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La forza del debole, la debolezza del forte

«Sei sicuro di conoscere la strada?» chiese il capo Sasaki, ancora contrariato perché doveva viaggiare a piedi.

Avevano perso una delle ruote del carro e si erano visti obbligati a dividere i bagagli fra i pochi cavalli. A sentire Raisho, non era nemmeno da considerarsi un contrattempo: trascinare un carro per quei sentieri di montagna, sinuosi e traditori, significava davvero tentare la sorte.

«Forse ci metteremo un po’ di più ad arrivare senza l’aiuto di quel disgraziato, ma ci arriveremo» rispose il rōnin, che camminava accanto a lui grattandosi la barba. «Dobbiamo avanzare verso occidente fino all’Akutagawa; sembra che in questo periodo dell’anno scorra profondo, quindi non c’è rischio di confonderlo con un affluente. Poi bisognerà solo risalire il fiume fino a trovare il monte Miyoshi. Nemmeno i tuoi uomini si perderebbero.»

Sasaki strinse i denti per non rispondergli. Faticava sempre più a sopportare il trattamento irrispettoso che quel vagabondo gli riservava, il suo vagare spensierato con le spade in spalla, come se gli facesse un favore a regalargli la sua compagnia.

«Mi dici una buona volta che cosa cerchiamo in un puzzolente villaggio contadino?»

Raisho sorrise nell’ascoltare quella domanda per l’ennesima volta. Sulle loro teste, sopra le chiome degli alberi, svolazzò un corvo. Il suo gracchiare rimbombò contro il crinale roccioso, rompendo la calma del pomeriggio autunnale.

«Di questo non devi preoccuparti» rispose, con la condiscendenza che si riserva ai bambini e agli idioti. «Ti basti sapere che, se fate quel che vi dico, avrete denaro a sufficienza per scaldarvi con sakè e puttane tutte le notti della vostra miserabile vita.» E, guardando di sbieco il capo dei mercenari, aggiunse: «E poi, non mi pare che tu abbia grandi alternative, o sbaglio?».

Come per ricalcare l’insidia di quelle parole, delle gocce di pioggia cominciarono a picchiettare sul cappello di Sasaki. Sembrava che perfino il cielo cospirasse per rovinargli l’umore. Il rōnin, tuttavia, non fece nemmeno il gesto di coprirsi: si limitò ad alzare gli occhi e a ricevere con indifferenza la gelida pioviggine che i kami rovesciavano su di loro.

Per qualche motivo, quell’atteggiamento impassibile fece ulteriormente imbestialire il mercenario: «Raisho di Shikoku, non so chi ti manda o perché sei qui, ma ti avverto che se ti prendi gioco di noi io stesso ti taglierò la gola».

L’altro rise nel sentire quella minaccia.

«Ci sono poche cose più inutili che una minaccia di morte. Secondo la mia esperienza, se davvero hai intenzione di uccidere qualcuno, è meglio non avvisarlo.»

Sasaki fece uno sforzo per trattenere la rabbia. Prima o poi, gli avrebbe tagliato quella lingua da vipera, si disse per rimediare un po’ di pazienza, e affrettò il passo per allontanarsi dall’insolente samurai. Si avvicinò a uno dei cavalli e, impugnando il coltello, tagliò le fasce che gli fissavano i fagotti in groppa. Il carico cadde sul terreno fangoso.

«Capo!» protestò uno dei suoi uomini. «Gli archibugi non si devono bagnare!»

«E allora raccoglili, imbecille» esclamò Sasaki, mentre si issava sul dorso dell’animale. «E portali in spalla. Non ho intenzione di sporcarmi i piedi di fango.»

Ornamento di separazione

Dalla cima della scarpata, vicina al bordo quanto lo permetteva la sua giumenta, la dama Nozomi osservava la carovana che imboccava l’angusto sentiero.

Il suo signore era morto e il suo esercito disperso, ma la sua rete di informatori continuava a funzionare. La sera stessa in cui era tornata da Gifu, l’avevano messa al corrente del fatto che un gruppo di banditi attraversava di nascosto il feudo di Takatsuki, evitando le stazioni di posta e ignorando i villaggi e le piantagioni più lontane dalle strade principali, prive di protezioni e più facili da saccheggiare.

Incuriosita, aveva deciso di cercare gli intrusi subito dopo essersi confrontata con il primo consigliere Hasekura, uomo forte del clan in quei momenti. Li aveva trovati quella stessa mattina, dopo aver cavalcato per tutta la notte con un animale di ricambio. Da allora li aveva seguiti come un fantasma, e non aveva tardato molto a capire dov’erano diretti.

Li contò un’altra volta: cinquantasei uomini e otto cavalli. Fece schioccare la lingua, preoccupata. Erano troppi, soprattutto se in quei fardelli trasportavano degli archibugi, come sospettava. Non c’era tempo di armare un esercito di ashigaru, e men che meno di far arrivare dei samurai dalla fortezza di Ashiya, la più vicina, che si trovava comunque a più di venti ri di distanza. Non le restava che affrettarsi e avvisare Reiko e i suoi uomini.

Si calcò il sugegasa sulla fronte prima di tirare le redini e rimettersi in sella. L’animale si allontanò dalla scarpata per imboccare l’unico sentiero in vista, appena un solco che divideva in due la collina esposta all’acquazzone. Mentre cercava la strada che l’avrebbe condotta a Miyoshi, la mente di Nozomi volò fino alla corte di Gifu, di ritorno ai suoi corridoi scaldati con centinaia di bracieri e profumati con incenso koboku. Aveva cercato di parlare con Nobunaga in persona, ma la burocrazia del clan Oda si era dimostrata invalicabile. Era riuscita soltanto a ottenere un colloquio con uno dei consiglieri del grande daimio, che aveva ascoltato in grave silenzio il racconto di quanto accaduto sul monte Hiei e la notizia del tradimento di Tsumaki Kenshin.

Una simile accusa contro il cognato di Akechi Mitsuhide, uno dei quattro principali generali di sua signoria, avrebbe dovuto causare una profonda costernazione nella corte. Tuttavia, il consigliere di Oda si limitò a congedarla senza altra reazione che un sommesso ringraziamento. Significava forse che a Gifu erano già al corrente di quegli eventi?, o forse Kenshin era così benvoluto a corte da spingere i funzionari a occultare il suo tradimento?

In ogni caso, non si sarebbe data per vinta tanto facilmente. C’erano altre vie per arrivare a Nobunaga, vie pericolose che richiedevano audacia e certi sacrifici, ma che genere di emissaria poteva ritenersi se non riusciva a far ascoltare la voce del suo signore per un’ultima volta?

Reiko li condusse nel fitto bosco che circondava il villaggio, una barriera naturale che lo riparava dal vento di ponente e dagli sguardi dei forestieri, al punto che, dal fiume, si riuscivano a vedere soltanto i pini radunati sulla falda del monte Miyoshi, senza avvertire le risaie terrazzate che precedevano la pineta né la cittadina che stava in agguato dietro di essa.

Salvo per il sentiero che univa la manciata di case con i campi coltivati, il bosco sembrava del tutto impenetrabile, così fitto di tronchi, erbacce e rami aggrovigliati che solo una leggerissima brezza sarebbe stata in grado di infiltrarvisi. Tuttavia, la donna conosceva fessure e passaggi nella boscaglia che permettevano di muoversi al suo interno. Scostarono rami e arbusti, saltarono ceppi e guadarono ruscelli di acqua gelata finché, all’improvviso, la vegetazione non si aprì per lasciare spazio a una grande radura nel cuore stesso del bosco: uno spazio di circa cinquanta tatami di superficie, calcolò Kenjirō, girando su se stesso per farsi un’idea del luogo. Uno spiazzo ricavato dall’uomo, non c’erano dubbi.

Ayala, da parte sua, si era fermato ai margini della radura. Era stato attirato dalla corteccia scheggiata degli alberi, dalle ferite nel legno, che trasudavano linfa cercando di cicatrizzare. Stava passando la mano su uno dei tronchi rovinati quando Reiko li chiamò: «Venite qui, aiutatemi».

La donna sollevò un grande rastrello, invisibile nel fogliame salvo per chi sapesse dove cercarlo, e cominciò a scostare mucchi di foglie di ginkgo e aghi di pino in un punto preciso della radura. I suoi due accompagnatori la aiutarono con le mani senza sapere che cosa cercavano esattamente, finché non trovarono sotto lo strato di sterpaglia una fune di corda intrecciata.

Reiko se la annodò intorno al polso, si allontanò di qualche passo e, puntando i piedi, tirò con forza: a poco a poco, un grande rettangolo di fogliame cominciò a sollevarsi da terra. Kenjirō comprese quel che la donna stava cercando di fare e si affrettò a tirare anche lui dall’estremità della fune. L’enorme portone nascosto sotto le fronde batté stridendo sui cardini, sollevandosi lentamente verso il punto di equilibrio, finché, con un ultimo strattone, lo fecero cadere nella direzione opposta. La placca rimbombò colpendo terra, schiacciando le foglie morte sotto il suo peso.

Ai loro piedi, del tutto fuori luogo in mezzo a quel paesaggio, fu aperta una grande botola rettangolare delimitata da profili in legno. Dei gradini scendevano verso un’oscurità che odorava di muffa e segreti, e Reiko li scese risoluta, come doveva aver fatto centinaia di volte. Dopo poco, lo scricchiolio di un acciarino e il riverbero di una lanterna gli indicarono che anche loro potevano avventurarsi giù per le scale.

Il deposito non era molto profondo, era costruito completamente in legno e il tetto basso li obbligava a chinare il capo, specialmente Ayala. La lampada di Reiko riusciva a malapena a illuminare gli angoli più lontani, ma capirono che la stanza si estendeva sotto gran parte della radura. C’erano coperte di paglia e sacchi di riso sparsi fra scatole, barili e bauli, senza dubbio al fine di assorbire l’umidità che penetrava dalla superficie, a cui contribuiva anche lo spesso strato di fogliame che copriva la radura.

Chi l’aveva costruito sapeva quel che faceva, pensò Kenjirō, che capì che tutta quella protezione contro l’umidità significava una cosa sola: polvere da sparo. In ogni caso, non ebbero tempo di entrare nei dettagli, poiché Reiko, dopo aver recuperato un lungo fagotto avvolto nella tela, si avviò fuori senza dare altre spiegazioni.

Ayala e Kenjirō si videro costretti a seguirla per non restare al buio. Quando la raggiunsero nella chiara luce del mattino, la donna sciolse i nodi che avvolgevano il fagotto e scoprì un archibugio. Senza dire una parola, lo porse a padre Ayala che, confuso, lo prese fra le mani, a disagio a contatto con quel ferro così freddo.

«Non capisco» disse, soppesando l’arma. «È questo che nascondete? Il Giappone è pieno di armi da fuoco, si sono diffuse come una malattia per colpa dei nanban. I fabbri le producono a centinaia da…»

«Dove va la miccia?» lo interruppe Kenjirō, che aveva notato la struttura particolare del fucile.

«Non c’è miccia,» rispose lei «non ne ha bisogno.»

«Com’è possibile una cosa del genere? Senza fiamma non è possibile far scoppiare la polvere. Lo sa chiunque.»

Reiko recuperò l’arma dalle mani di Ayala e la sostenne delicatamente contro il petto, come chi culla un bambino. Slegò con i denti una borsina che aveva nascosto sotto l’obi: dentro c’era della polvere, un proiettile e una piccola chiavetta di metallo. Caricò l’arma e infilò il proiettile nella canna del fucile. Poi, ritrasse la leva collocata sopra l’impugnatura, simile alla serpentina che sosteneva la miccia in ogni archibugio, anche se in questo caso sosteneva una piccola pietra di un grigio brillante. Riempì lo scodellino di polvere da sparo e, come ultima cosa, introdusse la piccola chiave in un’apertura laterale per poi darle un quarto di giro.

Aveva eseguito ogni passo con precisione e scioltezza, dimostrando una familiarità con l’arma che sembrava sconcertante in una donna. In ogni caso, il samurai la guardò con sospetto quando annunciò loro che l’archibugio era pronto a sparare.

«Ti prendi gioco di noi?»

Per tutta risposta, Reiko sollevò il fucile contro gli alberi che delimitavano la radura. Bilanciò la canna del fucile con la sinistra e visualizzò lo sparo proiettandolo dalla bocca dell’arma, come se il suo sguardo fosse il proiettile. Trattenne il respiro e sparò.

La detonazione fece sussultare i due osservatori, increduli davanti a quel che era appena successo. Le schegge saltarono dalla corteccia di uno degli alberi e un ramo si staccò cadendo a terra. Aveva colpito proprio il nodo del tronco.

La donna abbassò la canna e prese a fissarli, in attesa delle loro parole, ma entrambi erano ammutoliti.

«È un nuovo tipo di fucile arrivato dall’Europa» spiegò alla fine. «Invece di una miccia, ha una ruota e una pietra focaia all’interno. Quando si preme il grilletto, il mollone viene liberato e la ruota gira, la leva con la pirite all’estremità salta e colpisce la ruota, provocando le scintille che fanno detonare la polvere da sparo.» Gli uomini avevano ancora la stessa espressione sconcertata, come se gli stesse svelando un arcano incomprensibile. «Non avete ragione di comprenderne i rudimenti, vi basti sapere che si carica dieci volte più velocemente di un tanegashima, il tiro è preciso fino a tre cho di distanza, e non ha bisogno di una miccia lenta che può essere spenta dal vento o dalla pioggia, perciò si può sparare anche nell’occhio di un ciclone.

Come se non bastasse, è temibile nelle imboscate, poiché non emette luce né odore che possano rivelare la posizione del tiratore prima del colpo. Capite che cosa significherebbe se un’arma del genere finisse nelle mani sbagliate?»

«È… è un’arma stupefacente» mormorò Kenjirō.

«È un’altra perversione portata dagli europei» maledisse Ayala. «Com’era successo con gli archibugi, a breve ogni daimio vorrà armare i propri uomini con questo strumento diabolico. Verranno navi cariche da Goa, gli armaioli giapponesi non si fermeranno finché non saranno in grado di replicarla e, poco dopo, gli eserciti dei signori samurai potranno uccidere più velocemente, da una distanza maggiore, in maggior numero… Questo è tutto quello che gli interessa.»

«Ma non succederà» lo contraddisse Reiko, serena. «Questi fucili sono difficili da costruire e molto rari, non abbondano nemmeno in Europa. Usano meccanismi simili a quelli degli orologi nanban, che nessun artigiano giapponese è mai riuscito a ricreare. Per ora, l’unico modo di procurarsi un fucile a ruota è attraverso la Compagnia Marittima di Coimbra, e così deve continuare a essere.»

Ayala strinse gli occhi, cominciava a capire le implicazioni di quel che Reiko stava dicendo.

«Siete voi a introdurre queste armi nel paese, avete il controllo dell’importazione e le mettete al servizio del clan Fuwa.»

«Vivere nella casa di un mercante portoghese a Osaka mi ha portato molte disgrazie.» Una smorfia feroce contrasse la sua cicatrice. «Ma ho anche imparato alcune cose: come funzionava davvero il porto di Osaka, come si evitavano le dogane, a chi ricorrere per sapere con anticipo cosa traportavano le navi nere nelle loro stive… Ho imparato a rendermi utile per sopravvivere.» Abbassò lo sguardo, eludendo il giudizio del suo mentore. «Il traffico d’armi è venuto dopo, quando ho saputo dell’esistenza di questo nuovo modello di archibugio e ho avuto l’opportunità di contemplarlo con i miei stessi occhi. Ho capito immediatamente quello che avrebbe significato controllare una merce così rara e di valore per i signori della guerra.»

«E sei diventata una contrabbandiera» la rimproverò Ayala. «Hai usato a tuo vantaggio tutto quello che hai imparato.»

«No! L’ho usato per metterlo a servizio di padre Enso, per aiutarlo a costruire questo posto.» Allargò le braccia per mostrargli il fucile che aveva appena sparato. «Non lo vedete? Questa non è un’arma, è la chiave del nostro futuro, ciò che ci permetterà di sopravvivere in questo paese in guerra. Finché controlleremo la merce e la terremo segreta, varremo qualcosa. Ogni daimio ci darà protezione in cambio di poter armare i propri uomini con questi fucili ed evitare che cadano nelle mani del nemico.»

«Se il signor Fuwa disponeva di armi simili, perché non le ha utilizzate a Hiei?» intervenne Kenjirō.

«Non conosco le sue ragioni,» rispose Reiko «ma posso immaginarle. Il clan possiede solo tre battaglioni allenati a maneggiare questi fucili: finché non li avesse impiegati, avrebbero continuato a essere la sua arma segreta, un elemento destabilizzante da usare con un effetto sorpresa. Torayasu-sama ha dovuto ritenere che l’assedio del monte Hiei non avrebbe presentato troppe difficoltà e ha preferito tenersi questa carta per contese future.»

«Ma lì sotto ne avete nascosti molti altri,» osservò Ayala «decine, almeno.»

«Dobbiamo assicurarci di essere capaci di difenderci anche da soli.»

«Non è solo per questo» disse il gesuita. «Il clan non sa quante armi arrivano con ogni carico, non è vero? Quindi voi gliele lesinate, perché più armi consegnerete, meno dipenderanno da voi.»

Lei rimase in silenzio.

«Quanti tra i vostri uomini sono capaci di utilizzare questi fucili?» chiese Kenjirō, che si preoccupava dei pericoli imminenti.

«Vari uomini e donne. Facciamo allenare coloro che hanno dimostrato maggior perizia nel maneggiarli.»

«Quanti?» insisté lui.

«Ventisei.»

«Non bastano. La banda di Sasaki è composta da più di cinquanta uomini, almeno la metà di loro armata di archibugio. Banditi abituati a uccidere, non contadini che hanno puntato solo contro ciotole di terracotta.»

«Questa gente ha già perso tutto una volta, non si farà intimorire così facilmente» rispose Reiko, con aria di sfida. «Hanno patito dolori e miserie inimmaginabili. Sanno bene che la vita non è la cosa peggiore di cui possono essere privati.»

«Quelli che sanno difendersi non sono la nostra preoccupazione principale» li interruppe Ayala. «La prima cosa che dobbiamo fare è portare via i bambini e gli anziani da qui, portarli sulla montagna.»

«Non ci saranno sopravvissuti se non li affrontiamo, Ayala-sensei. I banditi pretenderanno grano, sakè, donne, il poco oro che i contadini potranno mettere insieme… E se non lo otterranno, rivolteranno ogni pietra finché non resterà nessuno in vita.»

«Basta. Non spetta a voi decidere nulla di tutto questo» concluse Reiko. «Questo pomeriggio si riunirà il consiglio del villaggio, e valuteremo come affrontare la minaccia. Fino ad allora, non fate parola di quel che vi ho rivelato, poiché per loro non siete altro che forestieri. Io mi occuperò di preparare il terreno al consiglio e parlerete in quella sede, quando vi verrà richiesto.»

Stanco di aspettare davanti alla casa, Kenjirō decise che la cosa migliore da fare era passeggiare nei dintorni: familiarizzare con la cittadina e i suoi meandri, le possibili vie di fuga, i punti dove appostarsi… Qualsiasi dettaglio che avrebbe potuto essere utile nell’organizzare una difesa.

Tuttavia, aveva appena attraversato la piazza centrale del villaggio quando ebbe la sensazione di essere seguito. Si guardò alle spalle e vide una fila di cinque bambini che sfilavano dietro di lui, ognuno con un paio di rami fissati in vita a mo’ di daishō, imitando con fare marziale il suo modo di camminare. Kenjirō si girò di colpo e l’improvvisato battaglione si disperse via di corsa. Solo una bambina rimase ferma davanti a lui, una piccina di non più di sette anni, con sguardo deciso, la mano sinistra che riposava sull’impugnatura della sua «katana

«Quindi siete un samurai» commentò con misurata indifferenza, osservando Kenjirō dalla testa ai piedi.

«Sono Kudō Kenjirō, vassallo del signor Akechi Mitsuhide, del feudo di Anotsu.»

«Anche io sono una samurai» annunciò lei, alzando il mento. «Io mio nome è Akemi, del feudo di… del monte Miyoshi.»

«Vedo che portate il daishō con gran disinvoltura. Dovete essere una guerriera molto temuta da queste parti.»

Il resto dei bambini si erano riuniti per osservarli a distanza, affacciati dietro un barile d’acqua sotto la tettoia di una casa.

«Mi temono in tutta la provincia» confermò lei. «Quando sguaino la mia katana, tutti cominciano a tremare.» Con orgoglio diede una pacca al ramo di abete.

«Devo chiedervi permesso, quindi, per visitare le vostre terre?»

«Così è. In questa occasione vi lascerò andare perché mi siete simpatico, samurai-sama, ma la prossima volta che non mostrerete il debito rispetto, dovrò sfidarvi a duello.»

«Ringrazio Marishiten per la vostra magnanimità, mia signora, vi prometto che mi comporterò come si deve d’ora in poi.»

Akemi annuì soddisfatta e, facendo mezzo giro, si allontanò con alterigia, lasciando indietro Kenjirō con un sorriso acceso in volto.

Nel vederla andar via con i suoi amici, che ora la seguivano con il rispetto che si deve a una grande onna bugeisha, sentì un pizzico di nostalgia. Quella bambina era poco più piccola di Fumiko. Quanti giorni erano trascorsi da quando aveva salutato per l’ultima volta sua sorella? Non voleva contarli, sperava solo che, se fosse riuscito a tornare, lei non si sarebbe spaventata alla vista di quell’uomo con la morte negli occhi, e che avrebbe ancora voluto addormentarsi fra le sue braccia.

Chiuse gli occhi e si scosse via la nostalgia con un gemito. Fu colto da una nuova determinazione: quei bambini avevano diritto a vivere in pace, lontani dalla guerra e dalle sue miserie.

«Signor Kudō» lo chiamò una voce alle sue spalle. Si trattava di Ichizo, l’uomo che gli aveva fatto la guardia nel capanno degli attrezzi e che ora si rivolgeva a lui con un inchino prolungato: «Il consiglio del villaggio desidera sentire quello che avete da dire. Seguitemi, per favore».

Kenjirō lo seguì in silenzio. Sembrava che, una volta fugati i sospetti su di lui, quella gente lo trattasse con il rispetto che si deve a un membro della sua casta. Al punto che Ichizo gli lanciava sguardi fugaci senza osar sollevare la testa, come se temesse che da un momento all’altro lui si sarebbe vendicato dell’affronto della notte prima con un colpo di spada. Quell’atteggiamento timoroso infastidiva Kenjirō, lo offendeva persino, poiché non smetteva di considerarsi un goshi abituato a trattare la terra e chi la lavorava con rispetto, molto diverso dai samurai cortigiani che esercitano il loro diritto al kiri-sute gomen al minino scontro. Ai suoi occhi, la sera prima Ichizo si era limitato a fare il suo dovere, e se avesse impugnato Filo di Vento contro di lui, sarebbe stato un disonore non solo per sé, ma anche per suo padre e per la spada di famiglia.

L’uomo lo condusse verso l’unica casa con la base in pietra e le tegole di terracotta. Aprì la porta e annunciò la presenza del samurai, per poi farsi da parte cedendogli il passo. L’atmosfera era tiepida, riscaldata dal grande braciere al centro della stanza, intorno al quale sedevano vari uomini e qualche donna, anziani per la maggior parte. A poco a poco riconobbe qualche volto: quello di Reiko, seduta accanto a un uomo con la schiena curva e la barba bianca, probabilmente il più anziano del villaggio; poi quello che l’aveva interrogato la notte prima, il tale Jigorō-sensei, un uomo che trasudava ombre e segreti, uno shinobi, senza dubbio. Non mancava nemmeno il bateren che viveva tra quella gente, un vecchio conoscente di Ayala-sensei, a quanto pareva. Tutti seduti spalla contro spalla nel cuore della stanza illuminata appena e, di fronte a loro, come il reo che appare di fronte a un tribunale, c’era proprio Ayala, che sorrise al suo compagno vedendolo entrare.

L’anziano del villaggio lo salutò con un cenno del capo e gli indicò il cuscino sistemato accanto al gesuita. Kenjirō si sedette in silenzio, con l’unica accortezza di sistemare le spade alla sua destra sul tatami.

«Signor Kudō Kenjirō, grazie per essere accorso al nostro cospetto» cominciò l’anziano. «Il mio nome è Inori è sono a capo di questo consiglio da cinque anni. Siamo consapevoli che non avete motivo di rispondere alle nostre domande, ma saremmo molto grati se lo facesse.» Appoggiò le mani a terra e si chinò con il debito rispetto davanti al samurai.

«Risponderò a qualunque domanda mi farete.»

L’anziano si rimise seduto con lo sguardo basso, in segno di umile ringraziamento. Fu Reiko a prendere la parola allora: «Padre Ayala ha tenuto a informarci degli avvenimenti che vi hanno portato fin qui, ma c’è una serie di questioni che solo voi potete chiarire» cominciò la donna. Aveva un tono rispettoso, ma ben lungi dalla docilità che mostravano i contadini. «Finora sappiamo poco del nemico che dovremo affrontare, che cos’altro ci potete dire su di loro?»

«Si tratta di una squadra di cinquantasei uomini. Al principio, mi sono sembrati ubriaconi e violentatori, animali impulsivi, come i branchi di lupi che scendono fino ai villaggi nei periodi di carestia. Una volta in marcia, però, ho scoperto che erano organizzati meglio di quello che ci si poteva aspettare. Non bevevano all’accampamento ed erano rigorosi con i turni di guardia, indice di buona disciplina in una truppa.» Kenjirō, con la schiena dritta e le mani sul-le cosce, parlava senza esitazione, con il chiaro ricordo di quei giorni all’addiaccio. «Sono guidati da un uomo di nome Sasaki, più ambizioso che buon comandante, a mio avviso, ma astuto e prudente. Con loro viaggia anche un rōnin, un vecchio cane che si fa chiamare Raisho e che si comporta come se fosse lo yōjinbō di Sasaki… Anche se è evidente che non è uno di loro, e dubito fortemente che fosse davvero impiegato come guardaspalle.»

«Che cosa intendete dire?»

«Non mostrava alcun rispetto per il capo della banda, anzi sembrava che si tollerassero di malavoglia. Sono sicuro che sia questo rōnin a guidarli fin qui.»

Un mormorio contenuto percorse il consiglio. Fu il maestro Jigorō a porvi fine: «Com’è possibile che sappia di questo posto? Forse Shintaro gli ha parlato del nostro villaggio?».

«Non credo che il vostro compagno volesse tradirvi. Lo obbligavano a fare da guida proprio perché avevano bisogno di qualcuno che conoscesse bene la regione, ma il rōnin sapeva già da prima dov’era diretto. Chi gli ha parlato di questo posto? Non lo so. Era riservato al riguardo, nemmeno il capo Sasaki sapeva che cosa andavano cercando qui.»

Si alzò di nuovo un coro di mormorii nervosi, ancor più discordante. Questa volta fu Reiko a metterli a tacere con un colpo di ventaglio sul tatami: «Ascoltate tutti. Jigorō-sensei e io abbiamo deciso che il punto migliore per affrontarli sono i terrazzamenti. Avremo il vantaggio dell’altezza e loro non potranno avanzare liberamente per le risaie. Armeremo chiunque sia disposto a lottare e abbia più di tredici anni, gli altri marceranno con i padri Enso e Ayala al rifugio di montagna e resteranno lì finché tutto non sarà finito».

«Io non andrò da nessuna parte» disse Ayala con calma. «Forse non servirò a molto in combattimento, ma non posso continuare a nascondermi mentre il cavaliere Kenjirō lotta per le battaglie nelle quali io lo trascino. E sospetto che anche questa sia una battaglia che vorrai affrontare, non è così, ragazzo?»

Kenjirō sostenne lo sguardo del gesuita, in ginocchio accanto a lui, ed ebbe la potente sensazione che se uno dei due fosse morto, all’altro sarebbe capitato lo stesso. Erano legati dal filo del karma.

«Temo che nemmeno io potrò fare quel che dici, cara bambina» intervenne padre Enso. «Resterò accanto alla croce e pregherò per voi. Quando tutto sarà finito, scenderò per aiutare i feriti e, se necessario, dare l’estrema unzione ai moribondi. È il dovere che ho nei confronti della mia parrocchia.»

«Vi ringraziamo per la vostra buona volontà di padri cristiani, ma questa sarà una battaglia in campo aperto, non è posto per uomini di Dio» disse Jigorō, che voleva evitare inutili preoccupazioni durante lo scontro.

«Non è detto che debba andare così» mormorò Kenjirō. E con voce più decisa, aggiunse: «Forse c’è un altro modo».

«Che cosa intende dire?» chiese Reiko.

«Se affrontate questa situazione da guerrieri, non potrete che perdere. Forse riuscirete a fermare l’attacco, ma molti dei vostri moriranno, adulti necessari per lavorare i campi e mantenere questa comunità. E anche se sopravvivrete, alla lunga perderete quello che avete creato qui.» E facendo una smorfia, aggiunse: «E poi, anche la più ferrea disposizione vacilla quando si affronta un nemico in campo aperto. Un samurai è disposto ad accettare la morte in ogni momento, ma non si può pretendere altrettanto da chi è nato per coltivare la terra. L’ho visto in battaglia, molti ashigaru non riescono nemmeno a sollevare la lancia di fronte a una carica di cavalleria».

«Che cosa proponete, samurai?»

«Credo che questo rōnin non sappia che cosa dovrà affrontare. Sa che qui è nascosto qualcosa di grande valore, forse sa perfino che si tratta di qualche tipo di arma, ma dubito che sia a conoscenza delle sue peculiarità. Potremmo utilizzare la sua ignoranza a nostro favore.»

«E se così non fosse? Se sapesse esattamente che cosa dovrà affrontare?» esclamò Reiko.

«Ogni strategia implica un rischio. Mio padre citava sempre le parole di un antico generale Ming: “Quando sei debole, fingi di essere forte; quando sei forte, fingi debolezza”. Perché non nascondere la nostra unica forza? Che credano di affrontare dei contadini spaventati, non un battaglione di ashigaru che li riceve in campo aperto.»

Reiko e il suo braccio destro, il cupo Jigorō, si scambiarono uno sguardo valutando la proposta.

«Va bene. Ascolteremo quello che avete in mente e domani io e Jigorō-sensei prenderemo una decisione.»

«Forse non avrete tutto il tempo che credete!» annunciò una voce dall’ingresso.

Gli sguardi si voltarono verso la figura coperta da ampi abiti da viaggio accanto alla porta, lontano dal cerchio illuminato al cuore della stanza. Nessuno l’aveva sentita arrivare, era impossibile sapere da quanto tempo fosse lì.

«Signora Nozomi,» la salutò Reiko «ci onorate sempre della vostra presenza nei momenti più inaspettati.»

«Ho forzato il cavallo per arrivare quanto prima. Quelli che aspettate si trovano a poco più di cinque ri di distanza. È certo che saranno qui all’alba.»