Il gesuita e il suo yōjinbō trascinavano con loro un silenzio che li aveva accompagnati fin dall’incidente con i samurai di Tokugawa. Kenjirō, distante, manteneva gli occhi fissi sulla strada e si sforzava di mostrarsi indifferente a quanto accaduto. Credeva che lo straniero lo biasimasse, del resto era un uomo incapace di capire quando era stretto il giri che lo legava a lui.
Ayala tuttavia non giudicava affatto il giovane samurai: gli era chiaro che Kudō Kenjirō lo avrebbe protetto perfino se lui avesse preteso il contrario, e credeva di intuire il dispiacere che gli suscitava il dover essere costretto a uccidere per mantenere la sua parola. In un recondito luogo della sua mente, gli era anche grato per averlo liberato dal crudele castigo che quei samurai si disponevano a infliggergli… E quel sentimento egoista, inopportuno per un cristiano, lo tormentava quasi quanto la persistente immagine dei cadaveri amputati.
Immersi in tali pensieri, raggiunsero i pressi del monte Ikoma poco dopo che fu calata la notte. Il sentiero che portava al santuario di Ikoma-Jinja, asfaltato con rocce appiattite dal cesello dello scalpellino e dai passi dei fedeli, si allontanava dalla strada principale e saliva sul crinale della montagna fra cedri e pini. Lanterne di pietra lo illuminavano ogni venti passi, e il loro riverbero filtrava attraverso i rami ondulati, segnalando sul dorso del monte il cammino che i pellegrini avrebbero dovuto percorrere.
Ma loro non erano pellegrini: la loro destinazione era sul crinale opposto, dal quale avrebbero potuto raggiungere i boschi e le vette abitate dagli yamabushi della setta Tendai. Prima di lasciarsi alle spalle la deviazione verso il santuario, Kenjirō si avvicinò al torrente che scendeva dalla montagna. Erano le acque nelle quali i fedeli si purificavano, e il goshi vi entrò fino alla vita per sfregare via con l’argilla il sangue che gli copriva i vestiti.
Ayala capì che quella sera non avrebbero proseguito oltre, quindi legò il cavallo con una lunga corda e si dispose ad accendere un falò. Il fuoco già crepitava protetto dagli alberi quando Kenjirō tornò bagnato fradicio e con i vestiti sulla spalla. Li stese su una roccia perché si asciugassero con il calore delle fiamme, quando il gesuita gli offrì una ciotola di stufato di verdure.
«Mangia, ti ristorerà.»
Kenjirō accettò, si buttò una coperta sulle spalle nude e sedette con le gambe incrociate. Cominciò a mangiare con gusto, recuperando con le bacchette i pezzi di rafano che galleggiavano nello stufato e bevendo il brodo caldo.
Il suo appetito lasciò Ayala molto soddisfatto.
«Il corpo dimentica in fretta,» disse «la mente impiega più tempo, ma finisce per fare altrettanto.»
«Domani sarà un giorno nuovo,» rispose il guerriero senza smettere di mangiare «un giorno in cui non avrò ucciso nessuno. Non serve a nulla pentirsi di quel che ormai è fatto.»
Si svegliarono all’alba, sparsero le braci e si rimisero in marcia prima che i fedeli più mattinieri prendessero il sentiero per risalire il crinale. Proseguirono lungo la strada che girava intorno alla montagna passando dal lato ovest, il più agreste e meno frequentato.
Pranzarono a metà mattina su una grande roccia ai margini del sentiero, con l’unica compagnia di un Jizō che li contemplava con espressione sorridente. La statua era così inclinata che sembrava sul punto di cadere, probabilmente sbalzata da qualche terremoto. Una volta concluso il pranzo, Kenjirō raddrizzò la statua e calpestò la terra intorno per indurirla. Salutò il santo con un inchino e ripresero il cammino.
Le ombre non si allungavano ancora troppo quando raggiunsero le pendici occidentali della montagna. Di fronte a loro, un grande bosco grigio, denso e omogeneo, si arrampicava su per il crinale fino a perdersi nelle cime coperte di bruma. Abbassarono gli occhi e si accorsero che, più avanti, il fogliame inghiottiva il sentiero e negava il passaggio alla luce del pomeriggio; una strana inquietudine li colse man mano che avanzavano, ma nessuno dei due parve esitare. Non appena penetrarono nella foresta furono avvolti dalla penombra e dal silenzio; potevano solo andare avanti, in attesa che un bivio o un ostacolo qualunque li obbligasse a prendere una decisione.
Tuttavia, la loro marcia fu interrotta ben presto da una casa accanto al sentiero: sembrava un semplice rifugio per taglialegna alla vista di chiunque passasse di lì. Non era abbandonato, poiché c’era parecchia legna accatastata vicino alla porta e la paglia che ricopriva il tetto era ancora al suo posto. Una lanterna pendeva dalla porta d’ingresso.
«Aspetta,» disse Ayala, che tirò il cavallo per farlo uscire dal sentiero e avvicinarsi alla capanna «è possibile che ci sia qualcuno dentro.»
«Non possiamo fidarci di nessuno che abiti questa montagna» lo avvertì Kenjirō.
Il gesuita non si fermò: «Non so che cosa troveremo lassù, ma ti assicuro che questi monaci che tanto temete non compiono miracoli né parlano con gli spiriti. Loro stessi non fanno che alimentare queste dicerie, senza dubbio per tenere lontani gli esattori e il popolino». Colpì la porta con il pugno. «E poi se, come sembra, qui vive un taglialegna, non potrei pensare a una guida migliore su questa montagna.»
Aspettarono in silenzio, entrambi con la muta convinzione che non avrebbero trovato nessuno; quindi, quando sentirono scorrere la traversa in legno, non poterono evitare di scambiarsi uno sguardo inquieto.
Un uomo minuto ma dalle braccia forti apparve sulla soglia. Indossava una casacca sopra il kimono consumato e la sua espressione fu di perplessità quando vide lo straniero barbuto che si presentava alla sua porta. Ayala capì che, probabilmente, lui era il primo nanban che vedesse con i suoi stessi occhi. Esitò poiché non sapeva come presentarsi, ma Kenjirō prese la parola alle sue spalle: «Che modo è questo di ricevere due viaggiatori, taglialegna? Apri la porta e invita Ayala-sensei a entrare».
L’uomo si accorse della presenza del samurai e si affrettò a farsi da parte per lasciarli passare. Si scusò con ripetuti inchini mentre i due stranieri entravano in casa sua. Ayala diede un’occhiata a quella stanzetta illuminata solo con le fiamme del focolare; c’erano asce e seghe appese alle pareti, un pagliericcio in un angolo e una pentola con acqua calda sul fuoco.
«L’ultima cosa che vorremmo è disturbare,» cominciò Ayala «mi pare di capire che tu abbia appena finito la giornata di lavoro e stia per preparare la cena.»
Il taglialegna guardava alternativamente il samurai e lo straniero che parlava la sua lingua con una strana inflessione; riuscì però a ricomporsi da quello sconcerto e a rispondere con calma: «No… non disturbate. Sedetevi accanto al fuoco, per favore». Indicò uno dei sacchi di paglia che dovevano fare le veci dei cuscini.
«Ti siamo grati per la tua ospitalità» rispose Ayala, e si accomodò al caldo del focolare. Kenjirō, da parte sua, rimase accanto alla porta con le braccia incrociate.
«Posso preparare un po’ di stufato per i signori,» propose il taglialegna, in ginocchio in posizione seiza davanti alla pentola «non ha molta sostanza ma è saporito.»
«Te ne siamo grati, ma non siamo venuti a sottrarre la cena alla brava gente di Kansai» rifiutò il gesuita con un sorriso. «Il mio nome è Martín Ayala, sono un padre cristiano inviato da Nagasaki; lui è il mio accompagnatore e protettore, il signor Kudō Kenjirō.»
Il taglialegna si profuse di nuovo in riverenze molto servili, sforzandosi di non guardare il giovane samurai che era rimasto in piedi. Sulle prime, Ayala credette che il poveruomo fosse angosciato per quella visita, ma poi percepì che il suo atteggiamento denotava più timore che turbamento. Ricordò allora la nefasta legge del kiri sute gomen, che tanto aveva scandalizzato i missionari gesuiti, pur senza riuscire ad abolirla nemmeno nei feudi dei daimio convertiti al cristianesimo.
«Non hai nulla da temere da noi,» lo tranquillizzò «non vogliamo certo importunarti nella tua stessa casa.»
«Non è casa mia, signore» rispose il taglialegna, con le mani sulle ginocchia e senza mai alzare la testa. «Mi rifugio qui soltanto quando salgo sulla montagna.»
«Sono molti anni che vieni qui?» chiese Kenjirō.
«Da tutta la vita; mio padre mi ci ha portato per la prima volta a sei anni per aiutarlo a trasportare la legna.»
«Allora forse potrai aiutarci» intervenne Ayala. «Cerchiamo i monaci che abitano nei boschi.»
L’uomo abbandonò ogni precauzione e guardò dritto negli occhi quello straniero pazzo.
«No… non potete fare una cosa del genere. Nessuno sale a far visita ai monaci santi del monte Ikoma, è un peccato contro la montagna stessa.»
«Eppure tu vieni qui a tagliare la legna, e non sembra che questi uomini santi si risentano per questo.»
«La mia famiglia è sempre salita sulla montagna, abbiamo il permesso dei kodama che la abitano, ma ci guardiamo bene dall’oltrepassare la roccia spezzata.»
«La roccia spezzata?»
«Una grande pietra accanto al sentiero, proprio dopo che il percorso incrocia un ruscello ormai secco. Dicono che, ai tempi del nonno di mio nonno, un carpentiere di nome Masataka venne a fare incetta del legno bianco degli alberi di ginkgo che crescono in cima alla montagna ma, quando attraversò il torrente, un fulmine spezzò la roccia per avvertirlo di non andare oltre. Il cielo era limpido, senza nuvole, e da quel giorno il ruscello è secco.»
Ayala sospirò, infastidito dal fatto che ogni albero e ogni pietra di quel paese racchiudessero una leggenda, un’avvertenza o addirittura una divinità. Si guardò indietro, cercando Kenjirō, che senza abbandonare il suo posto di guardia alla porta chiese: «Hai visto quella roccia?».
«Certo, chiunque proseguisse lungo il sentiero la incrocerebbe. Ma faccio in modo di non avvicinarmi.»
«Devo dedurne, quindi, che non ci guiderai in cerca di quei monaci» azzardò Ayala.
L’uomo parve terrorizzato all’idea. Posò le mani a terra e chinò la testa in gesto di scuse.
«Mi dispiace, signore, ma la mia famiglia vive di questa montagna. Sarebbe un affronto che non mi perdonerebbero mai.»
«Certamente. Grazie per le tue indicazioni, in ogni caso.»
Il gesuita si alzò in piedi e il taglialegna alzò la testa per vederli andar via. Tuttavia, prima che abbandonassero il suo rifugio, quell’uomo timorato aggiunse: «Spero che cambierete idea ma, se così non fosse, permettetemi almeno di riempire le vostre borracce. Non troverete acqua potabile su per la montagna».
Ayala si fermò e scambiò un breve sguardo d’assenso con Kenjirō.
«Ci verrebbe bene un po’ d’acqua, sì» rispose infine. «E se ci permettessi di legare il cavallo dietro la capanna, e potessi abbeverarlo, sarebbe di grande aiuto.»
«L’acqua non è un problema» sorrise l’uomo, grato di poter aiutare in qualche modo quei due visitatori così particolari.
Prese i due tubi di bambù e si diresse verso un piccolo barile foderato con pelle di tamburo, che teneva in un angolo della stanza. Lo stappò e immerse le borracce.
Dopo averle asciugate con un panno, le restituì al goshi con un profondo inchino.
«Pregherò perché i kodama vi proteggano lassù.»
Si congedò abbassandosi in un inchino che mantenne finché i due stranieri non si furono allontanati.
Dovettero addentrarsi nella montagna più del previsto prima di trovare il ruscello secco che, come una grossa cicatrice, sfigurava il volto del bosco. Sulla riva opposta il sentiero riprendeva e, proprio lì accanto, si innalzava la grande pietra ferita che segnava il punto di non ritorno.
Attraversarono il letto consumato del torrente e si fermarono accanto alla roccia spezzata: era alta quanto un uomo adulto e vi avevano legato una spessa corda shimenawa che ne proclamava il carattere sacro. La superficie era bruciata e tutto intorno c’erano ciottoli sparsi e scuri, sminuzzati a causa dell’impatto del fulmine. Kenjirō contemplò accigliato quella che sembrava essere una chiara avvertenza divina. Proprio come suo padre, non era un uomo particolarmente superstizioso, ma la visione di quella pietra gli parve sconvolgente.
«Sembra che il taglialegna non ci abbia mentito» osservò.
Ayala non rispose, ma si acquattò e prese uno dei ciottoli, soppesandolo fra le dita. Subito dopo, si rialzò e passò la mano sulla superficie della roccia. A Kenjirō quel gesto non piacque, poiché i kodama avrebbero potuto prenderlo come un affronto, ma sapeva che ogni avvertenza in quel senso sarebbe servita soltanto a inasprire la miscredenza di Ayala.
Il gesuita si voltò verso di lui e gli mostrò il palmo della mano, completamente nero.
«Carbone» disse con un sorriso mordace. «Hanno annerito la roccia con del carbone. Non mi stupirebbe che, dopo ogni pioviggine, uno dei santi scendesse fin qui per assicurarsi che i segni del presunto fulmine siano ancora ben visibili.»
«Le vecchie storie solitamente racchiudono vecchie verità,» rispose Kenjirō «non conviene prenderle così alla leggera.»
«È un artificio, come tutto ciò che questa montagna nasconde. Menzogne e artifici» concluse Ayala, riprendendo il cammino.
Proseguirono su per la montagna e, man mano che salivano, si addentrarono in una spessa bruma che copriva il percorso. Il vapore scendeva fra gli alberi annegando il bosco, dandogli una sfumatura iridescente nella luce del tramonto. Erano gli stessi banchi di nebbia che avevano intravisto quella mattina dalle pendici del monte, così lontani da sembrare irraggiungibili. Capirono allora quanto erano in alto e si resero conto che non avrebbero potuto ridiscendere quella sera stessa: non avevano alternative se non andare avanti, e lo fecero nonostante il caldo umido che gli consumava ogni forza e li obbligava a vuotare le borracce.
Dopo poco, Ayala cominciò a sentirsi ottenebrato da un sopore che gli ispessiva le idee e rendeva goffi i suoi movimenti. Con la pelle impregnata di un sudore febbrile, fu invaso dalla sensazione di camminare per un labirinto smisurato, dalla consistenza quasi onirica. Il sentiero davanti a lui si faceva più angusto e a tratti sfumato.
«Sembra che in questi boschi non abiti nemmeno un’anima» disse con tono cupo. «Forse gli uomini santi hanno abbandonato il monte Ikoma tempo fa e fino a oggi nessuno è mai salito fin qui per scoprirlo.» Contemplò il bosco che li circondava nella scarsa luce che filtrava dal fogliame. «Credo che siamo soli, Kenjirō.»
«Non siamo soli. Ci seguono da tempo.»
Il religioso gli rivolse uno sguardo diffidente prima di scrutare le fronde, cercando di vedere oltre quella bruma spettrale. Non riuscì a distinguere il minimo movimento.
«Sei certo di quel che dici?»
«Assolutamente sì. Se non si sono manifestati, è perché non hanno ancora deciso che cosa fare con noi. Proseguiamo e non diamogli motivi per precipitare le loro decisioni.»
«Io non ho visto nulla di strano» insisté il gesuita, un po’ inquieto. «In tutta la giornata ho a malapena sentito un uccello sbattere le ali.»
«Forse per vedere un fantasma è necessario credere in loro» rispose Kenjirō.
Allora, come se quelle parole l’avessero invocata, intravidero una figura in mezzo al sentiero, in piedi nella nebbia. Indossava un’ampia tunica di colore grigio, calzava sandali rialzati di legno e aveva la testa rasata. Un lungo fazzoletto gli cadeva sulle spalle e ne nascondeva i tratti, ma Ayala ebbe la certezza che erano gli occhi di un bambino a contemplarli.
Il gesuita trattenne il fiato, temendo che quell’apparizione sarebbe svanita se avesse agito bruscamente; ma prima che potesse decidere cosa fare o dire, quello gli diede le spalle e si fuse con la bruma.
«Aspetta!» lo chiamò facendo un passo avanti, quando la mano di Kenjirō lo fermò. «L’hai visto?»
«Sì, lui ha voluto farsi vedere.»
«È svanito come uno spettro, sembrava irreale.» Ayala guardò il boschetto che si chiudeva sopra di loro, il sentiero che serpeggiava sinuoso fra i tronchi sotto le felci. «È come se fossimo in un altro mondo.»
Kenjirō chiuse gli occhi e alzò la testa, come un lupo che annusa il vento.
«Ci hanno avvelenato» disse alla fine. «Vogliono disorientarci, impedirci di pensare con chiarezza.»
«L’acqua» capì quindi Ayala, perplesso per la propria stupidità. «Menzogne e artifici.»
«Andiamo avanti. Qualunque cosa succeda non dobbiamo abbandonare il sentiero; se ci separiamo, non usciremo vivi da questa montagna.»
Il bateren annuì in silenzio mentre riprendeva a camminare accanto a lui. In lontananza, un corvo gracchiò due volte; Ayala attese il terzo gracchio, ma non arrivò. “Un segno di malaugurio fra le genti di questa terra” si disse. Cercò di ridere di se stesso, del fatto che prendesse quelle superstizioni come sue, ma delle voci fra gli alberi congelarono sul suo volto ogni accenno di sorriso… Erano davvero voci quelle che sentiva? Se lo erano, non parlavano giapponese, né qualsiasi altra lingua da lui conosciuta. Sembravano quasi piccoli schiocchi. Forse non erano parole, ma il cozzare dei rami per via del vento o il mormorio della ghiaia che rotolava giù per la montagna. Si chiese quanto di quel che vedeva o sentiva fosse davvero lì, e decise di allontanare lo sguardo dalle tenebre che popolavano il bosco, poiché queste sembravano volerlo trascinare verso acque profonde, verso abissi di follia.
Nel riportare gli occhi sul sentiero, scoprì che questo si inerpicava di colpo e, in cima alla salita, vide di nuovo quella figura misteriosa. Li aspettava contemplandoli da sopra, e Ayala riuscì a distinguere i suoi tratti prima che svanisse di nuovo. Era convinto che si trattasse di un ragazzo di non più di quindici anni, forse meno.
«Ci porta dove vuole lui, forse vuole farci smarrire nei meandri più reconditi della montagna,» osservò diffidente «o farci cadere in un dirupo.»
«Lo scopriremo presto» fu la risposta di Kenjirō, che avanzava con il pugno stretto sul fodero della katana.
Il pendio si fece sempre più impervio, ma sotto i loro piedi emersero dei gradini che sembravano spingerli verso la cima. Gli alberi crepitavano agitati dal vento e Ayala credette di percepire in agguato le presenze di cui parlava Kenjirō.
«Le vedi anche tu, le ombre che si agitano intorno a noi, oltre gli alberi?»
Il samurai saliva a buon ritmo, come se qualcosa lo obbligasse a lasciarsi alle spalle quanto prima quella scala sepolta nella foresta.
«In questo momento non mi fido di quel che vedono i miei occhi né di quel che sentono le mie orecchie.»
«Se volessero ucciderci, l’avrebbero già fatto» ragionò Ayala. «Non sono i fantasmi che mi attendono più avanti a spaventarmi, ma quelli che faticano dietro i miei passi.»
Guardò verso il basso e li vide: Luís Mendes, Pomba, Gonzalo Sánchez, Barreto… Tutti i suoi fratelli morti erano lì, sia coloro che aveva conosciuto in vita sia quelli che per lui non avevano un volto. Tutti pretendevano giustizia, tutti gli ricordavano che, se ci fossero state altre morti, sarebbero ricadute sulla sua coscienza.
Si asciugò le lacrime e cercò di tenere l’animo ben saldo su quel che doveva fare lì. Finché non mise un piede in fallo e dovette appoggiarsi sui gradini davanti a lui. Aghi di pino e piccole pietruzze gli si conficcarono nei palmi delle mani; il suo respiro, affannoso, mandava vapori che si confondevano con la rugiada della notte. Scosse la testa, esausto, ma una mano sotto il braccio lo aiutò ad alzarsi.
«Siamo vicini alla fine. Andiamo» gli fece coraggio Kenjirō, tirandolo su finché non riuscì a rimettersi in piedi.
Lo guardò negli occhi e annuì, grato. Quel giovane che aveva considerato un disturbo era diventato non solo il suo compagno e protettore, ma anche il bastone a cui appoggiarsi. Ora sapeva che, se fosse mai riuscito a portare a termine il viaggio, sarebbe stato grazie a lui. Annuì di nuovo e fece lo sforzo di continuare a salire.
Kenjirō non gli mentiva: la fine della lunga scalata era visibile, e sembrava concludersi in uno spazio aperto, privo di alberi e cespugli. Si obbligò a concentrarsi solo sul prossimo passo, finché non raggiunse l’ultimo scalino con le gambe doloranti e il fiato corto. Alzò la testa e si trovò davanti una grotta ricavata nella parete della montagna; un manto giallo copriva il pavimento, come se la bocca di pietra esalasse un vapore d’autunno e fogliame.
E lì, incorniciato nella penombra di quella cavità, si trovava il loro misterioso fantasma. Ayala volle parlarci, ma subito lui si voltò per inoltrarsi nelle profondità della grotta. Il gesuita lo seguì senza precauzioni, avventurandosi alla cieca nell’oscurità, avanzando a tentoni fino a sbucare sotto una grande cupola naturale tutta crepata nella parte superiore: una radura intagliata nel cuore della roccia dal tempo e dalla pioggia, aperta su un firmamento limpido e gravido di stelle.
Dentro quel giardino al riparo della montagna, si innalzava un vecchio albero di canfora che sprofondava le proprie radici nella roccia viva, alimentato dalle correnti sotterranee e dalla luce che filtrava attraverso la crepa. E ai piedi dell’albero, su un suolo coperto di muschio, sedeva il ragazzo che li aveva guidati fin lì.
Era fermo nella posizione del loto, con i polsi appoggiati sulle ginocchia piegate, ma non meditava, teneva gli occhi aperti, attento ai due sconosciuti. Ayala credette di notare una certa arroganza in quel bambino monaco, simile a un saggio che riceve lo sciocco venuto da lontano in cerca di illuminazione. O forse, semplicemente, era lui che si sentiva così, e il suo ospite si limitava ad attendere e contemplare.
Come se riuscisse a percepire le tribolazioni che gli ribollivano in petto, il bambino si rivolse ad Ayala: «Sei tu colui che è venuto in questo luogo santo, straniero; lui è semplicemente la spada che ti accompagna» disse riferendosi a Kenjirō. «Parla, dunque.»
Il gesuita esitò, poiché non era sicuro di come trattare quel ragazzo con aria da oracolo: «Sono faccende molto gravi quelle che mi portano fin qui, vorrei parlarne con qualcuno dei tuoi superiori» rispose per mettere alla prova la sua temperanza.
«Non ci sono superiori fra noi, tutti siamo uno e tutt’uno con il vuoto. Parlare con me è parlare con ognuno di noi.»
Ayala fece una smorfia, sapeva bene quanto poteva essere tortuoso discorrere con i bonzi, ricordava le loro ambiguità e assurdità.
«Sono venuto da molto lontano in cerca di risposte concrete: quanto prima me ne darete, prima me ne andrò dalla vostra montagna.»
«Avevo già sentito dire che per gli stranieri la verità è una e semplice. Un uccello è un uccello, un seme è un seme.» Il ragazzo sorrise con aria di sufficienza, ma erano centinaia di bocche a sorridere in lui. «Povero cieco colui che non vede al di là di quanto ha davanti agli occhi, poiché un seme è anche ciò che fu e tutto ciò che sarà, è l’albero da cui è venuto e l’albero in cui germoglierà, è gli animali che si nutriranno di quell’albero e il fulmine che attirerà con i suoi rami. Un seme racchiude il ciclo eterno dei cinque elementi; quindi è infinito, e nasconde mille volte mille verità al suo interno.»
«Non sono venuto a confutare i vostri sotterfugi, non sono qui per predicare né teologare. Sono questioni più terrene quelle che mi occupano in questo momento, estranee alla verità di Dio.»
«Devi sapere che nelle tue parole c’è la radice stessa della tua sventura» disse lo yamabushi. «Su queste isole abitano otto milioni di dèi e noi siamo la loro prole. I kami hanno creato questo mondo e Buddha ha dettato le leggi secondo le quali vivere e morire in lui. Non abbiamo bisogno di un dio straniero che nega la fede dei nostri padri, che non si accontenta della venerazione di alcuni di loro, ma che si dice unico e vero. È un dio invasore, un miasma che pretende di contaminare questa terra sacra, ma che prima o poi verrà eliminato.»
«E per questo ci uccidete.»
«Uccidervi?» Il bambino monaco fece segno di no con la testa. «E perché mai dovremmo fare una cosa simile? Se gli dèi del cielo non vi volessero qui, le vostre barche sarebbero state affondate dal Vento Divino.1 Siete qui perché siete il nostro karma, chi siamo noi per rifiutarvi?»
Ayala aguzzò la vista, restio a credere nell’innocenza degli uomini santi di Ikoma… Per quanto sapesse bene di trovarsi alla mercé degli yamabushi dal momento in cui aveva messo piede sulla montagna. Che ragione avevano di mentirgli, quindi? Gli sarebbe bastato buttarli in un crepaccio e nessuno avrebbe mai più sentito parlare di loro.
«E allora chi sta uccidendo i miei fratelli?» chiese, mostrandogli una manciata di grani rossicci. «Perché uno dei vostri rosari è stato ritrovato sulla tomba di un uomo innocente?»
Il ragazzo lo contemplò per un istante; c’erano nella sua espressione una pazienza e una compassione di solito sconosciute a qualcuno di così giovane: «Guardaci, straniero. Ci siamo ritirati su questa montagna per allontanarci dal mondo e dalla sua malattia; tutte le nostre arti hanno come obiettivo nasconderci da coloro che vogliono raggiungere i nostri segreti. E per quanto sappiamo che la terra che abitiamo verrà distrutta dall’ambizione degli uomini, noi abbiamo scelto di perire con lei. Voi stranieri non avete nulla a che fare con tutto questo. Perché dovremmo preoccuparci di voi, di quel che succede oltre la montagna? Cerca meglio fra coloro che si trascinano per terra, fra coloro che vivono e muoiono per le loro brame, e non fra chi ha voltato le spalle a un mondo di verità illusorie».
Ayala aveva scalato la montagna con una manciata di certezze, eppure nel ridiscenderla non gli restavano che dubbi. Il freddo della notte gli sciacquò la pelle e gli schiarì la mente, ormai libera dall’allucinogeno che gli avevano fatto bere per disorientarli, così le domande cominciarono a colpire la sua coscienza come pietre: davvero l’assassino aveva lasciato quel rosario per confondere le sue tracce, per incolpare gli yamabushi? Avevano cercato di condurlo a un crocevia dal quale non avrebbe saputo come uscire? O il messaggio contenuto nel diaspro non era una trappola, bensì un proclama? Forse non firmato dai monaci asceti del monte Ikoma, ma magari dai loro fratelli guerrieri della setta Tendai, coloro che «si trascinano per terra», coloro le cui ambizioni mondane non sono così sconosciute.
Non sapeva cosa credere. È possibile che Fuwa-sama avesse ragione nel dire che solo da un nemico sottomesso ci si può aspettare la verità.
«Se non ci attardiamo, faremo in tempo a raggiungere la capanna prima che sorga il sole» disse Kenjirō, interrompendo le sue elucubrazioni. «Speriamo che il cavallo sia ancora lì, e con lui le nostre cose.»
Ayala annuì, ancora assente.
«Che cosa avete intenzione di fare ora?» chiese il goshi. «Forse è il momento di tornare dai vostri fratelli.»
Il gesuita alzò lo sguardo; c’era una tale decisione nei suoi occhi che il samurai cominciava ad aver paura: «No» mormorò. «Non ho alcun posto a cui fare ritorno. Andremo avanti, andremo dove i nostri padri non hanno mai voluto che andassimo. Andremo in guerra.»