Ayala sbarcò nel piccolo delta che l’Akugatawa formava alla confluenza con il grande fiume Yodo. Si congedò dai suoi benefattori, che riempirono le sue bisacce di riso avvolto in alga nori, e si dispose a risalire l’affluente senza allontanarsi dalla riva, così come gli avevano indicato Sayuri e suo marito. Il letto dell’Akutagawa non era molto ampio, ma aveva una corrente sufficiente ad alimentare i campi di riso che proliferavano su entrambi i lati. Il paesaggio, umido e agreste, trasudava una calma che impregnava la pelle e i sensi.
Camminò lentamente, appoggiandosi al bastone che, come i vestiti che indossava, gli avevano procurato i raccoglitori di alghe. Il cappello di paglia evitava che il sole di mezzogiorno lo abbagliasse, ma il calore cominciava a pesargli sulle spalle e le ferite sulla schiena risentivano dello sforzo. Strinse i denti per sopportare il dolore, poiché sapeva che, se avesse ceduto alla tentazione di riposare all’ombra, non sarebbe stato capace di riprendere il cammino fino a sera.
I campi di riso lasciarono spazio a vasti terreni umidi dove crescevano solo boschi di bambù, densi e selvaggi. La riva del fiume si trasformò in una sottile striscia di terra pantanosa e Ayala cominciò a disperare. Al calar del pomeriggio sentì che la febbre tornava a salirgli; in ogni caso, si fermò solo per bere del tè e mangiare un paio di bocconi di riso prima di proseguire, poiché non poteva permettersi di farsi sorprendere dalla notte in quel posto.
Il tramonto già minacciava quando le rive del fiume si allontanarono e il corso d’acqua, molto più impetuoso, si inoltrò per una zona scoscesa e ricoperta di pini. Era quello il punto che gli avevano indicato: si sforzò di mantenere il passo finché davanti a sé non intravide la sagoma del monte Miyoshi, che si ergeva sopra il bosco e obbligava il fiume a formare un ampio arco per circondarlo. Lì, tra il fianco della montagna e l’ansa dell’Akutagawa, c’era un’estesa valle di risaie terrazzate e punteggiate del rosso dei cedri. Una vista splendida, davvero, impossibile da notare in lontananza per via dell’orografia del posto. Un piccolo paradiso nelle profondità del feudo di Takatsuki, sotto la protezione di un daimio cristiano già morto, si disse Ayala.
Non tardò a distinguere i primi sentieri che dalla riva portavano alla valle. Seguendo uno di questi viottoli, l’esausto viaggiatore finì per sboccare sulle diramazioni che salivano fra i campi di riso. Da entrambi i lati, i contadini si affannavano con la mietitura: diversi di loro alzarono la testa per osservare lo strano pellegrino, troppo alto e troppo asciutto, che si afferrava al suo bastone come se sostenesse il mondo intero.
Quando uno degli abitanti del posto si avvicinò per verificare chi fosse quell’uomo, il visitatore alzò la tesa del cappello scoprendo gli occhi marroni e il volto barbuto di un nanban.
«Sto cercando padre Enso» disse il forestiero dopo aver chinato la testa. Il contadino lo osservò con sospetto. «Non dovete preoccuparvi di nulla, non desidero fare alcun male al vostro maestro. Sono un bateren anch’io.» E mostrò la croce che portava al collo.
Altri uomini cominciarono a scalare il terrapieno che separava le risaie dal sentiero. Si unirono al primo con la stessa espressione ostile in volto.
«Come sei arrivato fin qui, straniero?» chiese un contadino che, per età e atteggiamento, sembrava il capo della squadra. «Chi ti ha parlato di questo luogo?»
Ayala, estenuato per il lungo cammino e per la febbre, sentiva di non avere le forze per vincere la diffidenza di quegli uomini. Fortunatamente, una terza voce si fece sentire: «Allontanatevi, idioti.» Un’anziana si fece strada all’interno del gruppo. «Forse non siete in grado di distinguere un uomo di Dio quando lo vedete?»
La donna, minuta e curva, si copriva la testa con un fazzoletto e aveva la pelle bruna di chi ha lavorato per tutta la vita sotto il sole da mattina a sera. Quando fece il gesto di inchinarsi davanti a lui, Ayala la fermò prendendola per il gomito.
«Non è necessario, nonna» disse con un sorriso. «Non sono venuto a cercare riverenze, ma un uomo che vive fra voi.»
«Grazie al Signore che ci benedice con la visita di un uomo santo.» L’anziana, la cui autorità sembrava incontestabile, si fece il segno della croce e tutti si affrettarono a imitarla. «La persona che cercate vive in fondo alle risaie, in quell’unica casa sulla collina.» Indicò una cresta di terra in lontananza.
Con grande stupore di Ayala, una croce coronava il punto indicato dalla donna. Tutta storta, austera come potevano esserlo due assi incrociate, ma visibile anche da lontano. Quella visione fu sufficiente per dargli sollievo, per ravvivare nel suo petto una fiamma che lo confortò, dopo tutte le peripezie che aveva affrontato per arrivare fin lì. Con gli occhi velati dal pianto si disse che, se quello era suolo cristiano, non c’era un posto migliore per costruire una chiesa, ed ebbe la certezza che così credeva anche chi aveva eretto quell’umile croce.
«Padre Enso sarà felice di rincontrare uno dei suoi» disse la donna, contenta di vedere l’emozione che coglieva il visitatore.
«Lo spero, nonna» rispose Ayala, e riprese a camminare con quella croce come guida.
Quando l’anziano sentì i tre colpi secchi, legno contro legno, in qualche modo seppe che il destino bussava alla sua porta. Nessuno dei suoi fedeli avrebbe mai annunciato così la sua presenza. Chiuse il Vangelo consunto che aveva in mano e si incamminò verso la porta, chiedendosi per quanto tempo era riuscito a sfuggire alla disgrazia: tredici, quindici anni, forse? Non lo ricordava, ma sapeva con certezza che erano stati quegli anni a dare un senso alla sua intera vita.
Fece scorrere il pannello shōji con la speranza che quel presentimento non fosse altro che il palpito di un vecchio cuore ormai fuori tempo.
«Padre Fabbiano?» chiese in portoghese l’uomo che trovò alla sua porta. «Siete davvero padre Enzo Fabbiano da Padova?» insisté meravigliato il visitatore, uno straniero abbigliato come un pellegrino.
«Da tempo ormai nessuno mi chiama così, non fatelo nemmeno voi, ve ne prego.»
«Non vi ricordate di me? Sono padre Martín Ayala, ci siamo conosciuti alla missione di Hirado prima che mi mandassero a Shima.»
L’anziano, con la vista ormai debole, si sforzò per osservare l’uomo che gli parlava, e credette di discernere sotto la barba e dietro quegli occhi stanchi il ricordo di un volto molto più giovane e luminoso.
«Sì» disse alla fine. «Certo che mi ricordo, siete il traduttore di Saverio, l’uomo che doveva aiutarci a capirli, che doveva illuminare i nostri passi su queste terre.» Padre Fabbiano annuì senza allegria. «E ditemi, ce l’avete fatta alla fine? Siete riusciti a fare in modo che la Chiesa capisca questa gente?»
Ad Ayala non sfuggì l’implicito rimprovero contenuto in quelle parole, né il fare cupo con cui l’uomo lo riceveva.
«Mi sembra che non vi faccia piacere vedere un fratello della Compagnia di Gesù.»
Fabbiano gli rivolse uno sguardo triste, permeato di un vecchio sconforto.
«Entrate, sembrate esausto.» Si fece da parte e offrì la propria dimora a quel visitatore tanto inaspettato. «Preparerò del tè e parleremo.»
Ayala si appese il sugegasa al braccio e si chinò per attraversare la soglia.
«Tè…» ripeté, mentre esaminava la capanna in cerca di qualche vestigio dell’uomo di fede. I suoi occhi si posarono sul vecchio Vangelo. «Non ho mai saputo di un padovano che bevesse tè, vedo che ha abbracciato i costumi locali» commentò mentre si toglieva i calzari per salire sulla pedana di legno.
«Spero che non le dispiaccia se è freddo» disse Fabbiano, mentre gli indicava di sedersi sul pagliericcio. «Non ho la forza di accendere il fuoco.»
L’anziano gesuita ripose fra di loro un vassoio con delle tazze di ceramica e una teiera di ferro. Ayala osservò il suo modo di muoversi – con gesti più propri di un giapponese che di un italiano – e la lunga barba che gli sfiorava il petto, simile a quella degli anziani maestri di quelle terre.
«Sembra proprio che apparteniate a questo nuovo mondo fin dalla nascita.» E, parlando giapponese, aggiunse: «Senz’altro nemmeno la lingua delle isole vi è sconosciuta.»
Fabbiano alzò lo sguardo mentre versava l’infusione nelle tazze.
«Questo mondo è più vecchio del nostro, padre Ayala. I campi di riso vengono consacrati a Inari da quando in Europa non si era ancora mai sentito nemmeno parlare di Gesù di Nazaret.» L’anziano posò la teiera da una parte e prese fra le mani la sua tazza, appoggiandosela in grembo. «Perché è venuto a cercarmi?» volle sapere, affrontando lo sguardo inquisitore del suo interlocutore. «Perché disturbarsi tanto per trovare un vecchio gesuita?»
Ayala cominciava a intuire i sentimenti di quell’uomo, il suo timore di perdere la vita che aveva scelto per sé.
«Non sono venuto a cercarla, padre Fabbiano. Non so se il fatto di trovarla qui obbedisce alla divina provvidenza o a piani più mondani, ma non sono qui per voi.»
«E cosa ci fate qui, allora?»
Martín Ayala prese fiato per rispondere, ma finì per esalarlo lentamente. Come raccontare quel che aveva vissuto negli ultimi mesi? Finì per esprimersi nel modo più chiaro possibile: «Stanno uccidendo i nostri fratelli.»
«Uccidendo? Molti cristiani sono morti nei villaggi, in effetti.»
«Non cristiani giapponesi, ma sacerdoti gesuiti. Li stanno eliminando uno a uno.»
«E com’è possibile?» chiese l’anziano. «Le missioni sono sotto la protezione dei daimio, Ise e i monasteri più potenti pretendono dai loro fedeli il rispetto delle chiese. Nemmeno le sette più violente hanno mai osato attaccare una missione…»
«Non sappiamo se siano state le sette sōhei,» lo corresse Ayala «non sappiamo nulla, in verità. La paura e lo sconforto serpeggiano tra i nostri, le prime missioni hanno cominciato a chiudere le loro porte. Temo che altre seguiranno presto quell’esempio.»
Enzo Fabbiano annuì lentamente, come se quelle notizie d’un tratto acquisissero un senso ai suoi occhi.
«Quindi gli orrori che la cristianità patisce nell’entroterra hanno finalmente raggiunto le coste. L’odio degli Ikkō-Ikki e dei Tendai è arrivato fino alle nostre chiese.»
«Non posso assicurare che siano stati i bonzi guerrieri, ma non posso nemmeno negarlo.»
«Se aveste visto la crudeltà delle loro azioni, villaggi interi crocifissi al loro passaggio, se ogni volta che il vento muove le foglie vi ricordasse l’oscillare dei bambini appesi agli alberi… Allora non avreste di questi dubbi.»
Ayala abbassò lo sguardo, sconvolto. Quando riprese a parlare, la sua voce sembrava molto stanca: «Non so che cosa vi trattiene qui, padre Fabbiano, ma sapete che potrei incolparvi di aver abbandonato la missione. Io stesso l’ho fatto poco dopo la vostra sparizione, sono tornato a casa svuotato, disperato per quel che avevo vissuto qui… Eppure, per ragioni che non riesco a comprendere, Dio ha voluto che facessi ritorno. Quando ci sono state le prime morti, la Compagnia mi ha affidato il compito di sviscerare quegli avvenimenti e in questo mi sono impegnato fino a oggi. Il nostro Signore sa che ci ho provato con tutte le forze che mi sono state concesse, ho girato il paese per settimane, sono stato in punto di morte e ho rischiato di trascinare altri nel baratro con me, mi sono ammalato e ho assistito a orrori di ogni genere… E tutto è stato invano.» La voce gli si ruppe nel bel mezzo della confessione. Affondò la testa fra le mani per nascondere la sua afflizione, i capelli impigliati nelle dita contratte. «Non mi trovo più vicino alla verità di quando ero dall’altra parte del mondo. Sto deludendo i nostri fratelli e, come l’ultima volta, ho deluso nuovamente un giovane che aveva fiducia in me, che dipendeva da me. Rivivo gli stessi errori un’altra volta, è come se questa terra per me fosse maledetta…»
Padre Fabbiano posò una mano sulla sua spalla, con la decisione e la calma di chi contempla un dolore che conosce bene, che gli risulta intimo.
«Pianga quando ne avrà bisogno, non sarò io a dirvi di trattenere le lacrime. Ma sapete di portare una croce che non vi appartiene, padre Ayala. Siamo venuti qui per fare il bene tra questa gente, non per affrontare guerre e crimini orribili.»
«Siamo venuti per fare la volontà del Signore, qualunque essa sia» rispose Ayala.
L’anziano non volle discutere. Con affetto, lo aiutò a rimettersi in piedi e gli porse il bastone.
«So che siete stanco, ma mi piacerebbe mostrarvi una cosa. Accompagnatemi e forse capiterete perché ho abbandonato i miei, come dite.»
Enso-sensei si gettò un mantello sulle spalle e recuperò un vecchio bastone. Fece scorrere la porta e attese sulla soglia che Ayala si mettesse in piedi. Quando questi fece per seguirlo, il vecchio gesuita sorrise soddisfatto e uscì fuori. Sul crinale del Miyoshi erano già state accese le prime luci, che volteggiavano dietro le finestre e sulle terrazze, come lucciole intrappolate nella carta, mentre le ultime lanterne sfilavano tra le risaie in cerca del calore dei bagni comuni.
«Seguitemi» lo chiamò Enso, imboccando il sentiero che scendeva sul lato opposto della collina.
Il viottolo, leggermente in discesa, sboccava sul grande percorso secondario e scendeva tra i campi coltivati. Da lì sopra si poteva contemplare la cittadina sparsa sul crinale della montagna, circondata da un fitto bosco che separava le case dai campi terrazzati fino alle rive dell’Akutagawa. La vista era davvero bellissima, pensò Ayala, non era un brutto posto dove ritirarsi.
«Credete che qui io mi nasconda dal mondo,» osservò Fabbiano, che sembrava avergli letto nel pensiero «che fugga dai miei obblighi. Io, tuttavia, ho capito che questo era il mio posto, che il mio obbligo era restare con questa gente.»
«Il popolo di un sacerdote devono essere tutti i figli della cristianità, non quelli che uno si sceglie, padre Fabbiano.»
Il vecchio gesuita sorrise.
«Eppure la missione costruisce le sue case solo nelle città, vicino ai daimio cristiani che gli assicurano protezione…»
«La Compagnia si installa là dove ha la possibilità di fare più buoni cristiani. Siamo in pochi e dobbiamo arrivare a molti.»
«Quanti missionari vengono mandati nell’entroterra, a visitare i villaggi e le risaie?» chiese Fabbiano, che questa volta non sembrava disposto a evitare la discussione. «Sapete bene quanto me che molti cristiani vengono battezzati nell’entroterra, che si creano delle comunità di cui poi la missione non si occupa, e che non rivedono un padre cristiano se non dopo anni, quando succede.»
«Come vi ho detto, siamo pochi e il paese è esteso e montagnoso» rispose Ayala, camminando accanto a lui.
«Tuttavia, quei cristiani perseverano. Non dimenticano la Parola anche se li lasciamo all’oscuro nella loro nuova fede. Sapete che cosa gli tocca patire? Come vengono tormentati dagli sōhei e dai banditi? Come gli stessi daimio a cui loro consegnano il riso gli si ritorcono contro quando hanno bisogno di ingraziarsi i bonzi per qualunque motivo?»
«Ma questo villaggio si trova nel territorio dei Fuwa, un clan cristiano.»
«I daimio hanno un unico dio: la guerra. Si diranno cristiani finché questo gli garantirà qualche tipo di vantaggio, ma cambieranno pelle come un serpente appena cambierà il vento.» Fabbiano piegò le labbra, disgustato. «La missione si dimentica di quei cristiani che soffrono per conservare la loro fede e si lancia nella braccia dei signori samurai, che usano la parola di Cristo per commerciare con i portoghesi e indebolire i bonzi.» Ayala non poteva ribattere a tali accuse, poiché le aveva fatte sue da tempo. «Il mio dovere è restare qui, con i deboli, non nelle corti dei privilegiati, come il nostro caro fratello Luís Fróis. La mia è una missione differente, meno virtuosa agli occhi di Roma, ma non meno necessaria» concluse Fabbiano.
«Questa decisione non spetta a voi. C’è una sola missione cristiana in Giappone ed è quella portata avanti dalla Compagnia. Se ve ne allontanate, non potete nemmeno chiamarvi sacerdote. Perché questa gente dovrebbe aver bisogno di un padre che non può battezzarli né celebrare una messa?»
Padre Enso si fermò di colpo. Il fuoco che d’un tratto ardeva nei suoi occhi, l’energia dei suoi movimenti, smentivano l’età che aveva: «Sacramenti, riti… Sono gusci vuoti se non danno sollievo allo spirito di chi li riceve, se non servono perché loro si sentano più uniti a Dio».
«Come potete incorrere in una simile blasfemia? Sono i sacri sacramenti dell’unica vera Chiesa!»
«Ne siete sicuro?» esclamò Fabbiano, indicandolo con il suo bastone. «L’avete detto voi stesso: questo è un altro mondo. È forse così assurdo pensare che la parola di Dio sia arrivata a noi attraverso Cristo e a loro attraverso Buddha? Non si dice forse che il Buddha Shaka1 abbia deciso di nascere uomo per salvare l’umanità? Se conoscono e fanno tesoro della parola di Gesù Cristo, perché proibirgli di pregare i vecchi dèi dei loro genitori, se questi sono giusti e benevoli? È poi dirgli che tutti i loro antenati bruciano all’inferno, infliggere ai nostri fedeli una simile sofferenza?»
«No… non potete fare una cosa del genere. Non potete travisare la parola di Dio a vostro piacimento. È contro la Chiesa di Roma…»
Enso-sensei rilassò le spalle tese e si appoggiò sul bastone, improvvisamente stanco. Sorrise con una calma che sembrava in contrasto con il terrore di Ayala.
«Ma non lo vedete? Non siamo a Roma, né questi sono cristiani romani. Questa è una nuova cristianità, che deve convivere con vecchie credenze e insegnamenti, che viene perseguitata per la propria fede, come i primi fedeli di Gesù. Una cristianità che ha bisogno di difendersi» concluse, e riprese a camminare, inoltrandosi fra le silenziose risaie.
Ayala, sopraffatto, esitò un istante prima di seguire i passi dell’anziano. Non credeva che ci fosse egoismo nelle parole di quell’uomo, ma solo il desiderio di migliorare la vita di quelle persone, di permettere loro di abbracciare la verità di Cristo senza che questo significasse una rottura con tutto il loro mondo… Il suo atteggiamento di sfida, però, l’arroganza con cui giudicava i propri fratelli… Era un atteggiamento indegno per un sacerdote, ma al tempo stesso era così decisamente libero e fermo nelle sue convinzioni, che Ayala non poté fare a meno di ammirare e invidiare le sue certezze.
«Che cosa intendete con il fatto che hanno bisogno di difendersi?» chiese, mentre lo seguiva attraverso il fitto bosco che portava alla cittadina.
«Perfino Gesù ha impugnato la frusta per proteggere il tempio» rispose l’anziano, in un tono così categorico che per Ayala fu chiaro che la conversazione non poteva che sfociare in un’altra battaglia dialettica, e per il momento preferiva evitarla.
Continuarono a camminare in silenzio sotto le fronde, con la luna che si affacciava tra le chiome degli alberi. Quando il bosco si aprì per lasciare spazio alle prime case del villaggio, fu evidente che il vecchio missionario non stava camminando senza una meta, ma erano diretti in un posto concreto.
«Dove mi portate?» volle sapere Ayala, il cui arrivo non era certo passato inosservato: uomini e donne si affacciavano alle porte delle loro case, curiosi per la presenza del forestiero in compagnia di padre Enso.
«Voglio che conosciate una persona» rispose il vecchio gesuita, mentre avanzava fra le capanne dai tetti appuntiti.
Diversi canali acciottolati percorrevano i due lati della strada, erano profondi appena un gomito, abbastanza per accogliere la corrente di acqua gelata che scendeva dalla montagna. Fabbiano si fermò accanto all’unica costruzione con il tetto di tegole che avevano incrociato lungo il percorso; fece un passo sulla tavola che attraversava il canale e agitò la campanella che oscillava accanto alla porta.
Dopo poco, un uomo vecchio, con una folta barba e i capelli bianchi, apparve sulla soglia. Non salutò, si limitò a sbarrargli il passaggio appoggiando una mano sul cardine della porta mentre scrutava lo sconosciuto.
«Buona sera, Jigorō-sensei», salutò Fabbiano con una riverenza. «So che sta per concludersi l’ora del cane, ma ci sono questioni che è meglio non rimandare. Quest’uomo è padre Ayala, porta notizie che la dama Reiko vorrà senz’altro sentire quanto prima.»
Ayala guardò di sbieco Fabbiano: chi era la dama Reiko e che notizie portava lui che potevano interessarle? L’espressione del vecchio dallo sguardo burbero sembrò addolcirsi quando capì che anche quello straniero era un bateren.
«La signora non si è ancora ritirata. Potete trovarla nel suo giardino» disse Jigorō facendoli passare.
Fabbiano si tolse i sandali per entrare nella casa e Ayala lo seguì con diffidenza. Anche se austera, la dimora era ampia ed era costruita in pietra e legno; c’erano pannelli shōji che separavo le varie stanze, una pedana di legno che copriva tutto il pavimento e, a quanto aveva detto quel vecchio guardiano dai modi rozzi, disponeva anche di un giardino. Poteva sembrare la residenza di un prospero commerciante, se non fosse stato che nessun mercante si sarebbe mai stabilito in un villaggio di montagna così lontano dalle vie del commercio.
L’ex sacerdote entrò e Ayala seguì i suoi passi. Nonostante la stanchezza che gli intorpidiva il corpo e i pensieri, nonostante le ferite che lo obbligavano a contrarre la schiena, quel posto sconosciuto gli diede una familiare sensazione di calma. Si godette lo scricchiolio della pedana sotto i piedi, l’odore di legna antica mescolato a quello dell’incenso kobuku, nell’atmosfera notturna che penetrava da fuori e che li condusse fino a un delicato quadrato verde che fioriva al centro della casa. Dalla terrazza ammirarono quel giardino di libellule sospese su uno stagno che emanava balsamica umidità, di rami di salice cullati dal vento, di fiori silvestri, semplici, senza pretese, che coloravano le rocce tra le felci.
Ai piedi della veranda, seduta sull’ultimo gradino, una donna era persa nei suoi pensieri. Teneva fra le mani una tazza di tè e affondava i piedi scalzi nel muschio fresco. Ayala la contemplò mentre gli dava le spalle, immersa in quel momento di intimo raccoglimento. Non si aspettava che la dama Reiko fosse così giovane.
«Senza dubbio, la contemplazione di questo luogo allevia lo spirito» salutò in portoghese Enzo Fabbiano.
«Jigorō-sensei è maestro in molte arti, padre Enso,» rispose lei «ma in nessuna mette se stesso come in questo giardino.»
La donna, abbigliata con un semplice yukata, evidentemente giapponese, aveva risposto in un impeccabile portoghese. Quando voltò la testa per osservare gli uomini appena arrivati, la prima cosa che Ayala distinse sul suo volto fu il segno che le sfigurava la guancia sinistra. Quale mostro farebbe una cosa così orribile a una ragazza? L’espressione di Reiko, tuttavia, si trasformò alla vista dello sconosciuto.
Malinterpretando la reazione della sua ospite, Enso si affrettò a presentarli: «Cara ragazza, perdonaci per aver fatto irruzione così a casa tua. Questo è padre Ayala: porta terribili notizie, notizie che probabilmente spiegano perché le rotte mercantili stanno cambiando…».
Ma la donna non ascoltava le parole del vecchio Enso. Si alzò in piedi e la tazza che aveva in mano cadde a terra rompendosi in mille pezzi. Appoggiandosi al primo scalino, allungò la mano verso Ayala, come se temesse di trovarsi davanti a un fantasma suscettibile di svanire da un momento all’altro.
«Martín…» sussurrò. «Padre Martín» ripeté, incapace di pronunciare altre parole.
La verità colpì Ayala traboccando nella sua mente, cancellando qualunque altra considerazione.
«Junko,» gemette, terrorizzato alla possibilità che i suoi occhi lo ingannassero «la mia piccola Junko, sei davvero tu?»
La donna gli si gettò fra le braccia, affondò la testa nel suo petto febbrile, si abbandonò al pianto. Lui la strinse con forza e le accarezzò i capelli mentre le lacrime, di gioia, di colpa, di sollievo, lo scuotevano e si mescolavano con quelle di lei.
«Piccola mia,» ripeté Martín Ayala, con voce rotta «grazie al cielo, sei viva.»