Igarashi e Masamune si lasciarono alle spalle la baia di Osaka in una gelida mattina d’autunno. La pioggia, fine ma costante, infangava il sentiero e diluiva il paesaggio in toni acquosi. Si rimettevano in cammino, anche se questa volta lo percorrevano in senso contrario, con la notte alle spalle e un sole smorto negli occhi.
Erano diretti alla costa di Kii, ultimo rifugio conosciuto della contrabbandiera che, stando a quello che avevano scoperto, si faceva chiamare Reiko. Una donna della cui esistenza avevano sospettato sempre sia gli uomini di Iga sia gli agenti di Akechi Mitsuhide, ma sulla quale non erano mai riusciti a trovare dettagli concreti. Un fantasma al servizio di Fuwa Torayasu: una kunoichi di Shinano, dicevano alcuni; una wako venuta da Macao, dicevano altri. In ogni caso, poco più che un brandello di nebbia che si dissipava tra le dita di chi cercasse di afferrarlo, ma che ora cominciava a materializzarsi davanti agli occhi di Igarashi. Nel corso del suo viaggio, il veterano shinobi aveva pian piano sviscerato la storia di quello spettro: valletta in un postribolo di Uji-Yamada, lì comprata da un commerciante portoghese che l’aveva portata con sé a Osaka. L’aveva usata nei suoi affari, legali o illegali che fossero, per il raro talento che quella donna aveva di parlare con uguale disinvoltura la lingua delle isole e quella dei barbari. Ora il fantasma aveva un nome, Reiko, e un posto dove era solita fare le sue apparizioni, la provincia di Kii. C’erano ancora delle incognite da chiarire, come il suo rapporto con i bateren cristiani, soprattutto con l’investigatore che percorreva la strada Tōkaidō e che tanto sembrava inquietare Akechi-sama.
La menzione della costa di Kii riportò alla memoria di Igarashi una notizia che correva giorni prima sui moli di Osaka: un incidente al quale, sulle prime, non aveva dato alcuna importanza, ma che, alla luce di quello che ora sapeva, considerava rilevante per le sue indagini.
Con quell’intuizione che lo pungeva come una scheggia, i due presero i sentieri che si allontanavano dal percorso ufficiale per inoltrarsi verso sud, attraversando la penisola di Yamato lungo tortuosi percorsi impregnati dell’odore salino degli uomini di mare e dell’aroma d’incenso dei pellegrini.
Arrivarono a Nagashima cinque giorni dopo e, chiedendo per i moli e i tuguri del porto, le loro indagini li condussero fino a una spiaggia che si trovava a est della città. La pioggia scuriva la sabbia e la marea faceva tintinnare le pietre sulla riva. Nonostante il pomeriggio uggioso, alcuni uomini lavoravano nudi vicino all’acqua. Avevano appena finito di scaricare le barche con il bottino del giorno e ora si dedicavano a pulire i pesci, accucciati fra le onde.
«Chi di voi è Yashamaru?» chiese Masamune, rivolgendosi brusco ai pescatori.
Questi si voltarono per guardare i nuovi arrivati e, vedendo che non erano samurai né doshin, assunsero subito un’espressione ostile. Igarashi conosceva bene quegli sguardi: era l’espressione offesa di chi si umilia costantemente di fronte all’autorità, ma che non è disposto a cedere nemmeno un briciolo di dignità davanti a chi non riconosce come tale.
«Chi vuole saperlo?» esclamò uno di loro.
«Questo non ti riguarda. Limitati a rispondere» lo zittì Masamune.
I pescatori si scambiarono uno sguardo risoluto e, abbandonando il proprio lavoro, lasciarono la riva per trattare con i forestieri. Erano sette, e avevano in mano i lunghi coltelli che stavano usando per il pesce. Masamune, lungi dal farsi intimorire, disfece con uno strattone secco i nodi che gli cingevano la spada sulla schiena e fece cadere la punta della sua pesante nagamaki. Nonostante fosse ancora nel fodero, la lama si conficcò per un palmo nella sabbia, e il suo proprietario si appoggiò sull’impugnatura con un sorriso sdegnoso: «Pensate forse di potermi sventrare come fate con quei pesci?».
Igarashi lo prese per la spalla e lo fece scansare. Non sapeva che cosa passasse per la testa del suo giovane accompagnatore, se era rabbia mal riposta o, semplicemente, se voleva metterlo alla prova a ogni passo del percorso, ma non avrebbe permesso che il suo carattere rissoso portasse a un conflitto inutile.
«Perdonate i modi del mio amico, ormai è da tempo che tratta solo con i criminali. Siamo agenti di giustizia di sua signoria, Akechi-sama.» Nel dirlo, mostrò la carta di via con cui viaggiava, con la certezza che quegli uomini non avrebbero saputo leggere il documento ma certo avrebbero riconosciuto l’inconfondibile stemma con il fiore di campanula che lo sigillava. «Ci è stato richiesto di indagare sul recente affondamento di una nave nera su queste coste, e qualcuno ci ha detto che Yashamaru solitamente porta sulla sua barca botti d’acqua per i nanban che ormeggiano al largo di Nagashima.»
Nessuno rispose, ma gli sguardi elusivi dei suoi compagni finirono per tradire Yashamaru.
«Sei tu la persona che cerchiamo?» chiese Masamune, indicandolo con il mento.
«Non hai nulla di cui preoccuparti,» intervenne Igarashi «vogliamo solo farti qualche domanda.»
Yashamaru si limitò a far scivolare il coltello nella corda che gli cingeva la vita.
«Non so nulla di quello che è successo quella notte. Né io né i miei compagni.»
«Forse sai più di quanto credi» disse il forestiero. «Ci hanno detto che quella sera sei stato incaricato di rifornire la nave affondata.»
«È possibile, noi ci limitiamo a fare rifornimento alle navi che ci indicano gli ufficiali del porto.»
«Hai notato qualcosa di strano quando ti sei avvicinato con la barca? C’era qualche giapponese a bordo?»
«Era tutto normale. Hanno issato le botti d’acqua e mi hanno gettato la borsa con la tariffa stabilita. Poi va quasi tutto agli ufficiali e a noi lasciano solo una manciata di pezzi di bronzo che non basta nemmeno per una bottiglia di sakè.»
«Ti sembrano forse ingiusti i tributi richiesti dal signore di queste terre?» chiese con calma Masamune, mentre accarezzava l’impugnatura su cui si appoggiava.
Il pescatore guardò i suoi compagni con reticenza e finì per rispondere senza alzare lo sguardo da terra.
«No, doshin.»
«E il resto di voi?» proseguì Igarashi. «Non avete visto nulla di strano quel giorno? Dicono che la barca sia andata a picco in un soffio, che le fiamme si vedevano da tutta la costa di Kii.»
Gli uomini si chiusero in un silenzio schivo che serviva solo a evidenziare il fatto che sapevano qualcosa.
«Parlate chiaro!» li rimproverò Masamune. «Se poi scopriamo che ci avete mentito, sarà peggio per voi.»
«Dicono che sia stata la strega dei cristiani a dar fuoco alla barca» disse d’un tratto il più giovane, un ragazzo di non più di quindici anni.
«Taci!» esclamò fra i denti uno dei più anziani.
Ma i forestieri sapevano che quel pesce era caduto nella loro rete, non avrebbero permesso che gli scappasse tra le mani.
«Il prossimo che prova a farlo tacere, lo taglio in due» minacciò Masamune.
«Sono solo voci che passano da un villaggio all’altro» intervenne Yashamaru. «Non vogliamo infastidirvi con pettegolezzi da vecchi.»
«Raccontami queste voci, ragazzo» disse Igarashi. «Chi è questa strega dei cristiani?»
«Una donna che viaggia sempre circondata da uomini e che porta una strana croce al collo. Io non l’ho mai vista, ma dicono che abbia una cicatrice sul volto e che sia capace di parlare con i barbari e con le bestie allo stesso modo.»
«Una contrabbandiera, è la cosa più probabile» intervenne allora un altro di quegli uomini di mare, cercando di dare coerenza alle parole del ragazzo. «Li conosciamo perché scaricano la merce sulle nostre spiagge, sempre di notte, e spariscono come spazzati via dal vento. C’è chi dice che quel giorno sia stata vista a Nagashima.»
«Alcuni l’hanno vista vicino a questa stessa spiaggia» confessò il ragazzo, ormai con la lingua sciolta. «Non c’è dubbio che sia stata lei a dar fuoco alla nave da terra.»
«Cos’altro avete sentito dire su questa donna? Sapete dove si può nascondere?»
«Non su queste coste, è sicuro» disse Yashamaru. «C’è chi assicura di averla incontrata sui sentieri che vanno a nord-ovest, verso la provincia di Omi.»
“O verso Yamashiro,” aggiunse tra sé Igarashi “dove ancora sopravvivono i villaggi cristiani tormentati dai monaci guerrieri di Hiei.”
«Ma sapete come vanno queste cose» aggiunse il pescatore a mo’ di scusa: «La gente sente una voce e poi ognuno aggiunge un ingrediente in più allo stufato. Non si può più credere a quello che raccontano i vecchi né i pellegrini».
Igarashi annuì in silenzio, assorto nelle sue elucubrazioni.
«Grazie per l’aiuto,» disse alla fine «vi lasciamo lavorare tranquilli.»
Ripresero la strada che correva parallela alla costa di Kii, sulle scogliere affilate come scaglie di silice e tra calette d’oro e smeraldo profondo. Fu guadando uno di quegli arenili che Igarashi, senza dire una parola, si svestì e si buttò fra le acque. I ricordi lo trascinavano in mare con l’impeto di una marea di risacca.
Masamune, per una volta, stette in silenzio e si limitò a sedersi sulla sabbia, con la spada nagamaki posata sulle cosce. Contemplò il vecchio guerriero che entrava in mare, avanzava tra le onde, e non riuscì a evitare di sentire una punta di ammirazione per quell’uomo furiosamente libero, capace di piegarsi solo davanti alla minaccia di distruggere quel che rimaneva della sua vita passata. Igarashi nuotò e si tuffò sott’acqua più e più volte, impregnandosi del sale e del ricordo di altri giorni e di un’altra compagnia.
Alla fine, quando si stancò di galleggiare tra le onde, tornò a riva con lo sguardo sveglio e lucido.
«Che cosa dovremmo fare ora?» chiese, rivolgendo la parola a Masamune per la prima volta in tutto il pomeriggio.
«Mi chiedi un’opinione?»
«Ho pensato che se ti tratto come una persona sensata, magari inizierai a comportarti come tale.»
Masamune rise, sinceramente divertito.
«Se vuoi la mia opinione, non credo che quella strega viaggi verso Omi. Dei contrabbandieri cristiani si nasconderebbero tra la loro gente, nei villaggi di Yamashiro e del feudo di Takatsuki.»
«Lo penso anch’io. Dobbiamo andare a nord» disse Igarashi raccogliendo le sue cose e buttandosele in spalla. «Spero che Iga continui a nascondere un informatore sotto ogni pietra e ogni filo d’erba, altrimenti ci metteremo mesi a trovare quella donna.»
E senza aspettare il suo compagno, prese a camminare sulla riva, fischiettando spensierato mentre si asciugava al vento.
Giorni dopo, Igarashi attendeva seduto sulla falda di una collina vicina al santuario Ryozenji, nel cuore stesso del feudo di Takatsuki. Da quella posizione poteva vedere il tetto grigio del tempio, come una roccia che affiorava in un mare rossiccio increspato dal vento. L’autunno era sceso come un manto ocra sul paesaggio, e scoprì che gli piaceva girare per la regione nonostante le loro indagini nei villaggi cristiani si stessero rivelando infruttuose.
Guardò di nuovo verso la cima della collina, impaziente, e notò che Masamune continuava a parlamentare con un gruppo di tre uomini e due donne vestiti da contadini. Erano “erbe nere” di Iga, agenti dormienti distaccati in una regione, e lì installati come commercianti, contadini o medici in attesa che i loro servizi si rendessero necessari. Se mai lo sarebbero stati. Molti mettevano su famiglia, invecchiavano e morivano senza che nessuno scoprisse mai che si trattava di nemici infiltrati, erbe velenose radicate in terra altrui.
Dopo un po’, Masamune cominciò a scendere lungo il pendio. Una canna secca gli ballava tra le labbra e camminava scalzo, con i geta appesi alla spalla; appena i loro sguardi si incrociarono, il ragazzo fece segno di no con la testa.
«Nemmeno loro hanno scoperto nulla. Ieri notte sono entrati in una casa vicina a Daimonji. È isolata, ma si sa che la famiglia che ci abita è cristiana. Hanno interrogato tutti, al padre gli hanno conficcato spilli sotto le unghie, gli hanno tagliato tre dita e gli hanno cavato un occhio. Sono arrivati perfino a tagliare un orecchio al bambino per vedere se così i genitori si sarebbero ammorbiditi, ma non sono riusciti a strappargli una sola parola. È come se fosse un fantasma, nessuno conosce questa Reiko.»
«Oppure le sono molto leali.»
«O ne hanno paura» specificò Masamune.
«La paura è un’altra forma di lealtà» osservò Igarashi, riportando lo sguardo sul mare di cedri che si estendeva ai piedi della collina. «Ti hanno detto qualcos’altro? Qualcosa che tu abbia il permesso di condividere con me?»
«Gira voce che il clan Fuwa abbia una postazione segreta nella regione boscosa di Miyoshiyama, a nord di dove ci troviamo, ma non sanno se possa avere qualche relazione con i contrabbandieri. In ogni caso, faranno qualche ricerca.»
Igarashi sospirò. Cominciava a disperare.
«Mi sorprende che Iga abbia coinvolto cinque erbe in questa missione, e che siano disposti a esporsi usando metodi tanto sbrigativi.» Studiò il volto di Masamune. «Non credo che abbiate molto interesse a trovare il corvo che percorre queste strade; credo piuttosto che il vostro vero obiettivo sia la donna, e che vi siete ritrovati con una preda più grande di quel che vi aspettavate, non è così?»
Masamune rise tra i denti.
«Sei un vecchio diffidente, forse anche più di quanto ti convenga.»
«Mi interessa poco quel che cercate, ma sappiate che, quando lo troveremo, considererò saldato il mio debito.»
«Non è con me che devi trattare tali questioni, ma con il Tribunale delle Maschere.»
«E qual è il vostro piano?»
«Non c’è nessun piano. Continueremo a cercare. Visiteremo ogni stramaledetto villaggio di questo feudo, se è necessario.»
«Così non otterremo un bel nulla, questi cristiani non la consegneranno mai. Per loro dev’essere una specie di idolo, o una santa, solo questo spiega il loro silenzio» valutò il vecchio shinobi. «Dobbiamo farla uscire allo scoperto.»
«E cosa proponi? Radere al suolo entrambe le rive dell’Akutagawa, inviare squadroni punitivi in ogni paesino? Non abbiamo un esercito a disposizione, vecchio.»
«Allora forse dobbiamo procurarcene uno.»
Masamune fu tentato di ridere, finché non comprese che Igarashi parlava assolutamente sul serio.