Ayala pregava in ginocchio sul pagliericcio, con il mento incollato al petto e le dita intrecciate fra i grani del rosario di sua madre, lo stesso che aveva consegnato a Kenjirō in vista della prima battaglia. Dopo che l’ashigaru gli aveva riportato la reliquia, il samurai gliel’aveva restituita scusandosi: il rosario aveva fatto ritorno al suo legittimo proprietario, quindi tenerlo per sé gli avrebbe solo portato un pessimo karma. Il gesuita, estraneo a tali superstizioni, era comunque grato per il contatto familiare con i grani di legno, che ora stringeva uno a uno, cercando di dissipare la propria inquietudine sotto il peso delle avemarie.
Finché l’esplosione non fece tremare il suolo e ondeggiare la tenda sopra la sua testa. Aprì gli occhi, allarmato, posò una mano a terra per reggersi, in cerca della vibrazione che preconizzava l’arrivo di un temporale. Il silenzio che sopraggiunse gli fece comprendere che la causa di quella scossa non si trovava sottoterra.
Posseduto da un’improvvisa premura, si alzò in piedi e si gettò il mantello sulle spalle. Uscì dalla tenda e si guardò intorno con occhi ansiosi: molti altri cominciavano ad affacciarsi, ma tutti sembravano confusi quanto lui. Un mormorio cominciò a percorrere l’interno accampamento mentre le dita indicavano la colonna di fumo che si alzava contro il cielo, inghiottendo le stelle. Lo splendore di un fuoco lontano faceva sfumare la notte dando volume alla crescente nube di cenere.
Ayala si avvolse nel mantello e si incamminò verso il posto di comando, facendosi strada con quelle sue tipiche ampie falcate. I lancieri ai piedi della collina esitarono nel vederlo arrivare: sapevano che quell’uomo era benvenuto al cospetto del loro signore, che il resto dei generali lo trattavano con il rispetto che si deve a un uomo santo, ma non erano certi che potesse penetrare quando meglio credeva nel circolo privato del daimio. Ayala si limitò a continuare per la sua strada, spronato da un’urgenza che sembrava conferirgli l’impeto e l’autorità di un emissario imperiale. Quando arrivò al posto di comando in cima alla salita, la guardia personale di Fuwa non esitò a sbarrargli il passo, ma un ufficiale si accorse della sua presenza e gli si avvicinò, facendo cenno alle guardie di spostarsi.
Il gesuita lo riconobbe come Saigo Tesshu, uno dei samurai che accompagnavano sua signoria durante la visita all’ospedale di Shima. Ayala lo salutò con deferenza prima di interrogarlo sull’accaduto.
«Sembra che l’unità comandata dalla dama Nozomi abbia fatto saltare in aria la polvere da sparo nemica, il passaggio a nord di Hiei è finalmente aperto.» E, colpendosi il palmo con il pugno guantato, aggiunse: «È ora di schiacciare quei blasfemi!».
«E gli uomini che sono partiti con Nozomi-san?» chiese Ayala, ignorando il fervore guerriero del samurai.
«Uomini coraggiosi» disse Saigo, facendosi il segno della croce. «Requiescat in pace» mormorò, impiegando la formula utilizzata dai bateren.
Il samurai si congedò per unirsi ai suoi compagni e il gesuita rimase in disparte, afflitto per ciò che aveva appena sentito. La morte di quegli uomini era una certezza o solo una supposizione? Con quel dubbio conficcato in gola, si addentrò nel perimetro delimitato dagli stendardi bianchi.
Tutti gli ufficiali di Fuwa erano lì riuniti, vestiti con le armature da combattimento nonostante il sole non fosse ancora sorto. Si respirava una contenuta soddisfazione che intiepidiva la notte e infiammava lo spirito, un’emozione sconosciuta per Ayala, che scivolava fra quegli uomini come un soffio d’aria gelida. Avanzava verso lo spiazzo dal quale aveva celebrato la sua presunta messa, poiché gli sembrava il miglior punto da dove distinguere qualcosa in lontananza. Non fu sorpreso di trovare lì il signor Torayasu, scortato da due uomini che eseguivano solleciti le sue istruzioni mentre il daimio indicava la pianura di fronte a loro.
Più in basso, gli ashigaru e i samurai che li comandavano si riparavano nell’oscurità del campo di battaglia. Dormivano lì, mantenendo le file, proteggendosi con delle coperte di paglia, poiché dormire nell’accampamento era un privilegio riservato agli ufficiali e ai loro domestici. Nonostante fossero distesi Ayala poté notare come si agitavano inquieti, con le armi alla mano mentre cercavano di intuire la reazione del nemico, in agguato all’altra estremità della pianura.
«Fuwa-sama» disse infine, osando interrompere il daimio. Questi si voltò leggermente, sorpreso di vederlo lì. «Mi dicono che la dama Nozomi ha avuto successo nella sua missione.»
Fuwa annuì con prudenza: «Abbiamo inviato degli esploratori per assicurarcene».
«Mi piacerebbe essere informato non appena si saprà qualcosa.»
«Volete dire quando sapremo se il vostro goshi è sopravvissuto» puntualizzò Fuwa, spostando lo sguardo verso la pira che si elevava dal valico di montagna. «Così sarà, ma se fossi in voi non avrei troppe speranze, padre. Sia lui che Nozomi sapevano che si trattava di un viaggio dall’improbabile ritorno.»
Ayala assentì in silenzio; non aveva altro da dire, quindi si congedò scusandosi e si allontanò a testa bassa, con la sensazione che quel fuoco, nonostante ardesse in lontananza, gli consumasse il respiro.
Fu tentato di tornare alla sua tenda, dove avrebbe potuto sopportare in silenzio la propria afflizione, ma si disse che doveva restare lì finché glielo avessero permesso, obbligandosi a mantenere un contegno fino a quando non fosse stata confermata la notizia che tutti davano già per certa.
Per questo fu uno dei primi a scorgere l’emissario che correva su per la collina annunciando l’arrivo di un cavaliere: «Fate spazio, fate spazio!» gridava quell’uomo, finché lui stesso non fu costretto a gettarsi da una parte davanti alla veemente irruzione di cavallo e cavaliere. L’animale nitrì e rampò con violenza quando le redini lo strattonarono bruscamente. Diversi uomini si avvicinarono per controllare il cavallo; quando questi smise finalmente di scalpitare, la persona che gli stava in groppa si liberò con cura del pesante fardello che portava. Ayala, che osservava la scena da una certa distanza, tardò qualche istante a capire che quel cavaliere coperto di cenere era Nozomi, e che il fardello che aveva appena depositato a terra era il corpo di Kenjirō.
Si fece strada a spintoni, scostando domestici e samurai fino a inginocchiarsi accanto al suo yōjinbō. Si sentì svenire nel vedere il corpo inerte del giovane, con i capelli induriti dal sangue e dalla fuliggine, gli occhi chiusi e l’armatura distrutta. Eppure, sul suo volto non c’era alcun segno di sofferenza, ma la serena espressione di chi era in pace con se stesso.
Con tutta la delicatezza che le sue mani tremanti gli concedevano, Ayala lo fece sedere e lo abbracciò stretto. Cominciò a dondolarlo leggermente, come un padre culla un figlio, e non alzò nemmeno lo sguardo quando la donna smontò lì accanto. Affranto per la rabbia e il dolore, il sacerdote non volle chiedere che cosa era successo, poiché sapeva che la voce gli si sarebbe spezzata prima di riuscire ad articolare una sola parola.
Non pianse, tuttavia, finché non notò che il corpo che stava abbracciando tremava lievemente. Atterrito, cercò il volto del ragazzo, ancora inespressivo, e gli scostò con cura le ciocche di capelli che gli ricadevano sulla fronte. Fu in quell’istante che un sussulto violento gli scosse il petto. Kenjirō cominciò a tossire e a sputare terra e cenere, e il gesuita, sconvolto da quel miracolo, riuscì solo ad alzare la testa e a ululare per chiedere dell’acqua: non lo fece in giapponese, parlava in castigliano. Eppure, come se potesse capire quella strana lingua, la dama Nozomi si affrettò a inginocchiarsi accanto a Kenjirō e gli portò alla bocca una borraccia di bambù.
Il goshi reagì al contatto con l’acqua sulle labbra e bevve con ansia, finché un nuovo attacco di tosse lo obbligò a tirarsi su. Appoggiò le mani a terra e sputò con forza tutta la sporcizia che i suoi polmoni rigurgitavano. Ayala, inginocchiato accanto a lui, lo osservava con una sensazione di sollievo che non avrebbe mai creduto possibile, coprendosi la bocca con l’avambraccio mentre cercava di contenere i singhiozzi.
«Che succede qui?» esclamò Fuwa Torayasu, al quale i samurai facevano strada.
Nozomi si avvicinò e abbassò il ginocchio a terra, colpendosi il petto con devozione: «O-tono!, è fatta.» Cercò con lo sguardo Kenjirō, che tentava di mostrare un certo contegno davanti al daimio. «Il signor Kudō ha mantenuto la mano ferma e scoccato una freccia proprio al cuore del nemico. Se non fosse stato per la sua temperanza, i miei ashigaru sarebbero morti invano. Stavo dando per spacciato anche lui quando ho visto il suo corpo accanto al fuoco; sono riuscita a recuperarlo solo quando la cavalleria Tendai si stava già gettando al galoppo giù per la montagna.»
Fuwa rivolse uno sguardo a Kenjirō, che era riuscito a inginocchiarsi in modo degno e chinava la testa di fronte a lui. Il daimio assentì prima di dire: «Che sia il mio medico a occuparsi di quest’uomo. Dio ha guidato la sua mano, merita di contemplare il momento della vittoria.»
Hara-sensei si chinò sul suo paziente e cominciò a tagliare i lacci dell’armatura. A ogni strattone, Kenjirō stringeva i denti, trattenendo i grugniti di dolore che gli riempivano la bocca. Quando tutti i nodi furono sciolti, il medico ritirò i pezzi uno a uno, con attenzione, finché con una lametta non riuscì a grattar via l’haori e il kimono che c’erano sotto. Quando ebbe finito di svestirlo, riempì una brocca in un secchio di acqua calda e cominciò a lavar via la polvere e il sangue secco. Sotto la sporcizia apparvero la pelle raggrinzita e le lacerazioni. Quando tutte le ferite furono allo scoperto, Hara-sensei si dedicò a esaminare le braccia tumefatte e i tagli sulle costole. Palpò il paziente anche sotto i capelli, per verificare che non ci fossero tagli sul cuoio capelluto, ed esaminò con una lampada il sangue che perdeva dalle orecchie.
«Riesci a sentirmi?» chiese, cercando lo sguardo del giovane samurai. Questi annuì in silenzio. «Senti qualcos’altro?»
«L’esplosione mi si è conficcata in testa.» Kenjirō tossì, il risultato dello sforzo di parlare con la gola secca. «Ci sento, ma è come se avessi il vento che mi rimbomba costantemente nelle orecchie.»
Il medico si ravviò la fine barba che aveva sul mento che, agli occhi di Kenjirō, gli conferiva l’aspetto di quei saggi cinesi che si vedono nei dipinti dei bonzi. Alla fine, schioccò le dita e il ragazzo che gli faceva da assistente gli porse dell’acqua pulita e un asciugamano perché potesse lavarsi.
«Avete già finito, maestro?» chiese Ayala da un angolo.
Insieme al gesuita c’era la dama Nozomi, che non aveva voluto separarsi dal suo compagno d’armi prima di assicurarsi che non avesse ferite troppo gravi. Entrambi avevano osservato le evoluzioni del medico dalla penombra della grande tenda di Fuwa-sama.
«Ha del sangue sotto pelle, ma è presto per dire se sia penetrato internamente fin nelle viscere» disse Hara-sensei. «Per il resto, respira bene ed è lucido, segno che il suo flusso di energia è equilibrato. Ha gli occhi danneggiati, ma ci sente e non credo che peggiorerà. Dovrà coprirsi le orecchie con dei panni bagnati in acqua di iris, perché nessun male vi penetri, e applicare della cenere di moxa sulle zone tumefatte. Il mio assistente si occuperà di preparare il trattamento e passerà fra poco per applicarglielo. Io lo visiterò di nuovo domani.» E, rivolgendosi a Nozomi, aggiunse: «Signora, ora dovrei visitare anche voi. Ci sono ferite profonde che non appaiono finché il corpo non si raffredda, in molti si sono allontanati dal campo di battaglia sui loro piedi per poi morire la notte stessa durante il sonno».
«Non sarà necessario, maestro. Vi assicuro che sopravvivrò a questa notte. Ho ancora del lavoro da fare.»
Il medico non volle insistere, poiché il temperamento di quella donna era più che conosciuto.
«Grazie, Hara-sensei.» Ayala fece una riverenza mentre il medico e il suo aiutante si congedavano.
«Credo che sia ora di andare anche per me,» disse allora Nozomi «ma prima…» Esitò per un istante. «Padre, permettetemi una piccola indiscrezione: quella croce, che cosa significa?»
Il sacerdote portò la mano al rosario che aveva appeso al collo: non se ne era separato per tutto il giorno, da quando l’esplosione del mattino aveva interrotto le sue preghiere. Sul suo petto, tra i grani del rosario, pendeva la croce a tre bracci di cui sua madre era stata così devota, spezzata dalla battaglia.
«È la croce di Caravaca, molto venerata nella regione da cui proviene la mia famiglia materna.»
«Ha una forma curiosa.»
«È comunque la croce di nostro signore Gesù Cristo, ma capisco che attiri la vostra attenzione, non è così frequente vederla.»
«Eppure, credo di averla vista da qualche altra parte» disse la spia.
Ayala abbassò la testa, come se temesse che il suo sguardo potesse rivelare più del dovuto.
«Ne dubito. È probabile che questa sia l’unica che c’è in queste terre… Anche se un tempo ce n’è stata un’altra» aggiunse.
«C’è stata? Ora non più?»
«Una persona a me molto cara desiderava una croce come questa, così ho chiesto a un artigiano di Hirado di intagliarne una simile. Ma è stato molti anni fa, la croce deve essersi ormai persa e quella persona non ricorderà nemmeno il mio nome.»
«Capisco. Mi dispiace farvi rivivere ricordi dolorosi.»
Il gesuita cercò di abbozzare un sorriso che scongiurasse la sua improvvisa malinconia.
«Spesso, il dolore è tutto quello che ci resta dei momenti felici. Non vi preoccupate.»
La dama Nozomi annuì con una sommessa riverenza e si ritirò, lasciandolo da solo.
«Come stai?» chiese allora il religioso.
«Ora che lei è andata via, meglio» rispose Kenjirō senza aprire gli occhi, cercando di sottrarsi allo sfinimento che lo attirava verso l’incoscienza. «Una donna non dovrebbe vedere un uomo ferito e nudo.»
Ayala rimase in silenzio, soppesando le parole che stava per pronunciare.
«Ascolta, Kenjirō, ho deciso che, quando starai meglio, torneremo indietro. Tu farai ritorno a casa e io a Nagasaki, a informare del mio fallimento.»
Il guerriero aprì gli occhi, incredulo: «E perché mai dovremmo fare una cosa simile? Non abbiamo ancora trovato l’assassino».
«E che cosa abbiamo ottenuto con questo viaggio? Solo altro dolore e morte. Ti ho trascinato per questi sentieri in una missione che non ti appartiene e che non ha aiutato affatto la comunità cristiana di queste terre. Non ho diritto di continuare a tenerti lontano dalla tua vita.»
«I saggi dicono che c’è solo un peccato più grave di non seguire la strada della verità, ed è non seguirla fino in fondo» rispose Kenjirō.
Ayala sospirò, abbattuto.
«Non sappiamo nemmeno se gli uomini che difendono questa montagna hanno qualcosa a che vedere con la morte dei miei fratelli.» Corrugò la fronte. «E se anche così fosse, perché dovrebbero confessarlo? Perché dovrebbero aiutarci a trovare l’assassino?»
«Ayala-sensei, né suo padre né il mio avrebbero mai voluto vederci in guerra; eppure, qui ci hanno portato i nostri passi. Le ragioni di questo viaggio non ci appartengono, noi apparteniamo al viaggio. Nessuno può sfuggire dal proprio destino.»
Il gesuita gli rivolse uno sguardo sconfitto.
«Riposa, figlio mio. Dobbiamo tornare a casa, e sarà un lungo viaggio.»
Fuwa Torayasu fece chiamare i suoi ospiti prima che calasse la sera. Kenjirō, che insisteva a farcela da solo, si coprì le gambe con l’hakama e sopra il kimono indossò l’haori blu con lo stemma del clan Oda. Si fissò in vita le due spade della sua famiglia e lasciò la tenda seguendo i passi di padre Ayala, come ci si aspettava da uno yōjinbō .
Li condussero fino alla terrazza dove si trovavano il daimio e i suoi generali durante la contesa. Il gesuita fu invitato a sedersi accanto a Fuwa-sama e a Kenjirō fu permesso di restare in piedi alle sue spalle, accanto alla guardia personale del signore di Takatsuki. Solo quando le formalità furono concluse, il giovane goshi si accorse della presenta della dama Nozomi, in disparte, che lo salutò con un cenno del capo. Sembrava soddisfatta di vederlo in piedi.
«Osservate quella montagna, padre Ayala» disse il daimio, indicando con il ventaglio la grande mole dall’altra parte della pianura sulla quale erano schierati entrambi gli eserciti, immobili per tutta la giornata. «Secoli fa, l’imperatore Shirakawa disse che solo tre cose sfuggivano al suo controllo: “Le acque del Kamo, la caduta dei dadi e i bonzi del monte Hiei”». Fuwa Torayasu sorrise. «Oggi toglieremo una cosa dalla lista.»
Il signore della guerra prese da un vassoio uno dei ventagli che gli venivano porti, lo sollevò e, con un gesto energico, indicò alla sua destra, verso il pendio nord della montagna. Le voci degli ufficiali sul campo si innalzarono sulla pianura e le truppe di Fuwa si misero in movimento: i lancieri ashigaru avanzarono nelle prime posizioni, mentre la fanteria samurai e gran parte della cavalleria si staccava dal grosso dell’esercito e si muoveva verso nord, in direzione della fumante colonna che ancora si ergeva nei pressi del valico di montagna.
Ayala, nonostante la sua ignoranza nelle faccende militari, capiva quanto era rischiosa quella manovra, poiché la metà delle forze di Fuwa, niente meno che l’élite delle sue truppe, cominciava a ritirarsi dal campo di battaglia. Tra loro e i feroci guerrieri sōhei erano rimasti soltanto un paio di battaglioni di fanteria che ora sembravano fragili e scomposti, troppo risicati davanti alla necessità di occupare tutto il fronte. I generali che circondavano Ayala, tuttavia, sembravano sicuri di quel che facevano.
«Qualcosa vi preoccupa, padre?» chiese Fuwa, condiscendente.
«Non capisco nulla delle arti guerriere che sono proprie di sua signoria.»
«Eppure, pensate comunque che io stia rischiando troppo per impossessarmi di quella gola e penetrare finalmente nelle viscere del monte Hiei. Credete che questa sia la manovra disperata di un generale che pensava di ottenere una vittoria molto più semplice, e che sente ogni giorno che passa come un affronto al suo orgoglio, come un’umiliazione davanti al suo signore.» Fuwa guardò in entrambe le direzioni e trovò il sorriso complice dei suoi generali. «Senza dubbio, questo è ciò che pensano i vermi blasfemi che abbiamo di fronte. Per questo si getteranno alla carica direttamente su di noi, disposti a radere al suolo quel che resta della mia fanteria e a prendere questo posto di comando. Lo faranno perché non sanno che il loro vero destino gli piomberà addosso da sud.» Il daimio indicò con il ventaglio ripiegato delle colline che si innalzavano alla sua sinistra, a meno di un ri di distanza: «Dietro quei pendii sono nascosti da ieri notte duemila samurai di Tsumaki Kenshin, cognato di Akechi Mitsuhide. Quando gli sōhei cominceranno a muoversi, loro faranno altrettanto, e schiacceremo quei cani tra i due fronti».
Ayala osservò le colline che gli erano state indicate, come se ci fosse modo di individuare in lontananza la presunta forza alleata. Inganni su inganni, si disse il religioso, la guerra è l’arte dei menzogneri.
Man mano che il pomeriggio avanzava, i bonzi di Hiei abbandonarono le loro posizioni sparse per la pianura, dove erano rimasti al riparo in attesa di gettarsi in rapide scaramucce contro l’esercito invasore. Ora, tuttavia, cominciavano ad accalcarsi in un solo blocco che rivelava finalmente il loro autentico numero: non meno di quattromila uomini – fra monaci guerrieri, contadini devoti e mercenari – si apprestavano ad affrontare le forze di Fuwa, con la temibile cavalleria della setta Tendai in prima linea. Dovevano essere rimasti in pochi a controllare il passo che, anche senza il distruttore di province, continuava a rappresentare la posizione ideale per difendersi.
Kudō Kenjirō, che contemplava la scena dalla posizione privilegiata di colui che viene ignorato da tutti, notò l’espressione grave di molti generali, e comprese che non avevano previsto che gli sōhei potessero riunire una forza simile. La fanteria che restava per fargli fronte non arrivava ai duemila uomini, per la maggior parte ashigaru, il cui coraggio e allenamento non poteva essere equiparato a quello di un samurai. Forse il signore di Takatsuki si era fidato troppo del ruolo dei suoi alleati… Ma che cosa ne sapeva lui di strategie e battaglie?
Il sole cominciava a scendere quando un grido feroce, quasi folle, si alzò dalle file degli sōhei e quelle quattromila anime empie si lanciarono con fervore sui loro nemici.
«Ora!» gridò Fuwa Torayasu.
Un arciere fece un passo in avanti e scoccò un bengala verso il cielo. La corda schioccò e il proiettile si elevò lasciando al suo passaggio una nitida traccia di fumo solforoso.
Tutti gli sguardi si voltarono verso le colline dove, apparentemente, dovevano essere nascosti i loro alleati. Gli istanti che seguirono furono carichi di muta inquietudine, poiché la carica Tendai divorava la distanza che li separava. A poco a poco, come formiche che spuntano dal suolo, la cavalleria di Tsumaki Kenshin cominciò a discendere dalle colline in lontananza. Non avevano stendardi, né il loro né quello dei clan Oda o Akechi, a cui prestavano vassallaggio; come se volessero nascondere agli dèi e ai santi bodhisattva la responsabilità di quello scaltro attacco agli uomini di Hiei.
«Finalmente!» grugnì Fuwa e, alzando di nuovo il suo ventaglio da guerra, ordinò alla propria fanteria di avanzare.
L’esercito sōhei, sul punto di vedersi intrappolato fra le due cariche, non deviò la marcia. Continuò ad avanzare fino a scontrarsi frontalmente contro la fanteria di Fuwa. La brutalità dell’impatto, le grida dei primi ashigaru schiacciati sotto gli zoccoli e il nitrire degli animali accoltellati coprirono la pianura e risuonarono nitidamente dall’altura che occupavano il daimio e i suoi generali. Ayala si fece il segno della croce, testimone inorridito dalla malvagità dell’uomo, dalla facilità con cui coloro che stavano seduti accanto a lui mandavano altri a morire. Il resto dei presenti, tuttavia, era attento al fianco nord della contesa, là dove gli alleati si stavano precipitando contro il nemico, disposti a fenderne le file e a farli a pezzi sotto il peso delle loro lance.
Non accadde nulla di tutto questo, però, poiché la nutrita ala di cavalleria di Tsumaki deviò gradualmente la propria marcia fino a puntare contro il posto di comando di Fuwa Torayasu.
«Tradimento!» gridò uno dei suoi comandanti, quando tutti cominciarono a prendere coscienza di quel che stava succedendo.
Il daimio balzò in piedi e la sua sedia cadde a terra. Fece un passo in avanti, incredulo, sconvolto da quel truculento scherzo del destino.
«Com’è possibile?» mormorò, mentre intorno a lui si scatenavano la rabbia e la confusione.
I generali cominciarono a chiamare i loro uomini e una campana mandò un segnale d’allarme, ma ogni tentativo di difesa sarebbe stato vano, poiché l’esercito di Fuwa si trovava disperso sulla grande pianura che si estendeva tra il lago Biwa e il monte Hiei. All’accampamento restavano soltanto un centinaio di samurai che dovevano far fronte a una carica di duemila cavalieri.
Kenjirō appoggiò la mano sulla spalla di Martín Ayala: quando il religioso si voltò, tuttavia, la sua faccia non rivelava la paura che ci si sarebbe potuti aspettare, ma una serena accettazione.
«Ayala-sensei, scendete all’accampamento. Forse potrete fuggire mescolandovi con la servitù.»
Il gesuita fece segno di no con la testa: «Resterò al tuo fianco fino alla fine» rispose, stringendo la mano che il ragazzo gli aveva posato sulla spalla.
La dama Nozomi si fece strada fino al daimio, che con espressione alterata scrutava il tradimento che incombeva su di lui.
«Mio signore!» lo chiamò la donna, cercando di allontanarlo da quella visione. «Ho ordinato di far portare qui il vostro cavallo, dovete fuggire con le vostre guardie.»
«No,» mormorò Fuwa Torayasu «devo affrontare le conseguenze delle mie azioni.»
«Dobbiamo scappare e informare Oda di questo tradimento!» esclamò un altro dei suoi generali.
«Oda Nobunaga non tollererà una simile dimostrazione di codardia» rispose il daimio. «Se fuggo, la mia intera casa sarà condannata. Andate voi a informare il Re Demone, io morirò qui.»
«O-tono,» Nozomi si avvicinò fino a trovarsi faccia a faccia con il suo signore «vi prego. Se restate qui, morirete invano. Gli sōhei conficcheranno la vostra testa su una picca, non dovete fare questa fine.»
Gli occhi di Fuwa fiammeggiarono: «No, non lo faranno. La mia testa riceverà una sepoltura cristiana, così vincerò i miei nemici perfino nella sconfitta».
Detto questo, sguainò la sua spada e, inginocchiandosi davanti ad Ayala, gli porse l’arma sulle mani tese. Un improvviso silenzio schiacciò la cima della collina: «Padre, per favore, benedica questa lama. So che il suicidio è un grande affronto a Dio, ma voglio credere che, se lei benedirà la spada che separerà la mia testa dal mio corpo, la lama porterà con sé i miei peccati».
Ayala fece un passo indietro, turbato da una simile supplica. Come era arrivato a quella situazione? Come era potuto cadere in un tale abisso di disperazione? E, al di sopra dei suoi pensieri, il crescente ruggito della cavalleria nemica.
«Padre Ayala, vi imploro! Visto che devo togliermi la vita, permettetemi di abbandonare questo mondo con l’anima in pace.» Il volto di Fuwa mostrava, forse per la prima volta nella sua vita, una devota umiltà.
A poco a poco, consapevole di tradire la Chiesa, l’Altissimo e se stesso, Martín Ayala alzò la mano destra. Incapace di pronunciare alcuna parola, come atto di commiserazione nei confronti di quell’uomo caduto in disgrazia fece il segno della croce sopra la spada che Fuwa Torayasu gli mostrava sacrificando la sua stessa vita.
Il samurai abbandonò la katana alla sua sinistra e, conficcando i pugni a terra, si chinò davanti al gesuita. Quando si rialzò, nei suoi occhi c’era solo un’oscura determinazione: «Nozomi, sei stata per anni il mio braccio destro, il mio maggior sostegno, ma devo chiederti un ultimo favore. Ho bisogno che tu mi assista nel seppuku».
La guerriera fece una riverenza per ringraziare dell’onore che le era stato concesso e prese la spada di Fuwa. Tutti intorno a loro fecero silenzio, dimentichi del fatto che la carica del nemico era sul punto di raggiungerli. Nessuno se ne sarebbe andato finché il loro signore non avesse abbandonato questo mondo.
Un servitore aiutò il daimio a liberarsi della parte superiore dell’armatura e a slacciarsi l’obi. Si denudò il torace, sistemando le maniche del kimono sotto le ginocchia, e afferrò la wakizashi. Non appena Fuwa sguainò la spada corta, Nozomi fece altrettanto con la katana e la sollevò sopra la sua testa. Il suicida annuì in segno di ringraziamento e, senza esitare oltre, impugnò la spada e si conficcò la punta sopra il fianco sinistro.
Nessuno dei presenti scostò lo sguardo mentre l’uomo completava il taglio nella parte inferiore dell’addome, sventrandosi vivo. Un sudore freddo coprì il corpo del daimio mentre questi torceva l’impugnatura dell’arma, cercando di completare il taglio verticale fino allo sterno. Solo quando Nozomi vide che al suo signore non erano rimaste forze per proseguire, scaricò il fendente che pose fine alla sua vita e alla sua sofferenza.
Ayala, trovando la voce che gli era mancata fino a quel momento, pronunciò una breve preghiera per il defunto, momento in cui la realtà tornò a infiltrarsi fra le pieghe di quell’orrore.
«I traditori sono ai piedi della collina!» allertò un samurai.
A questo segnale gli uomini della guardia personale di Fuwa Torayasu, che ormai non avevano alcun proposito in questa vita, sguainarono le spade e si lanciarono giù per il pendio, disposti a frenare la carica dei cavalieri di Tsumaki Kenshin.
Nozomi, da parte sua, si inginocchiò accanto al cadavere del suo signore e raccolse la testa mozzata. Se la posò in grembo e la contemplò per un istante, come se avesse a disposizione tutto il tempo del mondo. Dopo avergli pettinato i capelli con le dita, la avvolse con estrema cautela in un panno di seta bianca.
«A quattro giorni di viaggio verso sud-ovest, alle falde del monte Miyoshi, c’è un villaggio la cui esistenza conoscono in pochi» disse la donna con gli occhi persi nel panno, che cominciava a tingersi di un cremisi profondo. «Faticherete a trovarlo, ma lì avrete risposta a molte delle vostre domande, padre Ayala.» Il sacerdote annuì in silenzio, la voce perduta mentre la dama Nozomi si alzava in piedi con il sinistro fardello tra le mani. Lo porse a Kenjirō e il giovane guerriero lo accettò con un inchino. «Ti chiedo di portare fin lì padre Ayala e i resti del mio signore.»
«Lo farò» promise il figlio di Kudō Masashige.
Nozomi alzò la mano e un cavaliere le avvicinò il destriero che era stato sellato per Fuwa-sama.
«Che il mio signore faccia un ultimo viaggio in groppa al suo cavallo da battaglia.» Consegnò le redini a Kenjirō. «Io devo scoprire chi ha perpetrato questa ignominia ora che il fetore del tradimento è ancora fresco, ma vi raggiungerò a Miyoshi.»
Kenjirō Montò in sella e aiutò Ayala a sedersi dietro di lui.
«Racconterò con orgoglio di aver lottato un giorno al fianco della dama Nozomi del clan Fuwa» si congedò il giovane goshi. «Ci rivedremo.»
«In questa vita o nella prossima» concluse colei che era il braccio destro di Fuwa Torayasu, e diede una pacca all’animale perché partisse.
Kudō Kenjirō, il ragazzo che fino a poco tempo prima non aveva mai abbandonato le risaie, galoppò contro l’avversità come un guerriero consumato da cento battaglie. Dietro di loro si sollevò il bramito della contesa: i primi cavalli di Tsumaki raggiunsero la cima e i samurai rimasti al posto di comando si gettarono contro il nemico per dar loro il tempo di fuggire, a loro e agli ultimi generali, che già cavalcavano giù per la collina, in una folle corsa per raggiungere la protezione del bosco vicino.
Ayala, aggrappato ai vestiti del giovane che tante volte gli aveva salvato la vita, contemplava nella sua fuga la caduta del clan Fuwa, la disperazione dei guerrieri che crollavano insieme ai loro sogni di gloria. Non ebbe paura quando le frecce nemiche cominciarono a cadere intorno a loro; né provò orrore quando i samurai che galoppavano accanto a loro, non avendo più speranze, sguainavano le proprie spade e, mettendosi la lama in bocca, si gettavano giù dal cavallo tenendo l’impugnatura verso terra.
Kenjirō, al contrario, non guardava quel che stava succedendo intorno a loro. Si limitava a spronare la propria cavalcatura. L’animale, a falcate lunghe e potenti, dimostrò in quella corsa di essere degno di un signore della guerra: il goshi continuò a incitarlo perfino quando si tuffarono nel bosco di cedri che si estendeva sulle rive del Biwa. Fecero zigzag tra gli alberi e saltarono sulle spesse radici che spuntavano da terra. Quella galoppata si stava rivelando molto pericolosa, quindi arrivò il momento in cui dovette far rallentare il cavallo e avanzare con passo misurato nel bosco.
Le grida della battaglia risuonavano ancora nell’aria, però, man mano che avanzavano, la quiete del bosco imponeva il suo vecchio silenzio. Lì dentro, la notte sembra essere scesa del tutto, e una bruma umida allungava le proprie dita dalle profondità dell’immenso lago.
«Non siamo ancora in salvo» disse il samurai. «Prima del mattino i battitori perlustreranno il bosco. Devono sterminare gli uomini di Fuwa fino all’ultimo se vogliono far passare il tradimento sotto silenzio.»
Ayala non rispose e Kenjirō continuò a addentrarsi nelle fronde, attento ai suoni trascinati dal vento.
«Ayala-sensei,» sussurrò infine «se sopravviviamo anche questa volta, vi prometto che inserirò il vostro dio nelle mie preghiere.»
Cercava di infondere coraggio nel sacerdote, che gli pareva intimorito, ma quando si voltò sulla sella per cercare il suo sguardo, Ayala cadde a piombo da cavallo. Spaventato, il samurai balzò giù con un salto e si chinò accanto al gesuita: «Che succede?».
«Troppe emozioni per questo vecchio stanco.»
Fu allora che Kenjirō coprì le due frecce conficcate nella schiena del bateren. Conscio della sua espressione allarmata, Ayala cercò di tranquillizzarlo: «Non ti preoccupare, praticamente non sento dolore» disse con la voce sempre più debole. «Aiutami a risalire a cavallo e usciamo da questo bosco.»
«Dobbiamo nasconderci» rispose il ragazzo, angosciato. «Bisogna estrarre le frecce e riempire le ferite con foglie di dokudami, o si infetteranno.»
E mentre ripeteva quel che aveva imparato per bocca dei suoi maestri, si chiedeva come si estraeva una freccia, o che aspetto avesse la pianta dokudami. Si guardò intorno, in preda all’angoscia. E per la prima volta da quando il suo viaggio era cominciato, si sentì spaventato e indifeso, come un ragazzo delle risaie.