Reiko osservava il duello imboscata fra gli alberi. Era circondata da una manciata di uomini e donne abbigliati con vesti che si confondevano nelle fronde, ognuno con un fucile a ruota in mano. Divisi su entrambi i lati del sentiero, ben ritirati dal limitare per restare nell’ombra, aspettavano il segnale convenuto: lo sparo che la stessa Reiko avrebbe dovuto effettuare, un primo proiettile destinato al capo di quell’orda di disgraziati. Eppure, il tale Sasaki, chissà se per fortuna o per astuzia, ancora non si manifestava.
Quindi aspettava il momento giusto stesa a terra, con espressione tesa e il retrogusto della paura sulle labbra, gli occhi attenti al brutale combattimento che intravedeva nel groviglio di arbusti. Di tanto in tanto, si guardava alle spalle verso il fondo del bosco: da lì, accucciato tra le radici di un cedro, Martín Ayala contemplava con espressione torva come il suo yōjinbō rischiava la vita per loro.
Il gesuita non avrebbe dovuto essere lì, lo sapeva bene quanto il resto dei partecipanti all’imboscata; ciò che loro non potevano sapere era quanto fosse testardo quell’uomo. L’unico modo di allontanarlo dal samurai sarebbe stato rinchiuderlo da qualche parte, e questo lei non l’avrebbe mai potuto fare.
Quando Kenjirō cadde disarmato e il suo avversario gli lacerò la carne per la seconda volta, Ayala si alzò senza preavviso e si affrettò in direzione del sentiero. Immediatamente, Ichizo e Tadayashi si scagliarono su di lui facendolo crollare a terra, tappandogli la bocca con la mano.
Reiko guardò il suo mentore con tristezza, in quel momento però non potevano perdersi d’animo. Con un cenno del capo indicò a Ichizo di tornare nella sua posizione mentre Tadayashi rimaneva accanto al gesuita, in difficoltà a dover usare la forza su un padre cristiano. Questi, tuttavia, non si dimenò nemmeno, oppresso da un’improvvisa impotenza. Quando il forte contadino lo liberò, si limitò a sedersi con la testa infossata nelle spalle, triste nella sua rassegnazione.
Reiko tese le mandibole e riportò la vista sul sentiero, dove la tragedia sembrava sul punto di consumarsi. Che cosa doveva fare? Sparare al rōnin che si apprestava a uccidere Kenjirō? Avrebbe eliminato un avversario importante, ma avrebbe anche perso l’opportunità di uccidere il capo della banda, l’uomo capace di organizzare i mercenari durante la contesa. Jigorō-sensei era stato chiaro: in un agguato era imperativo abbattere prima di tutto il capo nemico, quella mossa avrebbe affrettato lo svilupparsi dello scontro e avrebbe permesso loro di ridurre le perdite. In ogni caso, le loro tribolazioni furono risolte quando Raisho decise di non concludere per propria mano quel che aveva cominciato. Offrì al suo capo l’opportunità di dare la morte al giovane samurai, e Sasaki abbandonò la protezione dei suoi uomini per impugnare la katana che gli veniva tesa.
Consapevole che era arrivato il suo momento, Reiko si alzò sul ginocchio e si appoggiò l’arma contro la spalla. Eretta sopra i cespugli, la scena si apriva davanti a lei con tutti gli attori alla portata l’arma: Kenjirō si trascinava al suolo, la terra indurita con il suo sangue; il suo avversario in piedi a metà strada, con la mano tesa che offriva l’arma del nemico sconfitto… E il suo obiettivo che si avvicinava con passo fiducioso, disposto a impossessarsi della preda.
Reiko chiuse gli occhi e mormorò «ad maiorem Dei gloriam» quando li riaprì, ormai vedeva il mondo solo attraverso l’estremità del suo fucile. Trattenne il respiro e accarezzò il grilletto. Appena il capo Sasaki si fosse fermato davanti a Kenjirō, lei avrebbe fatto partire lo sparo che avrebbe scatenato l’inferno in quel bosco…
Ma la sorpresa la colse prima che potesse premere il grilletto, colpendola fisicamente, come se la spada impugnata da quel rōnin avesse tagliato la testa anche a lei. Alzò gli occhi dalla canna di fucile in tempo per vedere Sasaki che crollava a terra, e ascoltò stupita quanto i suoi nemici lo sconcertante proclama di Igarashi Bokuden, che ebbe subito effetto fra i suoi compagni traditi. Sembrava che l’inferno si sarebbe scatenato in ogni caso, anche se non per mano sua.
L’uomo di nome Igarashi si sedette sul sentiero e incrociò le braccia, come se fosse un mero spettatore di quel che stava per succedere. A partire da quel momento, tutto parve accadere nell’istante che passa fra due battiti del cuore. Quando il primo dei banditi alzò l’arma contro di lui, con la miccia crepitante che agognava di mordere la polvere da sparo, Reiko seppe che era arrivato il momento. Attaccò la testa alla spalla, puntò e sparò un colpo che attraversò la gola del mercenario.
Immediatamente, un’alluvione di piombo cadde sulla compagnia di Sasaki facendo a pezzi le armature, squarciando la carne, facendo saltare la ghiaia del sentiero. Era la prima raffica, un fuoco incrociato sparato nel mucchio, così come avevano deciso. Gli spari cessarono e la nuvola di fumo cominciò ad assestarsi: a poco a poco riuscirono a distinguere le figure confuse dei loro nemici, spettri disorientati intrappolati nella polvere sospesa. Prima che potessero reagire, Reiko si mise in piedi e diede ordine di sparare la seconda raffica.
I tiratori più esperti, che avevano riservato le loro munizioni per quel momento, scatenarono una nuova grandinata di proiettili, meno intensa ma più selettiva della precedente. I mercenari, già diminuiti di numero, cominciarono a cadere abbattuti dagli spari che li colpivano al petto, alle gambe, sulla schiena, spingendoli verso l’inizio del sentiero. Mentre indietreggiavano, alcuni sparavano alla cieca verso le fronde, proiettili perduti che, nel peggiore dei casi, raggiungevano i loro compagni; altri semplicemente si giravano e cominciavano a correre. Un caos di decine di corpi ammucchiati fra i due margini del sentiero, che si spingevano verso le risaie dove avrebbero potuto ripararsi.
Quelli che erano in testa alla ritirata furono i primi a incontrare l’uomo che si trovava in attesa alle loro spalle, bloccando l’unica via di fuga. Aveva il volto coperto e una chioma bianca e sosteneva l’estremità di una corda in una mano e un cero acceso nell’altra. Senza fermarsi a pensare che cosa potesse significare la sua presenza, brandirono le armi per sbarazzarsi di quel disgraziato che pretendeva di sbarrargli la strada.
Jigorō affrontò imperterrito l’ondata che minacciava di inghiottirlo. Quando il primo mercenario fu all’altezza della pietra che avevano segnato come punto di riferimento, avvicinò il cero alla corda. La fiamma divorò la miccia interrata, avanzando vertiginosamente verso la trentina di nemici che si stavano scagliando su di lui: si trovavano a non più di dieci passi quando il suolo gli scoppiò sotto i piedi.
L’onda d’urto obbligò Jigorō a fare un passo indietro per mantenere l’equilibrio, gli alberi ondeggiarono mentre i corpi venivano schizzati in tutte le direzioni. Alcuni rimasero intrappolati fra i rami, mentre altri crollarono al suolo, seguiti da una pioggia di terra e ghiaia.
Solo chi si trovava più indietro sopravvisse alla brutale deflagrazione: quattro mercenari con i volti ammutoliti dall’orrore, piazzati in mezzo a un sentiero che di colpo si era trasformato in un passaggio verso lo Yomi. Il primo a reagire fu il più giovane di loro, che tra la minaccia invisibile alle sue spalle e l’uomo solitario che si ergeva davanti a loro, decise di proseguire la sua fuga in avanti. Lo seguirono i suoi tre compagni, correndo fra i cadaveri smembrati sparsi a terra.
Jigorō sguainò i due coltelli che portava incrociati dietro la schiena e li aspettò in mezzo al percorso, intenzionato a non lasciare nessuno di loro in vita. Al primo, che cercò di superarlo sulla sinistra, aprì il costato con una rapida coltellata che gli sezionò carne e viscere. Il secondo lo ricevette conficcandogli la punta del coltello nel cuore con una stoccata poderosa, spinta dal fianco, che pose fine alla vita del suo nemico prima che questi cadesse di spalle al suolo. Gli altri due passarono accanto a lui in direzione delle risaie.
Ebbe comunque il tempo di voltarsi e lanciare il coltello che gli restava in mano contro uno di loro. La lama si conficcò tra le spalle del nemico, facendolo incespicare mentre cercava di strapparsi il pugnale di dosso. Jigorō corse dietro la sua preda ferita e la raggiunse con una ginocchiata alla cintura che la fece crollare del tutto. Prima che l’altro potesse reagire, recuperò il suo coltello e glielo affondò nella nuca fino all’impugnatura.
Il vecchio shinobi alzò gli occhi in tempo per veder fuggire il suo ultimo nemico fra le risaie. Quasi senza fiato, capì che non sarebbe riuscito a raggiungerlo e maledisse l’età che intaccava le sue forze. Cominciava a rimettersi in piedi, rassegnato, quando il fragore di uno sparo lo obbligò ad accucciarsi, per poi rotolare a terra fino a sparire tra le canne. Jigorō si voltò per scoprire Reiko alle sue spalle, con il fucile ancora contro la spalla, la corda con i piombini che pendeva dalla canna dell’arma fino a sfiorare il terreno.
«Un colpo eccellente» disse a mo’ di saluto.
Lei sganciò la corda e cominciò ad arrotolarla intorno al pugno; la usava per misurare di quanto doveva sollevare l’estremità della canna per gli spari a più di due cho di distanza.
«Ho avuto la fortuna che corresse in linea retta, altrimenti non l’avrei mai raggiunto da così lontano.»
Non c’era alcuna soddisfazione nella sua voce; anzi, un tremore quasi impercettibile che il vecchio riuscì a sentire. Quella ragazza non era un’assassina, non lo sarebbe mai stata, e questo rendeva ancor più encomiabile il suo sacrificio.
«Torniamo indietro» disse Jigorō. «C’è ancora del lavoro da fare.»
Il bosco era immerso in uno strano silenzio. Gli abitanti del villaggio avevano già abbandonato il loro rifugio e camminavano tra i cadaveri recuperando pezzi di armatura, gioielli, armi… Ogni oggetto che si potesse vendere per superare meglio l’inverno imminente.
Trovarono Ayala vicino a Kenjirō: si era strappato le maniche del kimono per fare un laccio emostatico sopra i tagli del samurai. Ci metteva impegno, ma era evidente che non era abituato a trattare le ferite aperte. Reiko si inginocchiò accanto a lui e lo aiutò a stringere bene i bendaggi improvvisati.
«Tadayashi, di’ a Ichizo di venire qui» indicò al corpulento contadino che si trovava vicino ad Ayala. Gli era stato ordinato di controllare il bateren per tutta l’imboscata ed era disposto a farlo fino alla fine. «E corri a casa di padre Enso, digli che è tutto finito e che avremo bisogno di alcune delle sue medicine. Impacchi astringenti ed erbe contro le infezioni.» Il contadino annuì con una riverenza prima di mettersi a correre. «Si rimetterà,» disse cercando di tranquillizzare Ayala «le coltellate non sono profonde, non hanno tagliato nessun tendine e siamo in tempo per fermare l’emorragia.»
Kenjirō, cosciente, guardava il cielo e respirava tranquillo nonostante il dolore. Probabilmente sapeva che se si fosse mosso, avrebbe solo rischiato di aggravare la perdita di sangue. Stringeva contro il petto le sue due spade: Ayala doveva avergliele avvicinate, consapevole che questo l’avrebbe rappacificato.
«Tutto questo si sarebbe potuto evitare» disse allora il gesuita, senza allontanare gli occhi dal suo yōjinbō ferito.
Reiko lo guardò di traverso mentre si concentrava a stringere le bende. L’espressione severa del suo antico maestro non le passò inosservata, ma sentiva che non aveva niente di cui scusarsi.
«Nessuno voleva che questo succedesse, ma siamo stati obbligati a difenderci.»
«La maggior parte di quegli uomini sono stati uccisi mentre fuggivano» rispose il sacerdote. «Gli avete dato la caccia come fossero animali.»
«La nostra sopravvivenza dipende dal fatto che questo luogo continui a essere segreto. Se solo uno di loro fosse scappato, saremmo stati in pericolo.»
«Capa,» li interruppe Ichizo «mi ha fatto chiamare.»
La donna, premendo ancora sul taglio alla spalla di Kenjirō, alzò gli occhi verso il suo luogotenente: «Abbiamo avuto dei caduti?».
«Nessuno», annunciò il contrabbandiere, soddisfatto. «Konoha è stata ferita da un proiettile impazzito, non sappiamo se nostro o loro. Le ha solo sfiorato il braccio, quindi non tarderà a rimettersi di nuovo al lavoro nei campi. A Nancy e a uno dei suoi figli sanguinano le orecchie, e qualcun altro si è bruciato le mani con la polvere da sparo, ma niente di serio. Siamo stati fortunati.»
La donna annuì.
«E loro?»
«Tutti morti.»
Reiko seppe leggere la terribile verità dietro quella categorica affermazione: chi non lo era, presto lo sarebbe stato. Finì di fissare i bendaggi e si rialzò.
«Resta con loro. Se il samurai dovesse perdere conoscenza, avvisami.»
Si avvicinò a Jigorō, che attendeva qualche passo più indietro, e gli indicò con lo sguardo di seguirla. Insieme si incamminarono verso il luogo dove avevano trattenuto l’enigmatico rōnin. Senza l’intervento di quell’uomo le cose non sarebbero andate così bene, ma ciò non significava che fosse loro alleato.
Il guerriero – capelli lunghi e raccolti sulla nuca, una barba cupa come il suo sguardo – era ancora in ginocchio nello stesso punto dove si era seduto dopo aver decapitato Sasaki. Gli avevano circondato le braccia e il torace con una corda di canniccio, la cui estremità era legata a un pino nelle vicinanze. Nel vederli arrivare, alzò la testa e li scrutò con fare impassibile.
«Quindi, ecco Fuyumaru, il famoso guerriero di Iga caduto in disgrazia», osservò Jigorō incrociando le braccia davanti al prigioniero. «Perché dovremmo crederti? Sono anni che Fuyumaru è morto e dimenticato.»
«Lo credevo anch’io. Eppure, apparentemente, non ero morto abbastanza. Ne così dimenticato.»
«In ogni caso, corrispondi perfettamente al soprannome che la gente di Iga ha dato a quel guerriero infame,» disse Jigorō contemplando il corpo decollato di Sasaki: «Davvero, sei un traditore.»
L’interpellato abbozzò un mezzo sorriso.
«Un uomo può tradire soltanto coloro che si fidano di lui, e queste bestie sanguinarie non si sono mai fidate di me. E, se anche lo avessero fatto, allora erano comunque degli stupidi.»
«Poco importa quali siano le tue alleanze» intervenne Reiko. «La questione è perché sei venuto nel mio villaggio con questi uomini. Che cosa vi aspettavate di trovare qui?»
Igarashi fu sorpreso per la veemenza e l’autorità con cui parlava quella donna. Doveva essere la celebre capa dei contrabbandieri di Kii.
«Non è una domanda facile a cui rispondere. Quegli uomini, per esempio, cercavano ricchezze; colui che li mandava cercava i vostri segreti. Io, tuttavia, cerco un uomo di nome Martín Ayala, e ho motivo di credere che sia diretto qui, se non è ancora arrivato.»
Reiko e Jigorō nascosero uno sguardo di preoccupazione. La cosa era molto più importante di una squadra di mercenari che avevano sentito delle voci confuse. L’incipiente interrogatorio, però, fu interrotto dalla corsa forsennata di Tadayashi, che risaliva gridando il sentiero. Le teste si girarono al suo passaggio, allarmate: non lo avevano mai visto così agitato, nemmeno durante gli incendi di tre anni prima. A giudicare dalla sua espressione turbata, sembrava che il demonio stesso fosse venuto in cerca della sua anima.
Tadayashi cadde in ginocchio di fronte a Reiko. Appoggiò le mani a terra, boccheggiando, incapace di trovare la voce.
«Che succede?» chiese Jigorō, imperativo.
«Padre… padre Enso…»
Il fiato non gli resse oltre.
Il cadavere di padre Enso era appeso alla croce, le gambe oscillavano con grottesca parsimonia, i lineamenti erano irriconoscibili, congestionati dalla fune che lo aveva strangolato. Un paio di corvi si erano già posati sulla trave di legno, attratti dall’odore della morte.
Ayala fu tra gli ultimi ad arrivare: non si era affrettato poiché temeva quel che avrebbe trovato. Non fu, tuttavia, il corpo cullato dal vento la cosa che più lo impressionò quando raggiunse la cima della collina, ma piuttosto la scena di assoluta desolazione che lo vegliava. Qua e là i contadini distoglievano lo sguardo, si coprivano il volto incapaci di affrontare la verità; alcuni, in ginocchio, davano colpi a terra, con la schiena scossa dai singhiozzi; altri si erano gettati fra le braccia di una persona cara e si abbandonavano a un pianto inconsolabile.
Mentre si faceva strada tra di loro, Ayala cercava di convincersi che quel dolore non era altro che la dimostrazione dell’infinito amore che provavano per quell’uomo, ma tale consolazione gli parve puerile. Quando giunse davanti alla croce, vide l’unica persona che aveva osato avvicinarsi per cadere ai piedi dell’impiccato, e piangerlo da vicino.
Si inginocchiò accanto a Reiko e le cinse le spalle, sussurandole parole di consolazione. Lei riusciva solo a pregare in silenzio, con i pugni stretti sopra le ginocchia, le lacrime trattenute a stento. Vederla così fu ciò che lo gettò davvero nella disperazione, ancor più della morte di un altro fratello della missione. Da quante persone care si era dovuta congedare quella gente? Non vinti dal transito amaro e inevitabile della vecchiaia o della malattia, ma strappati dal loro fianco a causa della violenza di chi li odiava.
Si lasciò trascinare dal dolore e cercò attraverso le lacrime un accenno di pace nel volto del gesuita assassinato, un’ombra di rassegnazione, il minimo indizio che padre Enso avesse trovato qualche consolazione nei suoi ultimi istanti di vita. Con sua grande costernazione, non fu questo che vide. Si asciugò gli occhi e si alzò in piedi. Avanzò con passo riluttante verso il corpo di Enso Fabbiano da Padova, allungando una mano tremante verso quelle labbra livide di morte. Alcuni contadini interruppero di colpo i loro lamenti, terrorizzati nel vedere Ayala che introduceva le dita nella bocca fredda del defunto, facendosi strada sotto la lingua gonfia.
A poco a poco, con un’espressione a metà fra il dolore e la rabbia, cominciò a estrarre il rosario dai grani ambrati che attraversava la gola del morto. Clac, clac, clac… risuonavano tra i denti.