Nozomi si sedette a gambe incrociate sul muschio che copriva la collina. Quella posizione, indecorosa per una donna, impossibile quando alla corte del daimio doveva indossare dei kimono attillati che costringevano i suoi movimenti, era una silenziosa conferma della sua autorità sul campo di battaglia. Perfino nella solitudine di quel pomeriggio, proclamava che lì era un guerriero, una bushi in grado di uccidere e morire per il suo signore, come qualunque uomo.
Con fare distratto, fece scivolare la mano sotto la corta chioma di capelli, dove un occhio senza pupilla le vigilava la schiena. Il tatuaggio, collegato con il san jiao, il ricettacolo spirituale situato nel cranio, espandeva la sua percezione e la identificava come chunin degli shinobi di Shinano. Solo il tempo e la ragione del cielo avrebbero potuto dire se il tatuaggio sarebbe stato completato con l’aggiunta della pupilla, identificandola come la prima donna leader del proprio clan, momento in cui Nozomi avrebbe dovuto prendere il nome di Kato. Non pochi tra i suoi ritenevano che, se fosse nata uomo, quel giorno sarebbe arrivato, ma non era una faccenda che occupava troppo spazio nei suoi pensieri, poiché da molto aveva imparato a mantenere il proprio spirito e la propria mente in armonia con ciò che è, e non con ciò che avrebbe potuto essere.
Quindi, con la serenità che ogni rituale richiede, aprì la scatola allungata che aveva portato con sé ed estrasse la pipa di ferro. Riempì il fornellino con del tabacco portoghese e vi avvicinò la fiamma dell’acciarino. Diede varie boccate, ravvivando le braci finché il sapore dell’erba non le riempì i polmoni. Compiaciuta, esalò il fumo lentamente e contemplò il campo di battaglia ai suoi piedi, ora calmo.
La luce illanguidiva all’orizzonte, il tramonto era sul punto di consumarsi e gli eta deambulavano per il terreno incolto ammucchiando cadaveri di entrambi i fronti sugli stessi carri. Nozomi percorse con lo sguardo tutto il campo e scosse la testa, gesto che dimostrava che la resistenza degli sōhei era stata più efficace di quanto si aspettasse.
Si portò la mano a conca sugli occhi per scrutare il passaggio all’estremità nord della pianura; il signor Fuwa aveva riposto lì tutte le sue speranze di concludere rapidamente la contesa, ma l’incursione era stata un disastro. I monaci gli avevano strappato la gloria di poter annunciare a Oda Nobunaga che il monte Hiei era caduto in un giorno. Nozomi aveva potuto ascoltare di prima mano la testimonianza di Kudō Kenjirō quando fu chiamato al cospetto dei generali: il goshi spiegò che i monaci avevano messo un distruttore di province alla difesa del valico. Erano tornati in pochi da quell’assalto fallito, appena venti ashigaru e una dozzina di samurai, compreso il ragazzo.
Mordicchiò il bocchino della pipa, chiedendosi chi aveva potuto fornire alla setta Tendai un’arma simile. Quello era un mistero sul quale sarebbe dovuta tornare più avanti, poiché la sua preoccupazione in quel momento era come sbarazzarsi di un tale e inaspettato ostacolo.
Notò qualcosa sul campo di battaglia che la distolse dalle sue congetture: fra i cadaveri si muoveva un uomo alto e magro, abbigliato con vesti nere. La figura di Martín Ayala era inconfondibile; Nozomi si intrattenne a osservare il gesuita inginocchiarsi accanto a ogni corpo, che fosse amico o nemico, per bisbigliare una breve preghiera. Quando uno dei caduti respirava ancora, il sacerdote si chinava su di lui e gli ungeva la fronte, segnandolo con l’onnipresente croce dei cristiani. Era un triste compito quello, pensò, lo aspettava una lunga notte se voleva fare visita a ognuno dei caduti.
D’improvviso, qualcosa interruppe la sua placida contemplazione. Si tolse il bocchino dalle labbra quando vide il religioso retrocedere bruscamente, cercando di liberarsi da una mano che l’aveva afferrato per un polso. Quando Nozomi capì cosa stava succedendo, lasciò cadere la pipa e si lanciò giù per la collina.
Volò sul sentiero in bilico lungo il crinale sassoso, ignorando il rischio di precipitare contro le rocce. Aveva appena raggiunto la pianura quando il presunto moribondo impugnava una spada corta e afferrava la veste del bateren per trascinarlo a terra. Affidandosi ai bodhisattva, il fanatico spinse la sua empia lama contro la gola di Ayala, ma prima che potesse completare il taglio, una freccia gli spuntò in petto.
La dama Nozomi frenò la sua corsa, ancora lontana dalla scena, ed ebbe il tempo di vedere un secondo dardo attraversare il collo dell’aggressore prima di conficcarsi nel terreno. Con il respiro affannato, cercò il punto da dove provenivano le frecce e trovò Kudō Kenjirō in piedi su un monticello, con l’arco che ormai gli pendeva dal braccio teso.
Fu in quel momento che comprese cosa bisognava fare.
Ayala si svegliò come se un martello gli avesse schiacciato il petto. Agitato, si mise seduto sulla stuoia e inspirò con veemenza, appena riemerso dalle acque turbolente del sogno. Ci mise qualche istante ad accorgersi che stava stringendo le coperte con una forza tale da farsi male alle dita. Ancora sudato, si aprì il collo dello yukata che indossava per dormire e affondò il viso tra le mani, in attesa di riprendere fiato.
«Chi è Junko?» chiese una voce nell’oscurità.
Il gesuita alzò la testa e incrociò gli occhi di Kudō Kenjirō, che lo contemplava da un angolo della tenda. Il samurai, seduto sul pagliericcio, si stava dedicando alla cura della sua katana, che ora riposava sulle sue gambe incrociate.
«Nemmeno tu riesci a dormire?» chiese il bateren.
«Non avete risposto alla mia domanda. Chi è Junko?»
Ayala uscì da sotto le coperte e si accucciò accanto al secchio di acqua fresca. Bevve un paio di volte dal grande cucchiaio e si rinfrescò la faccia e la nuca. Parlò dopo essersi asciugato la barba con il dorso della mano: «Dove hai sentito quel nome?».
«Ora, mentre dormivate, lo ripetevate mormorando. Non è la prima volta che ve lo sento dire in sogno. E al santuario dove ci siamo fermati prima di arrivare a Shima, avete chiesto al sacerdote notizie di una persona con quel nome.»
Il gesuita annuì in silenzio e tornò al suo pagliericcio, stanco. Si sedette con la schiena curva e lo sguardo perso.
«María Auxiliadora, questo è il suo nome cristiano» confessò. «L’abbiamo chiamata così perché l’abbiamo trovata accanto al pozzo della missione durante quella festa, nell’ultima settimana di maggio.» I ricordi sembravano invecchiargli il volto. «Erano giorni di fame a Hirado; avevamo già sentito di contadini che abbandonavano i neonati nei boschi, alla mercé dei lupi. Noi andavamo su tutte le furie, li fustigavamo con il nerbo del rimorso: “Chi abbandona il suo stesso figlio non potrà mai entrare nel Regno dei Cieli”, gli dicevamo… Ma se conoscevi quei villaggi, amico mio, se eri capace di tacere la giusta indignazione che ci spronava e ti disponevi ad ascoltare con raccoglimento… Il pianto di quelle madri al ritorno dai boschi poteva spezzare il cuore a chiunque. Era gente disperata, e la gente disperata fa cose terribili.» Ayala alzò gli occhi fino a incontrare quelli di Kenjirō. «Quindi, come avremmo potuto non prenderci cura di quella bambina… anche se era solo una fra tanti?
L’abbiamo cresciuta tutti insieme, che è come dire che non l’ha cresciuta nessuno. Un bambino ha bisogno di un padre e di una madre, ma noi, che ci facciamo chiamare padri, non siamo capaci di dare un vero senso a questa parola. Non abbiamo trovato una levatrice che la allattasse, poiché le madri avevano appena qualche goccia per i loro figli, così le abbiamo dato latte di capra, anche se i cristiani di Hirado ci condannavano in silenzio perché davamo latte di bestia a una neonata. Eppure, è cresciuta sana, correva per la casa, giocava nell’orto, curiosava in sacrestia e mangiava i resti della cucina.» Un sorriso affiorò alle labbra di Ayala. «Tutti abbiamo dato per scontato che soffrisse di qualche tipo di ritardo, poiché nonostante fosse vivace era silenziosa, quasi muta. Finché non ha cominciato a parlare, e come lo faceva, mio caro ragazzo! In perfetto portoghese tra noi, ma come una bambina di Hirado con i dogici e gli altri giapponesi che frequentavano la missione.
È stato allora che mi sono reso conto che quella creatura non era un peso, ma una benedizione del cielo, poiché era unica, una persona che poteva parlare in modo innato le due lingue. Ho chiesto al principale della missione di potermi prendere cura di lei, ed è rimasta quindi sotto la mia tutela. La prima cosa che ho fatto è stata darle un’educazione, insegnarle a leggere e scrivere, grammatica, metrica, sintassi, latino, astronomia e matematica; e la seconda è stata cercare un tutore di Hirado per lei, qualcuno che le fornisse anche un’educazione giapponese. È stato quell’uomo a imporle il nome di Junko, e così le piaceva farsi chiamare tra i suoi. Con il passare degli anni, la piccola Junko ha dimostrato la sua utilità per la missione: non solo era un’interprete perfetta, ma comprendeva entrambi i mondi. È diventata una maestra per me, e tutto quel che ero riuscito a scoprire da solo, il mio dizionario e la mia grammatica sulla lingua delle isole, mi sono apparsi allora come i goffi tentativi di un cieco. Grazie a lei ho imparato le sfumature della lingua, della scrittura, i caratteri cinesi e le loro inflessioni, mi ha insegnato a pronunciare correttamente, mi ha aiutato a liberarmi della brusca goffaggine che caratterizza i nanban… O almeno ci ha provato.
In poche parole: mi ha portato dove non sarei mai arrivato da solo. È stata la mia discepola e la mia mentore, e sono stati anni felici. Finché non ci hanno inviati a Shima. Su quell’isola tutto è cambiato… Ci siamo dovuti separare e io sono tornato nella mia terra, il più lontano possibile da queste coste.» Lo sguardo di Ayala finalmente tornò a questo mondo. Trattenne il respiro per un istante, pensando a cos’altro poteva dire, e poi concluse: «Ecco chi è Junko».
Kenjirō annuì vagamente angosciato. Quell’uomo si era aperto con lui, ma ora non riusciva a rispondergli se non con un lungo silenzio.
«E tu invece?» volle sapere il gesuita. «Non hai detto niente da quanto sei tornato dalla battaglia, ma ieri sei stato testimone di molto dolore e molte morti. Nessuno può uscire illeso da un’esperienza del genere.»
Il samurai abbassò gli occhi sul fulgore liquido della sua spada. Per un istante sembrò ignorare la domanda, ma alla fine rispose: «Per anni ho sentito parlare mio padre e mio zio della guerra, tra loro quando bevevano il sakè, e con noi quando cercavano di prepararci all’eventualità. Erano entrambi convinti che i primi a morire sono sempre gli stessi: coloro che hanno troppa paura per lottare e coloro che sono troppo agitati per farlo. “Né così lento che la morte ti raggiunga, né così veloce da raggiungere la morte” ci dicevano. Mio fratello e io li ascoltavamo e facevamo gli scongiuri per non essere fra i primi a cadere: se dovevamo morire, l’avremmo fatto dopo aver battagliato molto, lasciando questo mondo in modo glorioso. Ieri però, quando ci siamo addentrati in quel valico e la cavalleria sōhei ci è piombata addosso, ho capito che non sarei uscito da lì sulle mie gambe. E per quanto possa sembrare strano, quella certezza è stata una liberazione. Ho trovato una pace estranea alla paura e alla disperazione che mi circondavano. È stato per questo che sono arrivato a vedere la fine di quella giornata; non per la mia abilità né per la mia temperanza, ma perché mi vedevo già morto.» Kenjirō cercò lo sguardo di Ayala. «Difficilmente sopravvivrò a questo scontro. La mia mente l’ha accettato, ma il mio corpo ancora non lo sa, per questo continuano a pesarmi le braccia e a dolermi i colpi presi.» Si portò la mano al taglio sulla tempia.
Quelle parole si sedimentarono nell’animo di Ayala come sabbia fine. Notò che gli si spezzava il fiato e gli si inumidivano gli occhi, pentito di aver trascinato il ragazzo in quella situazione. Poiché se anche avessero finalmente trovato lì gli assassini dei suoi fratelli, se anche l’ordine di giustiziarli fosse stato perpetrato da quella stessa montagna, non c’era risposta o confessione che valesse la vita di un altro buon uomo. Kudō Kenjirō era stato mandato a proteggere la sua vita, e nella sua arroganza lui aveva accettato che fosse così, quando l’unica certezza agli occhi di Dio, ciò che lui stesso avrebbe dovuto comprendere fin dall’inizio, è che la vita di quel ragazzo dipendeva da lui, e non il contrario. Kenjirō ora sarebbe stato con la sua famiglia se non fosse stato per i padri cristiani e le loro faccende, e non doveva esserci per lui altra priorità che riportarlo sano e salvo alla casa che non avrebbe mai dovuto abbandonare.
Aveva raggiunto quella risoluzione quando l’inaspettato rumore delle tende lo distrasse da tali pensieri: la dama Nozomi, la spia personale di Fuwa Torayasu, era piombata nella tenda indossando un’armatura leggera. Dedicò un breve inchino ad Ayala prima di rivolgersi al giovane guerriero: «Saluti, Kudō Kenjirō, figlio di Kudō Masashige». Attese che l’interpellato le ricambiasse la cortesia, ma questi si limitò a contemplarla con sdegno. Nozomi sorrise, lungi dal sentirsi offesa: «So che non ti ispiro alcuna fiducia, e questo forse dice qualcosa del tuo buonsenso, ma nella guerra i nostri migliori alleati non devono per forza essere i nostri migliori amici».
«Che cosa vuoi da me?» si limitò a rispondere Kenjirō.
«Ieri hai dichiarato di fronte ai generali che sei riuscito a vedere in che punto si trovava il distruttore di province, non è così?»
«Per un attimo sono riuscito a vedere il lampo della detonazione tra le fronde.»
«In questo caso, forse abbiamo qualche possibilità di distruggerlo, ma prima di comunicare il mio piano a sua signoria ho bisogno di sapere se sei disposto a dare la vita per questa causa.»
Kenjirō non esitò nemmeno. Annuì con un’espressione grave.
«Preparati per la battaglia, allora. Non abbiamo molto tempo se vogliamo approfittare della bruma del mattino» lo incitò la donna. «E fa’ in modo di essere in pace con tutti gli dèi e di scrivere il tuo jisei, poiché la cosa più probabile è che il monte Hiei oggi sarà la nostra tomba.»
Kenjirō attraversava il campo di battaglia in sella al suo cavallo, una figura solitaria nell’alba oscura, avanzando tra stendardi strappati e cadaveri ammucchiati come legna secca. La nebbia che si estendeva dalle rive del fiume Biwa conferiva un aspetto spettrale alla scena, e per qualche istante gli parve di essersi lasciato alle spalle questo mondo per calpestare le valli dell’inferno. Avevano avvolto gli zoccoli del cavallo con delle fodere di canapa, in modo che l’unico rumore udibile erano gli sbuffi dell’animale e lo svolazzare dei corvi che si accorgevano della sua presenza. Alzavano la testa e lo osservavano con brandelli di cadavere nel becco; appena il cavaliere si allontanava, tornavano al loro festino con beccate spasmodiche.
Era diretto all’ingresso del passo di montagna e, man mano che si avvicinava a quel luogo maledetto, cominciarono a sollevarsi intorno a lui i lamenti dei moribondi, il cozzare delle armi, la scarica degli archibugi e il nitrire dei cavalli… Finché l’ululato di una freccia kaburaya non gli mozzò il fiato. Inconsciamente, alzò la testa verso il cielo, dove non vide altro che la densa oscurità che incombeva dietro le nuvole. Il suo cavallo sgroppò nervoso, contagiato dall’angoscia del cavaliere, e Kenjirō si chinò su di lui per dargli una piccola pacca sul collo: «Ssst, siamo soli» tranquillizzò l’animale, parlando però anche per se stesso, cercando di scongiurare i fantasmi che gli confondevano la mente e gli comprimevano lo stomaco.
Si concentrò sul suo percorso e non tardò a riconoscere i rilievi e le cicatrici del paesaggio: camminava sulle orme del giorno precedente, e così proseguì finché una bandiera rossa non si alzò nella bruma. Ondeggiò un paio di volte e poi sparì di nuovo. Kenjirō smontò da cavallo e cominciò a camminare quasi accosciato, tirando dolcemente la cavezza verso il punto d’incontro. Dopo poco, un uomo emerse dalla nebbia e si avvicinò a lui con la bandiera in mano; Kenjirō notò che, poco più avanti, diversi soldati si accalcavano in una fossa. Più oltre c’era un altro gruppo nascosto dietro una montagnetta, e altrettanti soldati distesi nel letto secco di un ruscello. Quanti potevano essere in totale? Quindici? Venti, forse?
«Dov’è la signora Nozomi?» chiese a voce bassa, consegnando le redini del suo cavallo all’ashigaru che gli era andato incontro.
Il soldato indicò una collina che si elevava nelle vicinanze, segnando l’ingresso del valico di montagna.
«Salite da questa parte, è probabile che ci siano vedette appostate nella gola.»
Kenjirō lo ringraziò per il consiglio e si diresse verso il pendio, cercando sempre la copertura della bruma e dei dislivelli nel terreno. Cominciò a inerpicarsi su per la terra secca, aggrappandosi agli arbusti e calpestando una distesa di ghiaia che si staccava sotto i suoi passi. Se c’era un sentiero che scalava quella collina, era impossibile trovarlo in quella notte nuvolosa. A poco a poco, dopo aver incespicato varie volte ed essersi ammaccato le mani, raggiunse la cima, e lì trovò la comandante, stesa a pancia in giù, che scrutava l’oscurità attraverso uno strano cilindro.
«Cosa c’è dentro quel tubo?» chiese, stendendosi accanto a lei.
Nozomi sorrise e si allontanò il marchingegno dal viso.
«Guarda tu stesso.» Glielo porse senza distogliere gli occhi dal valico di montagna.
Appena lo prese in mano, Kenjirō seppe che era fatto in ottone, quel metallo che piaceva tanto agli stranieri. Avvicinò l’occhio all’estremità e cercò di vedere qualcosa attraverso quel vetro spesso.
«Qui dentro non c’è altro che oscurità.»
«Non cercare di vedere cosa c’è dentro, ma dall’altra parte. Sollevalo verso le colline.»
Kenjirō lo fece e cominciò a intravedere le affilate forme delle colline che si estendevano al lato opposto della gola, ma così vicine da sembrare alla portata della sua mano. Stupito, si scostò dallo strumento e lo osservò completamente sconcertato. Subito dopo, riprese a guardare attraverso il tubo, ancora incredulo.
«Sorprendente, vero? È un marchingegno molto apprezzato dai marinai nanban. L’effetto ottico è provocato dalle lenti che si trovano alle due estremità» spiegò l’agente di Fuwa, con la soddisfazione di chi svela un complesso gioco di prestigio.
«E sei riuscita a trovare qualcosa con l’aiuto di questo strumento?»
«No» mormorò. «È troppo buio e gli sōhei sono diffidenti come ratti, non hanno acceso falò né lanterne. Sono riuscita solo a individuare alcuni uomini che stanno pattugliando il crinale opposto.»
Kenjirō attese che la luna fosse di nuovo coperta, quindi si alzò in piedi per dare un’occhiata alle profondità del valico di montagna. Le pareti scoscese e i colli presero forma all’interno del cilindro di metallo; riconobbe l’ansa dietro la quale si erano fatti sorprendere dalla cavalleria, il pendio lungo il quale i cavalieri erano caduti su di loro come una valanga di rocce e, prendendolo come riferimento, sollevò la lente fino al nascondiglio che aveva creduto di intravedere durante la battaglia. Sulle prime non riuscì a distinguere nulla, la vista sempre più confusa, ma dopo aver sbattuto le palpebre un paio di volte, il suo occhio cominciò a individuare qualche sfumatura in più. Sì, era lì.
Si trattava di una collinetta non troppo elevata rispetto al terreno, ma distante dalle parenti del valico, quasi a interrompere il percorso. Il mostruoso cannone era stato coperto dagli arbusti, ma la presenza di uomini tutto intorno ne rivelava chiaramente la posizione. Kenjirō contò non meno di venti soldati ai piedi del rilievo, stesi su dei pagliericci, e altri otto in cima. Solo uno era in piedi a montare la guardia.
«Lì» indicò con il dito, passando l’aggeggio a Nozomi.
La donna lo afferrò e cercò ciò che il giovane samurai aveva visto, ma non riuscì a distinguerlo finché non fu Kenjirō stesso ad aiutarla a orientare lo strumento.
«Per tutti i demoni di Jigoku» imprecò lei. «Sono astuti. Hanno cercato un punto non troppo in alto e al centro, in modo da poter fare fuoco su tutto ciò che arriva attraverso il valico. Se sparassero da una collina troppo elevata, la palla di ferro si conficcherebbe a terra e non rotolerebbe.»
«Averlo trovato non cambia nulla» disse Kenjirō. «Se ci avviciniamo attraverso il valico, ci vedranno in lontananza. E se proviamo a raggiungerlo dalle colline che fiancheggiano la gola, incroceremo i loro soldati di pattuglia.»
«L’obiettivo non è sorprenderli, ma riuscire ad avvicinarci» spiegò la dama Nozomi, sedendosi a terra.
«Che cosa vuoi dire?»
Invece di rispondere, la spia di Fuwa prese il coltello e ne poggiò la punta a terra: «Ieri ti ho visto usare l’arco con maestria» commentò in tono casuale, mentre tracciava una serie di linee sul terreno. «Ho ancora un dubbio, hai mai tirato da un cavallo al galoppo?»
«È un’arte difficile.»
«Certo, lo è. Ma mi pare di aver capito che tuo padre ti abbia istruito come i samurai di una volta: arco a cavallo e spada.»
«Ha sempre pensato che i fucili fossero inutili.»
«Capisco, un tradizionalista.»
«Un uomo pratico» la corresse Kenjirō: «Nella nostra valle cresce il bambù con cui fabbricare archi e frecce, ma non cresce la polvere da sparo».
Nozomi annuì, divertita dalla sfacciataggine del giovane guerriero.
«La polvere da sparo, tuttavia, ci sarà molto utile qui. Osserva, quello è il nascondiglio del cannone.» Indicò uno dei segni che aveva tracciato a terra. «Un distruttore di province è in grado di sparare proiettili fino a due kan e mezzo di peso. Sai quanta polvere da sparo è necessaria per muovere tanto ferro?» chiese con fare retorico. «Non lo so nemmeno io, ma ti assicuro che è molta.»
«Vuoi far scoppiare i barili di polvere che probabilmente hanno nascosto vicino al cannone.»
«Esatto. Con questa.» Nozomi gli mostrò un fardello di tela lungo e fine. Lo posò a terra fra loro e svelò quel che conteneva: una freccia più lunga del normale, ornata con una piuma di fagiano all’estremità e con la punta avvolta in una tela sporca di grasso. Mandava un odore intenso, nauseabondo.
«Che cos’è?» chiese Kenjirō, che già poteva immaginarlo.
«È una freccia incendiaria, la punta è avvolta nella stoppa e bagnata con un olio a combustione lenta, un miscuglio quasi impossibile da estinguere. La mia gente la usa per provocare incendi.»
«Arguzie da shinobi» grugnì Kenjirō, senza nascondere il proprio disprezzo.
«Arguzie che potrebbero farci risparmiare molte vite.»
«E tu vorresti che io conficcassi una di queste frecce in un barile di polvere di sparo.»
«Non una di queste frecce: questa freccia» enfatizzò Nozomi. «Ci mette parecchio ad accendersi, e dovrai tenerla in mano mentre galoppi. Se sbagli il colpo, non avrai tempo di prepararne una seconda.»
«E perché solo io? Potremmo caricare con più arcieri. Dieci, quindici, qualcuno andrebbe a segno.»
«Davvero credi che il signor Fuwa metterebbe un’unità di cavalleria a disposizione di questo piano? No, samurai,» la donna sorrise con condiscendenza «saremo solo noi due e i diciannove ashigaru che vedi lì sotto. Se il mio piano dovesse fallire, il nostro esercito praticamente non avrà subito perdite.»
«Capisco.» Kenjirō abbassò lo sguardo sulla freccia preparata dalla dama Nozomi. Lo metteva a disagio seguire i piani di una donna, di una kunoichi, furba e bugiarda come tutti gli shinobi.
Gli era già capitato di scoccare delle frecce infuocate, ma non sofisticate come quella. Anche in tali occasioni, però tutto dipendeva da un unico colpo: le vespe nei campi di Anotsu sono feroci e, quando bisognava dar fuoco a un nido, lui e suo fratello si avvicinavano al galoppo e sparavano da lontano. Se il tiro andava a segno, la freccia si conficcava nell’alveare e il fuoco faceva il proprio lavoro mentre loro fuggivano dagli insetti. Non era molto diverso, si disse, salvo che qui avrebbe dovuto colpire al buio, quasi alla cieca. E che i proiettili degli sōhei volano più veloci delle vespe, certo.
«Come credi che faremo ad avvicinarci tanto? Un tiro come quello non si può fare da più di un cho di distanza.»
«Ci infileremo nel valico, in silenzio e al riparo dalla nebbia. Procederemo attaccati al fianco destro, sotto le colline più pattugliate, in modo che le sentinelle non riescano a vederci. Quando raggiungeremo l’ansa dove siete stati attaccati, resteremo completamente esposti alla base del cannone, ma saremo già in grado di lanciare un attacco frontale.»
«È troppo lontano per andarci a piedi, non raggiungeremo la collina» disse Kenjirō.
«Basta che la raggiunga tu, samurai. Loro ti faranno da scudo finché non ti troverai a quel cho di distanza.» Nozomi tracciò con il coltello una linea che andava dall’ansa al cerchio che rappresentava il nascondiglio del cannone. «Allora procederai a cavallo e avrai bisogno solo di una freccia. Una freccia e il colpo più sicuro che tu abbia mai scoccato in vita tua.»
Kenjirō scosse leggermente la testa, restio a prendere per buona una simile follia.
«Hai visto cosa è in grado di fare quella mostruosità sugli uomini? Io sì. Con un solo colpo può spazzare via tutti i tuoi ashigaru. Non riusciremo ad avvicinarci nemmeno a quattro cho.»
«È possibile, ma solo se avanziamo mantenendo una formazione chiusa. La mia intenzione, invece, è di disporre gli ashigaru a ventaglio, un fronte di diciannove uomini con noi a cavallo dietro. In quel modo, potremmo ridurre l’efficacia del distruttore di province, il proiettile raggiungerebbe uno o due uomini al massimo. È vero che poi dovremmo vedercela con gli archibugieri che difendono la base e che i loro spari faranno una strage contro una formazione a ventaglio. È possibile che abbattano i miei diciannove uomini con la prima raffica, ma l’importante è che tu rimanga protetto dietro di loro. Quando i fucilieri si appresteranno a ricaricare, tu avrai tempo di lanciarti al galoppo e avvicinarti a sufficienza per tentare il colpo.»
Kenjirō contemplò le linee che graffiavano il terreno, descrivendo una manovra che sembrava assurda.
«È un piano folle» disse alla fine.
«E imprevedibile» aggiunse la donna, decisa. «Proprio per questo ha delle possibilità.»
«Al costo della vita di diciannove uomini che non hanno scelto di morire qui.»
«Nessuno sceglie di morire, Kudō Kenjirō. Non c’è uomo o donna, contadino o gran signore, che abbia vissuto vent’anni oppure ottanta, che non sia convinto che la morte arriva troppo presto. Cerchiamo, almeno, di fare in modo che la nostra abbia un senso.»