sul punto di accadere. Alle spalle dei sacerdoti si trovava Kudō Kenjirō, che seguiva con lo sguardo la comitiva di cinque cavalieri e tre uomini a piedi che attraversava il cortile nella loro direzione.
La tempesta di quella notte aveva spazzato la pianura in direzione del mare, e anche se il vento e la tormenta erano passati da tempo, una pioggia persistente inzaccherava il paesaggio e adombrava gli animi. Tali inclemenze, tuttavia, non avevano dissuaso Ayala dal suo macabro proposito: quella mattina avrebbero dissepolto il corpo di padre Lorenzo anche se il cielo si fosse aperto sulle loro teste. Nonostante fosse un compito detestabile agli occhi di tutte le persone lì riunite, Fuwa Torayasu aveva insistito per essere presente durante l’esumazione, oltre a offrire i suoi uomini per portarla a termine.
Il daimio fermò la propria cavalcatura davanti al gruppo in attesa sotto la pioggia. Smontò accompagnato da quattro samurai, e un domestico si affrettò a coprirlo dalla pioviggine con un ombrello.
«Siamo grati per la vostra comprensione e il vostro aiuto, o-tono» lo salutò Ayala con un inchino.
«Profanare il riposo dei morti è un abominio, padre Ayala, un gesto che in qualunque altra circostanza verrebbe castigato con la morte» lo avvertì Fuwa. «Ma devo confidare nel criterio dell’emissario di Roma, e se credete che questo vi aiuterà a trovare l’assassino di padre Lorenzo, mi sento obbligato non solo a permettervelo, ma anche ad accompagnarvi in questo frangente.»
Il gesuita annuì. Non aveva bisogno che qualcuno gli ricordasse la gravità di quel che era sul punto di fare.
Con passi lenti, come se si trattasse di un corteo funebre, i dodici uomini si incamminarono verso il camposanto che si estendeva accanto alla chiesa. Alcune tombe erano indicate con piccole lapidi annerite, la maggior parte da umili croci che erano poco più di due bastoni legati insieme. Molte apparivano sbilenche, piegate dal peso della tempesta.
«Qui riposa padre Lorenzo» indicò fratello Peiró.
Si differenziava dal resto delle sepolture solo per la ciotola di riso che qualcuno ci aveva posato sopra. L’acquazzone aveva sparso parte dell’omaggio a terra, e Ayala, commosso nel vedere che i fedeli non dimenticavano il loro parroco, si inginocchiò e cominciò a raccogliere i chicchi per depositarli nella ciotola sbeccata.
Quando ebbe concluso, intrecciò le mani e mormorò: «Requiem aeternam dona ei, Domine, et lux perpetua luceat ei».
Si alzò in piedi e diresse un muto cenno di assenso al resto dei presenti. Uno degli ufficiali fece schioccare le dita verso i due eta che erano venuti con loro dall’accampamento. Entrambi fecero un inchino in direzione della tomba e, dopo aver estratto con attenzione la croce, cominciarono a scavare.
Il terreno aveva assorbito parecchia acqua durante la notte, cosa che rese più facile la rimozione della terra che copriva la bara. Con fare circospetto, la testa ancora coperta dal cappuccio del mantello, Ayala contemplava il lavoro dei due paria. Non sapeva cosa avrebbe scoperto, ma non poteva continuare ad appigliarsi a racconti di terzi, poiché fino a quel momento nessuno aveva esaminato quei corpi con il proposito di discernere la verità. Erano stati trattati con il rispetto e la devozione che meritavano i resti di un fratello caduto, non come il risultato di un atto terribile, non come l’impronta che lascia dietro di sé un assassino.
A poco a poco, gli spigoli di legno cominciarono a emergere da sotto il fango. Ogni nuova spalata esponeva un po’ di più la cassa che conteneva i resti del gesuita, finché la pioggia non cominciò a tamburellare sul legno di pino levigato. Quel suono provocò un fremito tra i presenti, eccetto per i due eta, che, concentrati sul loro compito, continuarono a scavare finché non riuscirono a far passare delle corde sotto la bara. Usando le funi, riuscirono a disincastrarla dal terreno e la depositarono accanto all’umida fossa.
Uno di loro estrasse due martelli e delle spatole da una borsa, mentre l’altro si dedicava a inzuppare dei fazzoletti in un liquore di patata dolce.
«Forse i signori vorranno allontanarsi» avvertì il più anziano dei due.
Tutti si scostarono mentre i due uomini si coprivano la bocca con i fazzoletti e se li annodavano sulla nuca. Subito dopo, fecero scivolare le spatole sotto il coperchio e, facendo leva, colpirono con i martelli finché i chiodi non cominciarono a cedere. Quando sollevarono la tavola, dalla bara esalò una zaffata nauseabonda che fece voltare tutti i presenti.
Ayala attese che il fetore della morte si dissipasse nella pioggia, quindi si tolse il cappuccio e si avvicinò al feretro. I due eta si fecero da parte, in modo che il gesuita potesse chinarsi sopra i resti del fratello. Un telo macchiato per via della putrefazione avvolgeva il defunto; senza sapere che cosa avrebbe trovato sotto il sudario, il visitatore allungò una mano tremante e lo sollevò.
Scarafaggi e altri insetti correvano sopra il cadavere, che appariva quasi completamente scarnificato, con la pelle flaccida e screpolata, vuota della sostanza che dà forma al corpo. Il volto di Lorenzo era completamente irriconoscibile, appena una fine pergamena sopra le ossa. Le sue labbra, mordicchiate e socchiuse, coprivano a malapena i denti, e le orbite degli occhi osservavano Ayala con una vuota espressione stupefatta: “Perché mi fai questo?” sembrava chiedere. “Non ho forse già dato a sufficienza?”
Il visitatore deglutì e continuò l’ispezione. Aveva bisogno di vedere le ferite che avevano ucciso quell’uomo, quindi, con dita nervose, cominciò a sbottonare l’abito da sacerdote con cui era stato seppellito.
«Che cosa pensate di fare?» chiese Farías alle sue spalle, scandalizzato.
«Ciò che devo» si limitò a rispondere Ayala, e continuò a sganciare i bottoni, uno a uno.
Nonostante l’attenzione con cui si muoveva, nello scostare i vestiti strappò la sottilissima pelle del torace, che venne via, ormai del tutto aderente al tessuto. Le ossa delle costole spuntavano bianche tra la carne secca e divorata dagli insetti. Il ventre era svuotato, attraversato da parte a parte da una cicatrice nera e mal rammendata che sottolineava come, proprio come nel caso di fratello Nuño di Shima, Lorenzo era stato eviscerato ancora in vita. Chiuse gli occhi e allontanò il volto. Che cosa credeva di trovare lì, in quel corpo devastato dalla morte?
«Fratello Peiró, voi siete medico, come lo era Lorenzo,» disse con voce debole, ancora inginocchiato davanti al cadavere «vedete qualcosa che io non vedo? Qualcosa oltre alle ferite che gli hanno provocato la morte?»
«Non prenderò parte a questa profanazione» esclamò Peiró. «Come medico mi intendo di vivi, non di morti.»
Ayala annuì in silenzio e, nel portare di nuovo lo sguardo sul cadavere, notò che a tratti gli si appannava la vista. Lacrime di impotenza gli bruciavano negli occhi. L’unica certezza era che non aveva idea di quel che faceva: perché aveva accettato quella missione? Che arroganza doveva averlo colto per pensare che avrebbe potuto portare giustizia in quella strana terra, che aveva il diritto di interrompere il riposo dei martiri della cristianità?
Scosso dai sensi di colpa e dal pianto, si chinò su Lorenzo e lo baciò sulla fronte. «Perdonami» mormorò, e si allontanò con riverenza. Si alzò in piedi per chiedere a quegli uomini una pala, perché aveva deciso che lui stesso avrebbe dato sepoltura ai resti del suo fratello assassinato ma, nel coprire il volto del cadavere con il sudario, notò un bagliore spento tra i denti umidi di pioggia.
Sospirò lentamente e contrasse il volto sotto il peso della decisione. Allora, con grande orrore di tutti, si scoprì ad aprire la bocca del cadavere. Le mandibole opponevano resistenza, quindi introdusse le dita e cercò di raggiungere quel che c’era all’interno.
«Ora basta!» esclamò padre Farías, tra i mormorii dei giapponesi che assistevano alla scena.
Ma Ayala non si arrese: usò l’altra mano per spingere il mento verso il basso e separare ancora un poco le mandibole. Il principale della missione cercò di fermarlo afferrandolo per le spalle, ma lui lo scosse via e continuò a frugare nella bocca del cadavere, finché non riuscì ad agganciare qualcosa con le dita. A poco a poco estrasse il lungo rosario che, tutto aggrovigliato, riempiva la bocca e scendeva nella gola del defunto. Nel movimento, i grani ambrati colpivano sui denti, sottolineando la scoperta di Ayala con un macabro rintocco.
Contemplò il filo che gli pendeva dal pugno chiuso e ricordò le parole di padre Ramiro a Shima: «Gli hanno riempito la bocca con il suo stesso rosario, probabilmente per impedirgli di gridare». Solo che quello non era un rosario cristiano da cinquantanove grani: era composto da più di cento pietre di color ocra. Si trattava di un rosario buddhista, come sicuramente era quello che aveva asfissiato fratello Nuño. Questo significava che l’assassino l’aveva lasciato lì per lui: un messaggio per chiunque avesse tentato di fare chiarezza su quelle morti.
Quando si voltò per mostrare agli altri il suo ritrovamento, Fuwa Torayasu fu il primo a reagire. Si avvicinò ad Ayala e lo aiutò a rialzarsi, poi prese in mano il rosario e lo esaminò, facendo scorrere i grani con il pollice.
«Che cosa ne pensi, Saigo?»
Uno dei samurai fece un passo avanti e raccolse la reliquia che il suo signore gli porgeva. La esaminò con attenzione.
«Diaspro rosso infilato in crine di cavallo. Non c’è dubbio, viene dal monte Ikoma.»
Fuwa assentì con un grugnito; l’osservazione del suo ufficiale confermava la sua impressione iniziale, quindi si rivolse ad Ayala: «Il diaspro rosso è del tutto inusuale nella regione; si trova solo sul monte Ikoma, sede di uno dei templi Tendai».
«Credete quindi che questo rosario venga da lì?» chiese il gesuita.
«Non c’è dubbio che questa reliquia sia stata fabbricata lì, ma può appartenere a qualunque monaco guerriero della setta Tendai. Il che dimostra che l’assassino è uno di quei disgraziati, nemici di Oda Nobunaga e della cristianità. Il fatto che lascino uno dei loro rosari nella bocca di un padre non è che la loro ultima insolenza.»
Il daimio strinse il pugno guantato e le pietre scricchiolarono finché il filo non si spezzò. Ayala, con il viso sferzato dalla pioggia, osservò in silenzio come Fuwa apriva la mano per far cadere i grani nel fango.
«Unitevi al mio esercito, padre Ayala,» gli propose l’uomo «siate la nostra guida in battaglia. Quando schiacceremo quei vermi infedeli, metterò l’ultimo di loro ai vostri piedi perché confessi i suoi crimini, suoi e di tutta la sua diabolica setta.»
Martín Ayala sostenne lo sguardo risoluto di quell’uomo che si credeva un guerriero di Dio. Era vero tutto ciò? Erano i bonzi, proprio come aveva affermato padre Melchior giorni prima, i responsabili di crimini tanto cruenti? O era solo una manovra per salvaguardare le brame e le ambizioni dei signori della guerra, e lui e le vittime venivano utilizzati a tale scopo? Il suo stesso ritrovamento lo portava a ragionare in quella direzione: il rosario attraversava la gola di Lorenzo come un’accusa non pronunciata. Cos’altro poteva significare?
Eppure, nonostante tutto…
«No, non prenderò parte alla vostra guerra, signor Fuwa. Non vedo in che modo un esercito potrebbe aiutarmi a chiarire avvenimenti così terribili. Se uno di quei monaci è il responsabile per tutto questo, non lo scoprirò certo sul campo di battaglia, né sarà quello il luogo dove potrò verificare le sue ragioni.»
«Che cosa farete, allora?» domandò Fuwa con superbia. «Continuerete a vagare per le strade accompagnato da un contadino con tanto di daishō?»
«Raggiungerò il monte Ikoma, il luogo da dove proviene l’unico indizio che abbiamo trovato fino a questo momento.»
I samurai si scambiarono sguardi inquieti mentre i gesuiti cercavano di capire di che cosa stavano parlando, e perché Martín Ayala continuava a mostrare quel tono brusco e impertinente nei confronti di sua signoria.
«Padre Ayala,» intervenne allora Saigo, guardia personale di Fuwa Torayasu «i bonzi del monte Ikoma, per quanto professino gli insegnamenti della scuola Tendai, non sono come quelli che affronteremo a Hiei. Sono yamabushi dei boschi, seguaci del buddhismo esoterico e praticanti di arti oscure. Sono uomini sinistri e pericolosi, padre, non potete andare lì.»
Ayala sospirò, la pioviggine gli inzuppava i capelli e impregnava le sue guance di lacrime gelate.
«Andrò dove Dio mi porterà» disse infine. «Devo credere che sia Lui a guidare i miei passi; al contrario, mi lascerei cadere qui e ora, sconfitto.»