39

Sentieri che confluiscono

Una nebbia iridescente saliva dalla riva del fiume coprendo le risaie, annegando le viuzze del villaggio, strisciando su per il crinale fino a perdersi nella montagna. Era una notte di luna coperta, una notte da yokai, e due fantasmi scendevano per i terrazzamenti nella penombra: una era avvolta in uno yukata da notte sopra il quale indossava una veste senza maniche, uno spesso kosode; l’altro camminava in testa con passo deciso, quasi impaziente, curioso per una persona della sua età.

Reiko si strinse il kosode intorno alle spalle e osservò l’uomo che la precedeva. Che cosa sapevano davvero del vecchio Jigorō? Come potevano affidarsi a qualcuno di cui conoscevano poco più che il nome? E, nonostante tutto, ormai da tempo aveva abbandonato ogni prudenza con lui: si fidava di Jigorō-sensei come della sua stessa mano. Sapeva che avrebbe eseguito le istruzioni con polso deciso: spesso con più decisione di quella che lei stessa sarebbe stata in grado di mostrare.

Di sicuro sapeva, perché lui stesso gliel’aveva confessato, che veniva dalla parte orientale del paese, dalle terre del clan Takeda. Le ragioni che lo avevano spinto ad abbandonare casa sua erano un mistero, anche se Reiko sospettava che fossero l’esilio o la diserzione. Perché una persona del suo talento viveva tra semplici contadini quando il suo villaggio era stato attaccato dagli sōhei? Solo Jigorō stesso poteva dirlo. Reiko aveva sentito parlare di shinobi che si stabilivano in villaggi nemici, o per raccogliere informazioni, o per istigare rivolte che indebolissero il governo di turno; tuttavia, Jigorō aveva abbandonato la sua città nativa dopo che era stata rasa al suolo dai bonzi guerrieri e si era unito a padre Enso nei suoi sforzi per risollevare altri villaggi, per aiutare quei contadini che avevano perso tutto. Se era una spia, aveva obiettivi mutevoli e arbitrari, completamente imperscrutabili. All’inizio, quando condivideva quelle inquietudini con padre Enso, lui la tranquillizzava assicurandole che quell’uomo era, semplicemente, «una benedizione del cielo». Ora, mentre lo seguiva fra le risaie, Reiko si disse che, per essere un inviato di Dio, il vecchio agiva in modo ben poco devoto.

Jigorō abbandonò il sentiero principale e imboccò una stradina secondaria appena visibile nella nebbia. Il percorso si concludeva davanti a un capanno dove tenevano forche, falci e rastrelli. Strumenti affilati e pungenti, necessari in tempo di mietitura, ma anche utilizzabili per altre faccende. Qualcuno aveva fatto scorrere le imposte e da dietro le assi di legno filtrava la luce macilenta di una lampada a olio, che infiammava la bruma circostante e circondava il corpulento Tadayashi, di guardia accanto alla porta.

Il guardiano si irrigidì quando vide le due figure che emergevano dalla notte.

«Siamo noi» lo tranquillizzò Jigorō.

«Ichizo è ancora dentro, con l’intruso» informò l’altro. «Non ha detto una parola da quando è appeso.»

«Bene, non muoverti da qui.» Il vecchio aprì la porta di assicelle e fece entrare la dama Reiko.

Lei varcò la soglia con cautela, senza sapere molto bene che cosa avrebbe trovato dentro. C’era Ichizo seduto contro il muro che, con le braccia incrociate fuori dalle maniche, non staccava gli occhi dal prigioniero: era un uomo giovane, di poco più di vent’anni; gli avevano scoperto il torace e l’avevano appeso alle travi con delle corde legate ai polsi, le braccia molto aperte, in modo che i suoi piedi sfiorassero appena il pavimento di terra.

Senza dire una parola, Reiko si diresse in uno degli angoli del capanno e prese una falce dalla parete. Si avvicinò al prigioniero, che aveva la testa abbandonata sul petto, e gli appoggiò la lama ricurva sotto il mento, obbligandolo a sollevare il viso. L’interpellato le rivolse uno sguardo fiero, ma rimase in silenzio. Aveva già capito che non avrebbero creduto a nulla di quello che poteva dirgli, quindi ora si limitava a scrutarli con disprezzo.

Senz’altro, quello sguardo di sfida era proprio di un guerriero, come lo era anche l’hakana che gli copriva le gambe, o la sua costituzione: magro ma con spalle e braccia forti. Portò lo sguardo su Ichizo e vide che, accanto a lui, riposava il daishō che il presunto samurai aveva con sé.

«Un rōnin che sa come arrivare al nostro villaggio,» cominciò la donna «e che, una volta scoperto, dice di essere venuto ad avvertirci di pericoli imminenti.» Fece un passo indietro per contemplarlo meglio, attenta alle sue reazioni. «Capisci quanto suona insolita la tua storia?»

Il prigioniero non si disturbò nemmeno a ricambiare lo sguardo della donna. Sembrava assorto nella contemplazione delle sue spade, così vicine e insieme così lontane dalla sua portata.

«Sei venuto qui per un motivo, e il maestro Jigorō lo scoprirà.»

«Ve l’ho già detto» rispose alla fine l’uomo.

«Lui non ti crede. E se lui non ti crede, non ti credo nemmeno io» sentenziò Reiko. «Ma avrai modo di scoprire che è un tipo piuttosto persuasivo.» Guardò di sbieco il vecchio che aspettava accanto alla porta con le braccia incrociate, in attesa che lo lasciassero fare il suo lavoro. «Comincerà colpendoti con delle canne di bambù, così fini che ti apriranno la carne come coltelli. Poi ti staccherà da lì e ti butterà del sale sulle ferite; a partire da quel momento in pochi riescono a mantenere un contegno, di solito è lì che cominciano i singhiozzi e le suppliche. Se ancora resisti a dire la verità, ti conficcherà aculei di castagna sotto le unghie e userà le corde per sottometterti, per piegarti senza arrivare a spezzarti, giusto fino al punto in cui il dolore risulterà insopportabile. Resterai così per giorni e notti fino a quando non parlerai e, se non lo farai, ti schiaccerà le gambe con piastre di ferro, e se ancora continuerai a non parlare, ti avvelenerà per farti ammalare.» La donna raccontava tutto il procedimento con calma, ma il suo atteggiamento non era minaccioso. Anzi, traspariva la rassegnazione di chi spiega un compito che gli risulta sgradevole. «Jigorō-sensei è un uomo meticoloso e molto paziente, considera anche questo prima di mentirgli un’altra volta.»

«Io non mento» disse il samurai fra i denti. «E non si può certo dire lo stesso di voi. Vi nascondete in un villaggio di contadini, ma il vecchio è un torturatore e, dalle tue mani e visto il modo in cui impugni quella forca, ho seminato e raccolto più koku di riso io di quanto tu farai mai in vita tua. Chi siete davvero?»

Jigorō fece un passo avanti e lo colpì con un pugno nelle costole. Il prigioniero si contorse, appeso alle corde, ma non proferì alcun gemito.

«Quando qualcuno invaderà casa tua, potrai dedicarti a fare tu delle domande» disse Reiko. «Qui puoi solo rispondere, e ancora non l’hai fatto con onestà. Quindi ti darò un’ultima opportunità: chi ti manda?»

«L’ho già detto al vecchio, sono un goshi del feudo di Anotsu, il mio nome è Kudō Kenjirō. Ho conosciuto in circostanze disgraziate un ashigaru di nome Shintaro, prigioniero di una banda di criminali che lo stava utilizzando per raggiungere questo villaggio. Prima di morire mi ha spiegato come fare per trovare casa sua e mi ha pregato di avvisare la sua gente di ciò che stava per accadere.»

Ichizo si mosse con un brivido, senza abbandonare la sua posizione contro la parete; Reiko e Jigorō si scambiarono uno sguardo preoccupato.

«E hai acconsentito alla richiesta di un ashigaru moribondo, così», commentò la donna.

«Ho le mie ragioni.»

«E quali sono queste ragioni?»

«Nulla che vi riguardi.»

Jigorō fece un passo avanti, ma lei lo fermò con la mano.

«Dimmi, che cosa ci fa un samurai di Akechi così lontano dal feudo del suo signore?»

Per un istante, Kenjirō parve esitare. Guardò altrove, consapevole del dilemma che doveva affrontare, forse soppesando la possibilità di confidarsi… Ma finì per assumere un’espressione ancor più dura: «Sono un samurai, eppure osate interrogarmi come se fossi un delinquente. Per quanto mi riguarda, potreste essere banditi che si nascondono qui, abusando della gente del posto. Dov’è il capo del villaggio?».

«La dama Reiko è la nostra capa, verme» grugnì Ichizo dal suo angolo.

La donna lo zittì con lo sguardo, obbligandolo ad abbassare la testa. Poi si rivolse di nuovo al prigioniero: «E per quanto riguarda noi, Kudō Kenjirō, tu sei una spia che si aggirava per il nostro villaggio. Dici di essere un samurai del feudo di Anotsu, ma non c’è alcun blasone sulle sue vesti né tra i tuoi averi. Dici anche di aver assistito uno di nostri prima di morire, ma potresti anche averlo ucciso dopo averlo obbligato a rivelarti la nostra posizione. Ti rifiuti di rispondere alle nostre domande, e ti mostri arrogante. Fai molto poco perché noi possiamo evitare di considerarti un nemico.»

Reiko gli diede le spalle e si incamminò verso la porta. Quando scambiò uno sguardo con Jigorō, il vecchio annuì, accettando il tacito ordine. Ma prima che la donna potesse uscire dalla capanna, il samurai parlò alzando la voce: «Avete catturato qualcun altro?».

La donna si voltò versò di lui con uno sguardo carico di sospetto.

«Che cosa vuoi dire?»

«Non avete trovato un altro uomo perso per questi sentieri?»

Con grande sconcerto di Reiko, la voce del ragazzo denotava sincera preoccupazione.

«Speravi di incontrarti qui con qualcun altro?»

«No» si limitò a rispondere il prigioniero, coprendosi di nuovo dietro la sua maschera di imperscrutabile sdegno.

«Resterai qui per la notte» annunciò allora la donna. «Se ti deciderai a parlare, dillo a Ichizo. Al contrario, una volta che il giorno sarà spuntato, sarai nelle mani di Jigorō.» E fece un cenno al vecchio di seguirla fuori.

Il giorno dopo, prima che sorgesse il sole, Reiko scivolò fuori dal letto, accese una lanterna e attraversò la casa diretta alle stanze sistemati nella parte posteriore, vicino alla cucina. Era restia a implicare padre Martín nelle questioni della comunità, consapevole che per i suoi compagni fosse uno sconosciuto, qualcuno di cui non si potevano fidare per quanto rispetto potesse infondergli la figura di un padre cristiano. C’era un’altra ragione che era più intima, più difficile da ammettere: temeva che il suo antico mentore potesse intravedere il turbolento mondo di bugie e cospirazioni sul quale aveva costruito quel rifugio, sul quale aveva gettato le basi della sua nuova vita.

Tuttavia, un sospetto si era fatto largo nella sua mente e la ferita non aveva smesso di suppurare per tutta la notte. Quindi si inginocchiò accanto alla porta della stanza e, socchiudendo il pannello shōji, illuminò l’interno con una lampada appesa all’estremità di un bastoncino.

«Padre Martín,» chiamò dalla soglia «mi dispiace interrompere il vostro riposo. Devo chiedervi una cosa, e devo chiedervela adesso.»

Attraverso il pannello sentì il frusciare delle coperte, seguito da un grugnito sonnolento, disorientato.

«Junko?» mormorò Ayala dalla penombra.

«Padre Martín, le dice qualcosa il nome Kudō Kenjirō?»

Ci fu un breve silenzio, dopo il quale la donna riuscì a sentire il sacerdote che si alzava e camminava sul tatami. La porta si aprì con veemenza e il gesuita apparve sulla soglia, indossando uno dei kimono da notte di Jigorō.

«Dove hai sentito questo nome?»

«È qualcuno di cui ci dobbiamo preoccupare?» chiese lei a sua volta.

«È l’uomo di cui ti ho parlato. Se sono qui davanti a te, è grazie a lui.»

Reiko annuì con serietà.

«Accompagnatemi, padre, voglio mostrarle una cosa.»

Attraversarono il bosco e si inoltrarono nelle risaie. La nebbia della notte precedente cominciava a dissiparsi e le balle di fieno appena tagliato, ammucchiate sui bancali, spuntavano oltre il mare di bruma con il rossore dorato delle prime luci dell’alba.

Il capanno degli attrezzi era isolato, lontano dai campi coltivati, ma Reiko si incamminò senza esitazioni in quella direzione. Appese la lanterna accanto all’entrata e spinse la porta con la spalla. Questa si aprì bruscamente, provocando un sussulto di Ichizo, che si affacciò subito. La sua capa gli chiese di tornare dentro e, dietro la donna, entrò il religioso: passi esitanti, sguardo sconcertato. Ci mise ancora un istante a capire chi era quell’uomo appeso al soffitto, incosciente, con la testa abbattuta sul petto.

«Kenjirō!» gridò, gettandosi verso di lui, prendendogli la testa fra le mani. «Presto, fatelo scendere!» pretese, imperioso.

Reiko guardò di sbieco Ichizo per indicargli di obbedire, e il contadino tagliò le corde che mordevano i polsi del prigioniero.

Kenjirō crollò su Ayala, che ricevette di colpo tutto il suo peso. Riuscì a sostenerlo a malapena, fino a depositarlo sul pavimento, con l’aiuto di Reiko.

«Ayala-sensei,» mormorò il samurai con un sorriso «ho pregato per lei. Sono felice di sapere che il dio crocifisso ascolta anche le suppliche di un semplice goshi

Il gesuita rise, abbracciandogli la testa.

«Mio caro ragazzo, quanto ho temuto di non rivederti più.» E, rivolgendosi agli altri: «Dategli dell’acqua, ha la bocca secca» li incitò. «E i vestiti, e il suo daishō».

Reiko prese le spade che Ichizo aveva appeso fra gli attrezzi, come volgari strumenti di lavoro, e le mise nelle mani del samurai, che lo ringraziò con un cenno sbrigativo.

«Perché gli avete fatto questo?» volle sapere Ayala. «Che male poteva farvi quest’uomo?»

Kenjirō cercò di bere dal tubo di bambù che Ichizo gli aveva consegnato, ma aveva le braccia intorpidite, incapaci di sostenere il peso della borraccia. Fu Ayala a dargli da bere finché il goshi non scoppiò in una tosse soffocata.

«Hanno fatto quello che dovevano» interruppe il samurai dopo aver ripreso fiato. «Sono un intruso nelle loro terre, una minaccia per la loro gente.»

«Quello che ci hai detto è vero?» chiese Reiko. «Shintaro è morto a Hiei?»

«A Hiei è caduto suo figlio, schiacciato dalla cavalleria dei monaci Tendai. Shintaro è sopravvissuto alla battaglia, solo per poi finire nelle mani di una compagnia di mercenari che cercava sopravvissuti venuti da questa zona.»

«Allora, anche Taro è morto» balbettò Ichizo. «Qualcuno… qualcuno dovrà dirlo ad Hakura. Ha perso suo marito e suo figlio, e ne ha un altro in arrivo che nascerà senza padre.»

«Ci parlerò io,» lo tranquillizzò Reiko «ma solo quando sarò sicura dell’accaduto. Esci e fa’ in modo che nessuno ci disturbi.»

Ichizo annuì, sconvolto per quelle terribili notizie, e si congedò con un sommesso inchino. Una volta soli, fu Ayala a prendere la parola, incapace di nascondere l’entusiasmo di rincontrare il suo compagno di viaggio: «Ogni giorno ho pregato Dio e la corte celeste perché ti proteggessero da ogni male.» Appoggiò le mani sulle spalle del samurai, anche se si trattenne dall’abbracciarlo, consapevole che tali dimostrazioni di affetto lo imbarazzavano. «Dopo che ci siamo separati, le cose sono andate di male in peggio: se non fosse stato per dei venditori di alghe che mi hanno portato fino allo sbocco dell’Akutagawa, non sarei mai arrivato fin qui.» D’un tratto, la sua espressione fu adombrata dai rimorsi: «Non avrei dovuto abbandonati in quella cappella. Quando la mattina mi sono svegliato, sono tornato a cercarti, ma non c’eri più. Ti ho cercato lungo il fiume, sono tornato fino alle rive del Biwa, poi mi sono avviato per i sentieri, temendo di averti perso per sempre…»

Anche Kenjirō gli strinse la spalla per confortarlo, e fe-ce per mettersi in piedi. Il gesuita si affrettò ad aiutarlo.

«Avete fatto quel che vi avevo detto di fare» fu la risposta del suo yōjinbō, più preoccupato a mantenere l’equilibrio che per gli avvenimenti di quella notte funesta. «Se foste rimasto lì, nessuno di noi due sarebbe uscito vivo da quella cappella.»

«Che cosa è successo poi? Come sei arrivato fin qui?»

«Ho visitato ogni stazione di posta e pedaggio a sud di Hiei, scendendo verso la strada Nakasendō, ma nessuno aveva visto un corvo sgraziato che vagava per i sentieri.» Il giovane sorrise. «Alla fine, in una locanda di Chitodake, ho trovato Shintaro. Tutto il villaggio era preso dai mercenari e lui viaggiava con loro per fargli da guida.»

«Da guida?» intervenne Reiko, che fino a quel momento aveva rispettato l’intimità di quell’incontro.

«Quegli uomini sembravano una squadra di saccheggio che si dirigeva al feudo di Fuwa-sama: quando ho scoperto Shintaro fra loro, ho deciso di unirmi al gruppo nella speranza che il vostro compagno potesse guidarmi fino al monte Miyoshi, dove dovevo incontrarmi con Ayala-sensei.»

«Questo era il vostro punto di incontro? Perché?»

«Una donna al servizio del signor Fuwa, la dama Nozomi, ci ha dato istruzione di cercare questo posto» spiegò Ayala. «Lei ci avrebbe raggiunti qui, ma prima doveva indagare sul tradimento commesso per Tsumaki Kenshin.»

Reiko chiuse gli occhi, angosciata. Il mondo seguiva il suo corso fuori da quella valle e loro avevano commesso l’errore di tenersi ai margini, fiduciosi che Fuwa Torayasu gli avrebbe offerto protezione fin quando avessero soddisfatto le sue richieste. Come Jigorō aveva insistito a dire tante volte, non conveniva piegarsi alla volontà di un solo signore: questo era il modo di agire dei samurai, ma non poteva essere anche il loro se aspiravano a sopravvivere in quel mondo in guerra.

«Hai detto che ti sei unito a quei banditi perché Shintaro era con loro. Quando è morto, allora?» chiese la donna.

«Devi sapere che gli uomini con cui viaggiava non erano semplici saccheggiatori, anche se fingevano di esserlo. Cercavano un posto concreto, un villaggio sulle rive dell’Akutagawa e all’ombra del monte Miyoshi.» Il samurai annuì vedendo lo sguardo sorpreso di Reiko. «Proprio così, cercavano questo villaggio a cui fate la guardia con tanta solerzia, e usavano Shintaro per arrivarci. Uno di quegli uomini in particolare, un rōnin, sembrava essere colui che li spingeva fin qui. Sapeva qualcosa di cui gli altri erano all’oscuro e li incitava con la promessa di grandi ricchezze.» Kenjirō bevve l’ultimo sorso dalla borraccia e si asciugò le labbra con un’espressione sprezzante, come se l’acqua avesse un cattivo sapore. «Ho detto a Shintaro che dovevamo fuggire, gli ho spiegato che cosa sarebbe toccato alla sua gente se li avesse portati fin qui. Disgraziatamente, mentre scappavamo, l’hanno ferito con una nagamaki. È morto poco dopo senza che io potessi fare nulla.»

Quando Kenjirō tacque, un silenzio minaccioso si impossessò della stanza. Ayala contemplò il turbamento della sua antica discepola, sopraffatta per le notizie nefaste che le portavano. Che cos’era un corvo, alla fin fine, se non un uccello del malaugurio?

«Junko, c’è una cosa che devo chiederti. Quando la dama Nozomi ci ha dato appuntamento qui, mi ha assicurato che avrei trovato risposte a molte delle mie domande. E da quanto ci racconta Kenjirō, anche altri uomini sono in cerca di questo posto, disposti a uccidere per trovarlo… Che cosa mi nascondi, ragazza? Che cosa sta attirando qui tutta questa gente?»

Reiko sospirò, con gli occhi pieni di rassegnazione: «Ci sono segreti che sono un castigo per chi li conosce, padre».

«Non hai ragione di proteggermi, Junko. Ho affrontato molti ostacoli per arrivare fin qui, e li ho superati tutti con l’aiuto del Signore e la protezione di quest’uomo. Un segreto in più non mi ucciderà e, forse, aiuterà a fare un po’ di chiarezza su questa storia.»

Lei li osservò, valutandoli come se li vedesse per la prima volta, cercando di convincersi che non avrebbe fatto niente di male alla sua comunità se si fosse fidata di loro, che il suo antico maestro, nel conoscere la nuda verità delle sue azioni, non le avrebbe trovate disprezzabili.

«Non devono vederci» disse alla fine. «Approfitteremo del fatto che la giornata nelle risaie non è ancora cominciata. Vi mostrerò quel che nascondiamo nel bosco, e poi deciderete se proseguire per la vostra strada o se restare qui, a lottare contro ciò che verrà a strapparci l’unica cosa che ci tiene in vita.»