Osaka, antica capitale di Naniwa, era cresciuta fino a diventare un’enorme bestia distesa accanto alla grande baia. I suoi tetti di ceramica rifulgevano come squame stese al sole del mattino, e il suo respiro si innalzava nero e insalubre dai forni accatastati sulle rive del fiume Yodogawa, dove si temperava l’acciaio che alimentava la macchina bellica del clan Oda.
Igarashi sorrise nel contemplare in lontananza le fauci della bestia che minacciava di divorarlo: «Siamo arrivati» annunciò.
«Grazie al cielo sei qui per constatare l’evidenza» disse l’uomo accanto a lui. «Se non fosse stato per te, sarei andato dritto prendendola per l’ennesima stazione di posta.»
Igarashi si limitò a raccogliere i suoi fagotti per riprendere il cammino. Prima di partire, si rivolse al suo compagno di viaggio: «Ricorda quel che ho detto: tre passi davanti a me».
Masamune sorrise con malizia e cominciò a discendere lungo il pendio.
«Sai che se io vado tre passi avanti, tu vai tre passi indietro?»
Igarashi gli diede una spinta con la punta del bastone. Quello era il massimo della conversazone che ci si poteva aspettare da lui.
«Se mi segui tre passi indietro, penseranno che ci comportiamo come marito e moglie. A me non importa,» disse Masamune, stringendosi nelle spalle «ma tu occupi il posto della donna. Anche se non credo che ti possano confondere con una giovane sposa.» Guardò indietro verso Igarashi. «Nemmeno con una vecchia e brutta. Però potrebbero pensare che andiamo a letto insieme, che ci teniamo caldo ora che le notti cominciano a rinfrescare.»
La punta del bastone gli si conficcò di nuovo tra le spalle, questa volta con così tanta forza che il dolore gli fece torcere la schiena.
«Sei un vecchio figlio di cagna» imprecò senza smettere di camminare.
«Ora sei tu che constati l’evidenza» commentò Igarashi con cinica indifferenza.
«Potresti almeno dirmi il tuo vero nome. Non porta buona fortuna viaggiare con gli sconosciuti.»
Igarashi corrugò la fronte, stupito.
«Il mio vero nome? Che cosa ti hanno raccontato sul mio conto?»
Masamune guardò indietro, cercando di scrutare il volto accigliato del suo interlocutore.
«Solo lo stretto necessario per questa missione» rispose, e riportò lo sguardo davanti a sé: «Che sei un disertore che si fa chiamare Igarashi Bokuden. Che segui un corvo cristiano per ordine del tuo padrone, e che ora devi ucciderlo per mandato di Iga… E che obbedirai,» aggiunse «perché hai commesso l’errore di avere una famiglia che dipende da te.»
«Sembra che tu sappia già più che abbastanza.»
Masamune lo guardò di nuovo. La sua voce prese un’inflessione grave: «Se è vero che quest’uomo è protetto dalla corte di Gifu, è possibile che ucciderlo ci crei più di un problema. Dovremmo conoscerci bene prima che arrivi quel momento.»
«D’accordo, ti racconterò qualcosa di me, qualcosa che sanno solo quelli che mi conoscono da tempo» disse Igarashi con lo sguardo perso, quasi nostalgico: «Sono un figlio di cagna al quale non conviene dare le spalle».
E gli conficcò di nuovo la punta del bastone al centro della schiena.
Agli occhi di Igarashi, Osaka era un luogo perturbante. Mancava della maestosità di Kyoto o della santità di Ise, ma non per questo era priva di fervore, poiché i suoi abitanti professavano una nuova fede: quella del denaro, un dio che sembrava ringraziare le offerte che gli si facevano con doni e prosperità. Non c’era da stupirsi, quindi, che molti vedessero nei nanban gli inviati di questa nuova divinità, poiché sebbene gli stranieri si rifugiassero sotto la croce e parlassero di quel tale Deus che solo loro potevano vedere, ben presto fu chiaro che la loro devozione per l’oro era grande, se non maggiore di quella che sentivano per il loro dio crocifisso.
Tutto questo si faceva più evidente quanto più ci si addentrava per quelle strade gremite, perché non c’era città che contasse un maggior numero di vie pavimentate, di torri per vigilare gli incendi o di lampioni accesi sulle facciate. Non erano pochi gli edifici che raggiungevano i tre piani, c’erano botteghe in ogni dove, nessuno sembrava indossare vestiti consunti e perfino i più umili avevano dei calzari. I bambini portavano allegri yukata e tutte le ragazze si proteggevano dal sole sotto ombrellini decorati.
«Dove siamo diretti?» chiese Masamune con voce distratta.
«Alla piazza degli schiavi, sul molo di Tenman. Sempre che sia ancora lì dove io la ricordo. È molto che non vengo in questa città e, a quanto posso vedere, è piuttosto cambiata.»
«La donna che cerchi è una schiava?»
«È arrivata a Osaka otto anni fa per mano di un commerciante straniero che l’ha comprata in un bordello di Uji-Yamada.»
«E cosa ti fa pensare che sia ancora qui? Magari il nanban si è stancato di lei e l’ha venduta. O l’ha abbandonata per strada.»
«Per questo chiederemo alle aste di schiavi. Lì c’è molta gente che tratta con gli stranieri e conosce i servitori delle loro case.»
«Comunque, questa è la storia di centinaia di ragazze» osservò Masamune. «Sarà difficile trovarla.»
Igarashi scrutò l’uomo con cui era obbligato a intendersi. Decise che avrebbe condiviso con lui solo l’inevitabile, lo stretto necessario perché credesse che tra loro stava nascendo una certa fraternità: «Si chiama Junko e, a quanto ho potuto capire a Uji-Yamada, è cristiana. Non devono esserci molte donne così a Osaka, né tra i barbari del Sud né nei prostiboli».
Masamune rise con malizia: «C’è una terza possibilità, che il suo padrone l’abbia castigata al punto che ora non può far altro che prostituirsi sulle rive dello Yodogawa… Ti sei mai scopato una puttana di fiume?». E rivolse al suo interlocutore uno sguardo perverso. «Perdono i capelli e i denti, hanno la faccia tutta consumata e la bocca piena di herpes. È molto probabile che questa donna ormai non sappia nemmeno più come si chiama.»
Igarashi cominciava a stancarsi di tanto cinismo, anche se sapeva che Masamune aveva ragione: confidava troppo nella fortuna.
Immersi nella conversazione, arrivarono ai moli, che abbracciavano la baia con lunghi argini di pietra e legno. Il porto di Osaka si sviluppava per più di trenta ri lungo la costa, e alle sue spalle si accalcava uno sciame di case, taverne, bordelli e magazzini. Era il quartiere portuale più grande di tutto il Giappone, il più ricco e prospero, ma anche il più meschino e pericoloso, quello che nascondeva innumerevoli segreti e dal quale bisognava far sparire molti cadaveri ogni notte.
Mentre camminavano lungo i moli, osservavano attentamente tutto ciò che avevano intorno: la vecchia che rammendava le reti da pesca, il calafato che carteggiava la chiglia di una barca, gli ubriachi che sonnecchiavano tra i barili, sudando il sakè che si erano bevuti durante la notte… Era il paesaggio abituale di ogni città affacciata sul mare, ma più intenso, se possibile più saturo e affascinante.
Alla fine raggiunsero la piazza degli schiavi: non solo si trovava ancora nello stesso posto, ma a Igarashi parve molto più grande e frequentata di quanto ricordava. Dietro il padiglione della dogana era stato costruito un grande palco sul quale gli schiavisti facevano salire gli uomini e le donne che mettevano all’asta. Una folla occupava l’intera piazza, i cui edifici erano stati adattati – se non direttamente abbattuti – per accogliere ancora più gente. Banchetti di ambulanti che vendevano polpo e calamari essiccati circondavano la folla, e tutti i presenti, che fossero compratori o curiosi, guardavano verso il palco in attesa della nuova mercanzia.
«Qual è il tuo piano?» chiese Masamune. «Cominciare a chiedere a uno a uno? O salirai sul palco e parlerai gridando a tutta la marmaglia?»
Igarashi lo guardò di sbieco e, senza rispondergli, si addentrò fra la gente. Sapeva che la maggior parte dei presenti erano solo curiosi; quelli che erano disposti a pagare per possedere una persona stavano più avanti, in un luogo privilegiato dal quale potevano valutare meglio la merce per la quale avrebbero fatto delle offerte.
Mentre si faceva strada nella folla, a volte con delle gomitate, a volte zittendo con lo sguardo chiunque osasse protestare, gli schiavisti fecero salire sulla tribuna una ragazza che non arrivava ai quindici anni. Due uomini la trascinavano per le braccia e aveva le caviglie strette da una corda molto corta, che la fece inciampare e cadere in ginocchio quando la spinsero al centro del palco. Aveva le labbra gonfie e livide, la faccia sporca e i capelli corti come quelli di un bambino, probabilmente per evitare i pidocchi. L’avevano vestita con un kimono il cui colore era indistinguibile sotto lo sporco, e lei si sforzava di tirarlo verso il basso perché le copriva a malapena le ginocchia, con gran piacere degli uomini lì riuniti.
«Yun» cominciò ad annunciare il banditore dalla sedia pieghevole dove si trovava. «Appena arrivata dalla Corea, tredici anni, magra ma forte, adatta sia ai lavori di casa che a dare piacere, poiché conserva intatto il suo valore. Prezzo di partenza: venti monme d’argento.»
Ci fu un breve mormorio, ma poco dopo una donna in prima fila sollevò un ventaglio per aprire l’asta. Un uomo alzò subito a trenta monme. Un terzo offrì quaranta pezzi d’argento e sessanta di bronzo, a cui il secondo rispose offrendo venticinque monete di bronzo in più. Alla fine, fu la prima offerente a chiudere l’asta alzando la posta fino a cinquanta monme d’argento. Doveva aver visto nella giovane Yun un sicuro valore per il locale e non era disposta a farsela scappare.
Il banditore stava per annunciare la vendita quando la donna lo interruppe: «Prima devo verificare che non abbia segni».
«D’accordo» disse il venditore, e invitò la donna a salire sul palco.
Era una dama sul punto di entrare nella vecchiaia; nonostante questo, indossava un furisode con allegri motivi marinari. Era senza dubbio la proprietaria di un bordello, o forse una delle donne che controllavano la tratta di bianche per le mafie locali. Quando fu vicino alla ragazzina, i due uomini che l’avevano trascinata sul palco le strapparono via i cenci che indossava, e il pubblicò mormorò con malcelata lussuria.
La ragazza gridò qualcosa nella sua lingua e cercò di coprirsi i seni e il pube, ma la donna con il furisode la schiaffeggiò e la obbligò ad abbassare le braccia. Così, esposta al pubblico ludibrio, le esaminò i denti, i capelli corti, le tastò i seni e i fianchi… Infine, schioccò le dita e chiese al banditore di cederle la sua sedia. Questi si mostrò confuso per un attimo, ma lo sguardo impaziente della donna lo spinse ad alzarsi dal suo posto. Con inaspettata delicatezza, la dama condusse la giovane Yun fino alla sedia mentre altre due donne salivano sul palco agli ordini della loro capa, che dominava la scena con la disinvoltura di chi si era trovata in quella situazione decine di volte.
Gettarono un telo sulla schiena tremante di Yun, e questa si affrettò a stringerselo sulle spalle, i singhiozzi sempre più contenuti nel vedere la fine di tanta umiliazione. La donna con il furisode attese che la ragazza si calmasse prima di rivolgersi alle sue ancelle: «Apritele le gambe.»
Senza esitazioni, le donne la presero per le ginocchia e la forzarono a separarle. La ragazza riprese ad agitarsi e a gridare, e questa volta la sua nuova proprietaria ebbe bisogno di due colpi per domarla. Quando ormai non faceva altro che tremare per il pianto, impotente, la dama si inginocchiò davanti a lei e la esaminò attentamente tra le gambe; infine, come ultima verifica, la vessò infilando un dito alla ricerca della verginità che avrebbe triplicato il prezzo della prima notte. Quando fu soddisfatta, si alzò in piedi e ordinò che la portassero via mentre si puliva le dita con un fazzoletto di seta.
Le due donne, non molto più mature della loro nuova compagna, la aiutarono ad alzarsi e la condussero giù dal palco, verso la sua nuova casa. La marmaglia accompagnò con lo sguardo i passi corti e zoppicanti di quella bambina, finché la dama con il furisode non prese di nuovo la parola: «Cinquanta pezzi d’argento è un buon prezzo» confermò, mentre estraeva una piccola borsa dalla manica interna del kimono.
«Spero che vi faccia un buon servizio, dama Shinko» rispose il banditore con un inchino.
Shinko depositò le monete sul vassoio disposto per i pagamenti e si congedò con un altro inchino.
Il fatto che la donna avesse mostrato i soldi apertamente, alla vista di un pubblico così poco affidabile, significava che ai piedi della tribuna doveva attenderla una scorta considerevole. O che tutti lì sapevano che rubare a lei significava mettersi una corda al collo, cosa che confermava il fatto che la donna lavorasse per le mafie, si disse Igarashi mentre contemplava la folla che si accalcava alle sue spalle. Alcuni ancora allungavano il collo per dare un’ultima occhiata alla giovane Yun, con occhi assetati e labbra umide di lascivia, e Igarashi sentì un disprezzo infinito per tutti loro, nato dal ricordo di sua figlia.
D’un tratto, un mormorio di stupore percorse la piazza, e il vecchio guerriero si girò per veder salire sul palco un uomo di proporzioni smisurate, un gigante curvo sotto il peso delle catene che gli mordevano i polsi e le caviglie: la sua pelle era nera come quella di un bue e il suo collo non sembrava meno poderoso. Aveva sentito parlare degli uomini-bue che i nanban portavano con sé, ma non avrebbe mai immaginato che il loro aspetto fosse così imponente. Per un istante, si chiese quanto era grande il mondo perché uomini così diversi potessero abitarlo.
«Yasuke,» cominciò il banditore «età sconosciuta, ma vigoroso e in salute, come è evidente. Si può nutrire di riso, come chiunque, e servirà bene per lavori pesanti o come guardaspalle.»
Igarashi contemplò la folla, ora attraversata da un fremito di paura, di fascino… Capì perché quelle aste erano così popolari fra gli abitanti di Osaka: offrivano loro le emozioni che le loro miserevoli vite non potevano offrire. Molto in cambio di nulla.
«Prezzo di partenza: un ryō e venti monme.»
Le offerte proseguirono per il resto della mattinata, e Igarashi prese nota mentale di tutti gli attori che si alternavano in quello spettacolo. Sapeva che i commercianti stranieri stabilitisi in città pagavano i propri traduttori giapponesi, ma chi sbarcava da Macao aveva con sé solo interpreti cinesi, inutili per affari complessi come partecipare a un’asta. In casi come quello si avvalevano quindi di traduttori locali, che spuntavano ogni volta che si mercanteggiava con gli schiavi. Quegli interpreti conoscevano bene i portoghesi che si muovevano per la città, ma allo stesso tempo non mostravano loro maggiore lealtà di quella rappresentata da un servizio sporadico pagato con qualche moneta di bronzo.
Man mano che la giornata avanzava, Igarashi cominciò a identificare i traduttori che si muovevano per la piazza offrendo i loro servizi agli stranieri. Quando l’asta si concluse e la piazza cominciò a svuotarsi, i due forestieri si dedicarono a cercarli per le strade e nei locali vicini. Interrogarono tutti quelli che riconobbero, ricorrendo alle lusinghe o all’intimidazione, corrompendoli con delle monete o spezzando qualche dito nei vicoli più appartati, ma ottennero solo sconcertati rifiuti e, se esageravano, qualche frottola sparata solo per toglierseli di torno.
Restii a darsi per vinti, girarono per i moli e i posti di dogana a parlare con stivatori e armatori locali che erano soliti trattare con i portoghesi. Eppure la giovane che cercavano sembrava essere un fantasma del passato. Nessuno sapeva niente di un bateren di nome Martín Ayala, e men che meno ricordava una ragazza cristiana di nome Junko che, da Uji-Yamada, era entrata a servizio in una casa nanban dieci anni prima. Era passato molto tempo, e se la ragazza aveva cambiato nome una volta giunta a Osaka, sarebbe stato impossibile trovarla. A meno che non avessero la fortuna di incrociare qualcuno che l’aveva conosciuta bene, abbastanza perché lei gli confessasse le sue origini.
Suonava la fine dell’ora del cane,1 ma prima di considerare conclusa la giornata decisero di tentare la sorte ancora una volta. Entrarono in una taverna che, a quanto gli fu raccontato, era frequentata da gente abituata a fare affari con i nanban. Il posto era vicino alla dogana, umido come il ventre di una spigola e con le assi del tetto così imbarcate che avrebbero potuto crollare da un momento all’altro. Mentre si accomodavano su una panca un po’ in disparte, Masamune guardò di sbieco verso l’alto e mormorò una breve preghiera perché il soffitto non venisse giù proprio quella sera.
Igarashi schioccò le dita per chiamare una delle cameriere; prima che la donna arrivasse, un uomo si avvicinò a loro. Indossava un kimono che a suo tempo poteva essere stato di buona fattura, ma che ora mostrava evidenti segni di vari rammendi. L’uomo esibiva un’esagerata spavalderia, le braccia fuori dalle maniche e incrociate sotto l’haori, con fare spensierato. Un forte odore di alcol accompagnava la sua presenza e il suo atteggiamento.
«Siete voi che cercate una donna che si faceva chiamare Junko?» chiese, sedendosi senza essere invitato.
Igarashi e Masamune si scambiarono uno sguardo.
«Chi sei?» domandò Masamune, indicandolo con il mento.
«Cosa importa chi sono io? Quello che deve importarvi è che l’ho conosciuta e so che ne è stato di lei.»