Igarashi Bokuden scrutò con diffidenza l’uomo seduto dall’altro lato del tavolo. Avevano cercato sotto ogni pietra del porto qualche traccia della donna di nome Junko e non avevano trovato nulla, nemmeno un vago cenno di riconoscimento. E ora, proprio quando erano sul punto di darsi per vinti, oramai naufraghi in quella bettola frequentata dai peggiori piazzisti d’oltremare, era la verità a trovare loro, così facilmente?
Fece schioccare la lingua, disgustato, e quello fu il primo indizio che le cose non sarebbero state tanto semplici per il provvidenziale informatore.
«E così tu conosci quella donna» cominciò. «Che meravigliosa coincidenza, senza dubbio i sette dèi della fortuna ci accompagnano in questo viaggio… C’è solo una cosa che mi preoccupa» e lo sguardo di Igarashi spinse il confidente contro la panca: «Io non sono mai stato un uomo fortunato».
Masamune, che fino a quel momento era rimasto in silenzio accanto a Igarashi, si tolse dalle labbra lo stuzzicadenti che stava mordicchiando e si chinò sul tavolo: «Non vorrai ingannarci, vero? Non penserai mica di soffiarci qualche moneta, buttar lì una sciocchezza qualsiasi e correre a rifugiarti tra le gambe di una qualunque delle sgualdrine del quartiere a luci rosse?».
Tutta la spavalderia del presunto informatore sfumò quando l’omaccione con lo stuzzicadenti gli appoggiò un pugnale nell’interno coscia. Cercò tra i presenti qualche faccia comprensiva, qualcuno disposto a supportare le sue parole, ma Masamune allungò la mano e lo afferrò per la nuca: «Guarda me.» Le sue pupille lo braccavano dietro ciocche di capelli lunghi e scompigliati. «Vuoi prenderti gioco di noi?» Fece pressione con il coltello che impugnava sotto il tavolo, pungolandolo molto vicino all’inguine.
L’interpellato deglutì e fece segno di no con la testa.
«Chi ti ha detto che stiamo cercando quella donna?» intervenne Igarashi.
«Lo… lo sanno tutti. Due forestieri hanno passato tutto il giorno a chiedere di una donna di nome Junko, ne parlano puttane e stivatori.»
«E tu hai pensato che sarebbe stato facile approfittarsi di due viaggiatori di passaggio» disse Masamuse, portandosi lo stuzzicadenti da un lato all’altro della bocca.
«No, certo che no!» negò energicamente l’uomo. «Se la Junko che cercate è arrivata da Ise con un mercante portoghese, io l’ho conosciuta davvero. Era una ragazza cristiana e maestro Sarima l’ha portata con sé per farla entrare a suo servizio.»
«Sarima?» ripeté Igarashi. «Non mi sembra portoghese, piuttosto mi sembra un nome che ti sei inventato.»
«Ve lo giuro! Il suo nome era Sá Pinto de Lima, ma a Osaka era conosciuto come Sarima. Io mi chiamo Daisuke, ho servito presso di lui come archivista e traduttore occasionale. Chiunque potrebbe confermarvelo.»
«E perché non ci lavori più?» chiese Masamune, che si era arrogato il ruolo di infaticabile scettico. «Forse i nanban hanno scoperto che sei uno di cui non ci si può fidare?»
«Sarima-san si è trasferito a ovest, a Owari e Mikawa, ha degli affari anche lì. I gesuiti stanno cominciando ad abbandonare Osaka e, con loro, anche le navi portoghesi.»
«E la ragazza che aveva portato qui da Ise?» volle sapere Igarashi. «È andata con lui?»
«No, quella cagna è stata castigata come meritava, e ha avuto ancora la fortuna di esser stata lasciata in mezzo a una strada invece che appesa a testa in giù in riva al mare, che è quel che ne avrebbe fatto qualunque mercante.»
«Dove può trovarsi adesso?» chiese Masamune.
«Chi lo sa? In un qualunque bordello del quartiere del piacere.»
«E che cosa pensavi di ottenere portandoci quest’informazione del cazzo?» bofonchiò l’altro, stringendo lo stuzzicadenti fra le labbra.
«Aspetta,» intervenne Igarashi «dici che è stata castigata e cacciata. Perché?»
L’informatore raccolse un po’ di coraggio e abbassò lo sguardo fino alla bottiglia di sakè. Per la piega che stava prendendo la conversazione, forse un bicchiere poteva essere l’unica cosa da ricavarci. Igarashi capì che cosa desiderava; riempì la propria tazza e la spinse sul tavolo nella sua direzione.
Daisuke la sollevò con avidità e bevve quel sakè velenoso con lo stesso piacere che avrebbe mostrato abbeverandosi dai seni della dea Amaterasu. Recuperato il contegno, se ne versò dell’altro mentre rispondeva: «Sarima-san si era incapricciato di quella ragazza, ma la sgualdrinella non aveva nulla di innocente. A poco a poco prese a immischiarsi negli affari del signore, e cominciò perfino ad accompagnarlo negli incontri con i mercanti locali, o con le delegazioni commerciali inviate da altri feudi.»
«E questo com’è possibile?» lo interruppe Igarashi. «Perché quell’uomo avrebbe avuto bisogno di una ragazza di strada per i suoi affari?»
L’altro bevve ancora un sorso e un sorriso ebbro gli affiorò sulle labbra.
«Perché quella gran zoccola sapeva parlare portoghese come uno di loro. Non come me o come i disgraziati che avete interrogato oggi,» indicò verso fuori con la tazza di sakè in mano «ma come uno qualunque di quei barbari puzzolenti scesi da una delle navi nere. Solo che parlava perfettamente anche la nostra lingua, e sapeva quando i mercanti cercavano di ingannare il suo padrone, e imparava in fretta… Oh, sì, imparava molto in fretta.» Bevve di nuovo.
«Che cosa vuoi dire?»
Daisuke si asciugò le labbra con il dorso della mano: «Sarima scoprì che la sgualdrina era in contatto con le mafie locali. Sfogliava i registri e ascoltava gli accordi di maestro Sarima, conosceva le merci che sarebbero arrivate in porto, quando sarebbero arrivate, quale avrebbe scarseggiato maggiormente nei mesi successivi… Informazioni molto utili, soprattutto per i contrabbandieri.» Sputò della saliva ispessita dall’alcol e dal rancore. «Ho avuto un sacco di problemi per colpa sua. Se potessi metterle le mani addosso, le…»
«Guardami» disse Igarashi, interrompendo la sua cantilena da ubriaco. «Chi erano quei contrabbandieri?»
«Aosebe, Shiragami… i soliti. Quelli che controllano il gioco d’azzardo e il contrabbando.»
«Dove li possiamo trovare?» chiese Masamune.
«Oh, è facile trovarli,» rise il confidente «non hanno bisogno di nascondersi. Anzi, sono gli altri che fanno in modo di nascondersi da loro.»
Uscirono dal locale e si tuffarono nell’umida notte di Osaka. L’atmosfera sul molo di Tenman era impregnata dall’odore di sargassi putrefatti; eppure, ricevettero con sollievo la prima boccata d’aria.
«Che cosa pensi di fare ora?» chiese Masamune. «Non abbiamo altro che le parole di un ubriacone.»
«È comunque più di quel che avevamo quando il sole è tramontato. Se davvero quella donna era in contatto con i contrabbandieri locali, è probabile che loro sappiano che fine ha fatto.»
«Quindi sei così folle da rivolgerti alle mafie del porto, ai bakuto e ai trafficanti…» Strinse le labbra. «Credo che nessuno mi abbia mai accusato di essere troppo prudente, perciò tendo a pensare che quando un’idea sembra sciocca a uno come me, di solito è perché si tratta di una pazzia assoluta. Quei maledetti sono totalmente imprevedibili, vecchio.»
Igarashi sorrise tra i denti e prese a camminare lungo il molo. La marea borbottava sotto le assi di legno degli ormeggi e gli alberi delle navi oscillavano al ritmo di un’antica melodia. Era davvero una serata splendida.
«Perché sorridi?» chiese Masamune, contrariato. «Stiamo parlando di gente che porta la parola “tradimento” incisa in fronte, e spesso con tanto di inchiostro. So quel che dico.»
«Può tradirti solo qualcuno di cui ti fidi, e non c’è nessuno in questa città immonda di cui io mi possa fidare. Questa non è che una partita a dadi: calcoli le possibilità che hai e corri un rischio.»
«Ascoltami» disse Masamune, prendendolo per il braccio: «Ci sono alternative migliori, forse più lente, ma più sicure».
«E quali sarebbero?»
«I gesuiti» rispose l’altro. «Che cosa succederebbe se un altro corvo fosse trovato morto? Probabilmente quell’uomo sarebbe obbligato a venire qui.»
«Altri bateren sono già stati assassinati a Osaka.»
«Ma sarebbe il primo da quando il corvo che cerchiamo ha messo piede a Honshuō, non è così? Non potrebbe ignorare la cosa, sarebbe obbligato a indagare sull’episodio più recente. Verrebbe dritto tra le nostre braccia.»
«Ayala è disperso nelle profondità del paese, a seguire indizi che non conosciamo. Quanto tarderebbe ad arrivargli la notizia? Settimane? Mesi? E questo dando per scontato che in caso deciderebbe di venire immediatamente a Osaka.»
«Credo che a frenarti sia il fatto che ti fai troppi scrupoli,» lo sfidò Masamune «non vuoi macchiarti le mani con il sangue degli stranieri.»
Igarashi si fermò per guardare in faccia quell’emissario di Iga: «Che ne sai tu di me, ragazzo? Che ne sai di chi ho ucciso o chi ho visto morire?».
«Quello che so è che questa missione è importante per Iga, e che gli interessi di Iga non possono dipendere da un vecchio che non ha più le forze nemmeno per portare il suo stesso nome.»
«Non mi frega niente degli interessi di Iga» sbottò Igarashi. «I tuoi capi hanno riscritto le condizioni del nostro accordo, sono obbligato a partecipare al loro gioco perverso, ma lo farò alle mie condizioni, non alle loro e, men che meno, a quelle di un genin insolente come te.»
Riprese a camminare, lasciando indietro Masamune, che lo contemplava in silenzio.
«Ci farai ammazzare tutti e due, vecchio.»
Igarashi fece ondeggiare la testa per mettersi la treccia sulla spalla. Rispose senza guardarsi indietro: «Seguite un uomo del quale non sapete nulla. Credete che stia cercando l’assassino dei suoi fratelli, ed è possibile che nella sua mente sia così, ma non è altrettanto nel suo cuore» mormorò. «Per sconfiggere il tuo nemico non basta sapere che cosa pensa, devi scoprire che cosa sente. Io questo lo so, ed è per questo che sono stato il migliore di Iga; tu non sai nulla e credi di sapere molto, per questo non sei altro che un soldato sboccato.»
Cercarono alloggio in una pensione vicino ai moli; un posto molto frequentato ed economico, di quelli in cui i viaggiatori non stanno più di una notte e tutti gli ospiti danni vita a un confuso trambusto. La stanza che gli era toccata era così umida che perfino le pulci l’avevano abbandonata; stavano spostando le stuoie ammuffite per stendere le coperte direttamente sul pavimento quando vennero lasciati loro dei vassoi coperti accanto alla porta. Dentro erano state disposte ciotole di riso, tè caldo, panini al vapore e una pappetta sanguinolenta che facevano passare per rafani sott’aceto.
Masamune prese uno dei vassoi, se lo appoggiò sulle gambe incrociate e cominciò a cenare con gusto. Igarashi, al contrario, sembrava inappetente, distratto a scovare i vermi che si contorcevano fra i chicchi di riso. Alla fine, optò per mettere da parte la ciotola e intavolare una conversazione: «Parlami di te, chi è stato il tuo maestro?».
L’altro alzò gli occhi per osservarlo brevemente, senza fermare le bacchette che volavano a ripetizione dalle ciotole alla sua bocca e viceversa.
«Sono orfano, mi ha cresciuto la nonna Osen, se è questo che vuoi sapere.»
«Osen» sorrise Igarashi; «con gli anni è diventata una vera arpia. Deve essere stata molto dura con te.»
L’altro si strinse nelle spalle, senza smettere di mangiare.
«Mi ha dato cibo e un posto dove stare, non ho nulla da rimproverarle.»
«Scommetto che la tua schiena ancora ricorda il suo bastone di ginepro.»
Masamune smise di mangiare e fece gli occhi piccoli. Utilizzò la punta delle bacchette per scostarsi la ciocca di capelli sporchi che gli cadeva su un occhio.
«Perché tutto questo? D’improvviso vuoi fare amicizia?»
Igarashi si lasciò scappare un sorriso stanco.
«Sei stato tu a dire che avevamo una lunga strada davanti a noi, che dovevamo conoscerci meglio. Forse avevi ragione.»
«Quindi ora forse avevo ragione» riprese Masamune, lasciando la ciotola sul vassoio. «Se quello che vuoi è che cominciamo a trattarci da compagni e non come due sconosciuti che percorrono la stessa strada, smettila di chiacchierare e comincia a spiegarmi come credi di abbordare i contrabbandieri locali.»
«Mi atterrò al vecchio detto» rispose Igarashi, mentre tentava la fortuna con un panino al vapore. Era gommoso, quindi lo sputò prima di concludere: «Se vuoi un cucciolo di tigre, devi entrare nella tana».
La tana dell’uomo di nome Aosebe risultò essere una sgangherata caracca portoghese attraccata nella zona del porto. Igarashi contemplò la chiglia gonfia della nave, la cui ombra si proiettava, oscillante, sui giunchi da pesca e sulle fragili chiatte. Doveva riconoscere che era un ottimo covo: visibile quanto improbabile, e non dubitava che i bakuto sarebbero stati capaci di tagliare gli ormeggi e scappare via mare se le cose si mettevano male. Di tanto in tanto, quando la marea di immondizia si alzava troppo, le autorità locali davano ordine di purgare i quartieri a luci rosse, quindi le case da gioco e i bordelli dovevano spostarsi fuori città. A quel punto, perché non fuggire in alto mare?
Si fece strada nel labirinto di ormeggi fino a raggiungere la passerella che dava accesso alla caracca. Non mancò di notare le tre figure che lo vigilavano dal parapetto della nave, ma fece attenzione a non guardarle direttamente. Attraversò la passerella, che portava a una porticina nella chiglia di legno, e bussò quattro volte con il pugno.
Dopo poco, si aprì una finestrella.
«Che ci fai qui, vecchio? Questo non è un posto dove chiedere l’elemosina.»
«Mi chiamo Jirokichi, vengo da Echigo per mettermi a servizio dei signori del gioco di Osaka.»
Quello della finestrella rise tra i denti prima di accennare a richiuderla.
«Non osare darmi le spalle, idiota. Ho fatto un lungo viaggio e il tuo capo mi sta aspettando.»
Il guardiano esitò, sconcertato per l’arroganza del forestiero.
«Occhio a quella lingua, cane. Non ho mai sentito il tuo nome in vita mia; per quanto mi riguarda non sei che l’ubriacone di turno.»
«Sono il miglior giocatore della regione di Echigo, ogni bakuto che si rispetti conosce il mio nome. Se sono qui è perché il tuo capo mi ha mandato a chiamare. E ora, mi lasci passare o devo dire ad Aosebe che per colpa tua mi sono dovuto trovare altri soci in questa latrina di città?»
L’ombra del dubbio mitigò l’espressione del gorilla. Era abituato a cose semplici: picchiare, estorcere, rapinare… uccidere di tanto in tanto. Ma prendere una decisione era una cosa complicata, una cosa che di solito non gli era concessa. Se quel che il giocatore diceva era vero, senza dubbio il padrone avrebbe voluto incontrarlo. Strinse i denti; avrebbe volentieri aperto il cranio a quel vecchio maleducato, ma optò per la via più semplice: «Entra» grugnì. «Ma ti avverto che se ti sei inventato tutta questa storia, te ne andrai volando giù dal parapetto con un bel buco nella pancia.»
Gli fece attraversare la porticina, gli tolse la borsa e lo perquisì a fondo, per assicurarsi che non nascondesse armi sotto gli ampi abiti da viaggio. Poi lo condusse per degli scalini che scendevano fino all’immensa stiva della nave. Barili di alcol erano impilati contro le pareti concave, illuminati dal liquido fulgore delle lampade a olio. I bakuto avevano diviso parte della stiva in piccole cabine, la più grande delle quali occupava tutta la parte finale della poppa. Lì lo condusse il suo ospite, che bussò alla porta con la mano aperta. Un’altra finestrella scorrevole si aprì e mostrò un volto rammendato di cicatrici. La più grande gli divideva in due il naso.
«Voglio vedere il capo, ho con me qualcosa che gli può interessare.»
La sentinella girò la testa per contemplare meglio Igarashi, ma una voce dall’accento ebbro risuonò all’interno: «Fai passare Kazama.»
La finestrella si richiuse e il rozzo chiavistello si aprì. Alla fine, la pesante porta fu spalancata lasciando in vista un’ampia sala coperta di tappeti persiani e cuscini enormi di colori sgargianti, sui quali riposavano mollemente tre persone. L’uomo che sembrava essere il capo, Aosebe, fumava da un narghilè di vetro collocato ai suoi piedi, osservando lo sconosciuto con occhi a metà strada fra la curiosità e l’ubriachezza. Accanto a lui, i suoi due ospiti: contrabbandieri, a giudicare dal loro abbigliamento eccentrico, che mescolava abiti nanban e del paese dei Ming. Uno di loro era monco e si copriva la testa con un cappello da capitano portoghese; usò la sua unica mano per salutarlo con un gesto stravagante, imitando i modi degli stranieri, cosa che provocò le risate dei suoi due amici.
Infine, c’erano due guardie ai lati della porta: due gorilla dall’aria minacciosa; più per l’aspetto che per la perizia, valutò Igarashi. Sei uomini e una sola via d’uscita, poiché anche se il tetto era di legno intrecciato e probabilmente si affacciava sulla coperta, era impossibile raggiungerlo dal pavimento. Doveva agire con cautela.
«Che cosa mi hai portato, Kazama? Perché ho davanti questo vecchio rinsecchito invece di un paio di sgualdrine succose e ben disposte?»
Igarashi decise di prendere la parola e risparmiarsi i preamboli: «Signor Aosebe, mi chiamo…». Fu interrotto dal coltello che gli scivolò sotto il mento.
«Che fai, vecchio?» sbottò il tale Kazama, premendogli ancor di più la lama contro la gola. «Chi ti ha detto che puoi rivolgerti apertamente al capo?»
Aosebe sorrise, esibendo dei pezzi d’oro tra i denti marci.
«Tranquillo, ragazzo. Facci sapere, almeno, perché questo disgraziato morirà stanotte.»
L’altro allentò la presa senza togliere la lama. Igarashi riprese la parola e si sforzò di farlo con voce calma, anche se in fondo alle sue pupille già palpitavano delle braci rosse: «Come stavo cercando di dire, mi chiamo Jirokichi e vengo da Echigo. Faccio il baro da più di quarant’anni e nella mia provincia sono rispettato come il miglior giocatore di carte di tutta Honshuō. Sono venuto a offrirvi i miei servizi, ma prima c’è una domanda che devo farvi.»
«Oh, una domanda!» esclamò Aosebe con finto entusiasmo, mentre passava il bocchino del narghilè a uno dei contrabbandieri. «E immagino che, a seconda della mia risposta, valuterai se siamo degni del tuo talento, non è così, Jirokichi di Echigo?»
«È il motivo ultimo che mi ha portato fin qui» rispose il viaggiatore, ignorando il sarcasmo del suo interlocutore. «Ho bisogno di sapere che ne è stato di una ragazza di nome Junko. È arrivata a Osaka circa dieci anni fa per mano di un mercante portoghese chiamato Sarima. Dicono che parlava perfettamente la lingua dei barbari nonostante fosse giapponese, ma che i nanban l’hanno allontanata perché era in contatto con le bande di Osaka. Avere sue notizie è il prezzo che metto ai miei servizi; in cambio, posso assicurare che vi farò guadagnare molti soldi.»
Aosebe non rispose. Mantenne un’espressione severa, con gli occhi fissi su quel visitatore sempre più inopportuno, finché non cominciò a ridere con un gorgoglio che gli scappava dal petto.
«L’avete sentito?» chiese ai suoi invitati. «Che cosa ve ne pare di questa storia?»
«A me ha già cominciato ad annoiarmi» rispose uno dei contrabbandieri.
«Sì, io pensavo lo stesso» disse il capo, guardando Igarashi con occhi perversi. «Kazama! Apri il gargarozzo a questo miserabile lanciadadi.»
Kazama strinse la presa e girò il polso, pronto a tagliargli la gola. Ma prima che potesse completare quel gesto, Igarashi gli afferrò l’avambraccio bloccandogli il polso con entrambe le mani. Sgattaiolò verso il basso e, appoggiando il braccio dell’assassino sulla sua spalla, fece leva.
Il gomito di Kazama si ruppe con uno schiocco raccapricciante mentre tutto il suo corpo girava sulla spalla di Igarashi fino a cadere a terra, dove rimase seduto ai suoi piedi. In qualche modo il forestiero si era impossessato del coltello, che ora appoggiava contro la gola del sicario. Quello riusciva solo a gemere, perso nel pulsante dolore che gli saliva dal braccio spezzato.
Igarashi lo prese per il mento e lo obbligò ad alzarsi, puntando alla sua giugulare.
«Sarà morto prima che possiate sguainare la spada» avvertì, rivolgendosi soprattutto alle guardie che già gli erano addosso. «Nulla di tutto questo è necessario, Aosebe. Basta che tu risponda alla mia domanda.»
Il bakuto gli mostrò il suo sorriso ripugnante mentre affondava la mano tra i cuscini e ne estraeva una balestra europea. Il dardo puntava dritto al petto del suo seguace.
Igarashi, consapevole che un’arma simile poteva perforare un corpo da parte a parte, spinse Kazama in avanti proprio nel momento in cui Aosobe premeva il grilletto. Il proiettile impalò il povero disgraziato attraversandolo fino a spuntare tra le costole; ma Igarashi non era più alle sue spalle, aveva cominciato a muoversi a una velocità che smentiva l’età che dimostrava.
Sapeva che quelle armi straniere erano semplici da utilizzare ma richiedevano molto tempo per essere ricaricate, quindi la sua priorità erano i due guardiani, che già cominciavano a sguainare le spade corte. Si scagliò contro il più vicino, quello che si trovava alla sua sinistra, e lo spinse con la spalla fino a stamparlo contro la parete. Mentre cadevano insieme a terra, lo pugnalò con forza all’inguine, lì dove si sanguina di più. La visione del sangue che usciva a fiotti era capace di togliere il fiato a qualunque gorilla da taverna, e sperava che facesse esitare la seconda sentinella abbastanza a lungo da dargli il tempo di voltarsi.
Ma tutto andò in fumo quando Igarashi tentò di disincastrare la lama e scoprì che questa era rimasta incastrata nel ventre dell’uomo. Cercò di estrarla, a strattoni, l’umidità che gli inzuppava le mani, ma non ebbe successo. Imprecando, si voltò in tempo per vedere che l’altra guardia era sul punto di fracassargli il cranio. Provò a rotolare di fianco sperando che il colpo non lo prendesse in pieno, ma all’ultimo istante questi perse slancio finché la spada non cadde inerme accanto a Igarashi.
Dietro all’arma crollò anche l’uomo che la brandiva, quello con il naso attraversato da cicatrici, con un coltello che gli spuntava dalla nuca. Apparentemente, ciò che non erano riusciti a fare i vistosi tagli che gli sfiguravano il volto l’aveva fatto quella lama leggera, quasi impercettibile alla luce delle lampade di carta.
Dal fondo della stanza, i contrabbandieri e lo stesso Aosebe cercavano di capire che cosa fosse successo. Non vedendo altro nemico oltre a colui che cominciava a rialzarsi, sguainarono le proprie armi e avanzarono verso Igarashi: Aosebe impugnava una spada esageratamente lunga, mentre l’uomo alla sua destra ne faceva oscillare una storta dalla lama ricurva. Riuscirono a malapena a fare un paio di passi perché, dal tetto, cadde su di loro una pesante ombra. I tre corpi crollarono all’unisono, in completo silenzio, e solo uno si rialzò: Masamune, che gli aveva conficcato nella clavicola altrettanti stocchi, lunghi abbastanza da toccargli il cuore e fulminarli all’istante.
Igarashi volle chiedergli per quanto tempo era rimasto accucciato sulla grata del soffitto, ma furono interrotti dalla voce dell’ultimo contrabbandiere rimasto in vita: «Bravo!» disse burlone il monco, che per tutta la zuffa era rimasto steso sui cuscini, come se nulla di quel che stava succedendo lo riguardasse. «Che esibizione formidabile.» Applaudiva battendosi la mano sulla coscia.
Igarashi e Masamune si voltarono verso di lui; il ragazzo aveva già sguainato la sua nagamaki e lo indicò con la punta della lama. «E tu chi sei?»
«Io? Un signor nessuno, un umile wako di nome Togoro» rispose l’interpellato con voce stridente, scoprendosi il capo. Metà del suo volto era tatuato con un motivo di dragoni.
«Non sembri molto colpito per la morte dei tuoi soci» osservò Igarashi, mentre cercava di pulirsi dal sangue che gli inzuppava le braccia.
«I miei soci?» Sputò sul cadavere di Aosebe. «Questi disgraziati sono miei soci quanto l’ufficiale della dogana che devo allisciarmi perché faccia il finto tonto. Sono un male minore, in ogni caso.»
«E dimmi, contrabbandiere» intervenne Masamune. «Perché dovremmo risparmiare proprio te? Non mi va che ora tu ci faccia seguire da tutta la feccia di Osaka.»
«Oh, non dovete preoccuparvi di questo» sorrise Togoro, fiducioso. «Piuttosto il contrario, io posso esservi molto utile, perché conosco la zoccola che state cercando.»
Igarashi alzò la testa e aguzzò la vista. Sapeva che i wako vivevano di pane e bugie, eppure…
«Come sai che è lei? Non siamo nemmeno sicuri che sia ancora viva.»
«L’ultima volta che l’ho vista, lo era. È stato quando mi ha staccato il braccio e le palle con due spari di archibugio.» Un lampo d’odio gli attraversò il volto. «Quella gran puttana mi ha lasciato con un piede nello Yomi.»
«Dove hai incontrato quella donna?»
«Non così in fretta, vecchio. Posso dirti che ora si fa chiamare Reiko» rispose con evidente fastidio. «Ha cambiato nome, ma non abitudini: continua a trattare con gli stranieri e si dedica a far entrare merci proibite nel paese. C’è chi dice che sia perfino un’agente al servizio del clan Fuwa, di Takatsuki.»
Igarashi si scambiò uno sguardo con Masamune: «Qual è il tuo prezzo?».
«Perché la cercate?» chiese a sua volta il contrabbandiere.
«Un regolamento di conti» intervenne Masamune, laconico.
Il wako contemplò i cadaveri intorno a sé e pensò che gli piaceva il modo in cui quegli uomini regolavano i conti.
«Allora vi dirò dove trovarla. E in cambio vi chiederò solo una cosa: quando metterete le mani su quella strega figlia di una lampreda, ditele che è stato Togoro a portarvi fino a lei.»
I geta di Masamune ticchettavano sul selciato di Chuo, uno dei quartieri nella parte alta della grande collina su cui si sviluppava Osaka. Alle sue spalle, in lontananza, la luna rifulgeva sulla baia e tingeva d’argento il corso del fiume Yodo.
Si addentrò per vicoli dall’aspetto abbandonato e dall’odore insalubre, fino a fermarsi accanto alla piccola casa. Era circondata da un giardino secco, annaffiato solo dalla pioggia, e la porta scorrevole che permetteva l’accesso dalla strada era stata scardinata. Eppure, si intuiva comunque lo splendore di una fiamma attraverso la carta di riso della terrazza.
Masamune spostò la lastra di legno rigonfia ed entrò nel giardino. Appena mise piede sul viottolo d’accesso, vari corvi si alzarono in volo per posarsi sulla tettoia della casa. Convocata da quel nero svolazzare, una figura minuta uscì sulla terrazza e si inginocchiò sulla pedana di legno, sedendosi sui talloni. Non ebbe bisogno di pronunciare alcun saluto, poiché Masamune si affrettò a inginocchiarsi chinando la testa: «Yao-san, porto una notizia importante.» Alzò lo sguardo, quasi euforico: «Finalmente l’abbiamo trovata».
L’anziana annuì compiaciuta e allungò la mano. Masamune le consegnò il piccolo rotolo di carta che un corvo avrebbe portato a Iga prima dell’alba.