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Come il tuono rivela il lampo

«No!» rispose Igarashi, categorico. Aveva ascoltato le intenzioni di quegli stolti con il viso attraversato da un profondo disaccordo. «Il tradimento subito dal vostro signore vi acceca, ma io non prenderò parte a questa vostra follia. Non potete presentarvi al cospetto di Oda per accusare senza prove uno dei suoi generali più fidati. Forse non sapete nulla del Re Demone?» li rimproverò. «È imprevedibile come il mare, calmo in superficie e turbolento in profondità, violento senza preavviso. A un uomo così dovete offrire una verità che sia disposto a credere, non una che sfidi le sue convinzioni. Se cercate di seminare discordia fra Nobunaga e i suoi vassalli, lui stesso vi taglierà subito la testa.»

«E quale sarebbe una verità accettabile per Oda, secondo te?» chiese Reiko.

«Iga. Oda accarezza da tempo l’idea di metterla a ferro e fuoco, diamogli la scusa di cui ha bisogno.» Il pugno di Igarashi schiacciò contro il palmo un nemico immaginario. «Il veleno di Iga è nel corpo dei bateren assassinati, ogni medico della corte potrà constatarlo: consegnamogli Iga e vi assicuro che le morti fra i padri cristiani cesseranno. I dissensi fra i vassalli di Oda, al contrario, non sono di nostra competenza: se accendiamo quel fuoco, verremo consumati dalle fiamme.»

«Vuoi che io taccia sul tradimento subito dal mio signore?»

«Dimmi, donna, tu non sei forse Nozomi di Shinano, la prima kunoichi chiamata a ostentare il titolo di Kato? Come pretendi di guidare la tua gente se non sei capace di distinguere qual è la cosa che più gli conviene? Fuwa Torayasu è morto e la sua casa si avvia a sparire; non siete samurai, nessuna lealtà vi lega oltre la morte. La caduta di Iga dovrebbe essere una priorità per te ancor più che per me, poiché si produrrebbe un vuoto di potere del quale clan come il tuo potrebbero beneficiare.»

«Prima di passare a questioni politiche che non mi riguardano, c’è qualcosa che vorrei il nostro ospite ci chiarisse» intervenne Ayala, interrompendo l’invettiva di Igarashi. «Dice che un veleno impiegato da Iga è presente in tutti i cadaveri, che i missionari sono stati paralizzati da quella sostanza poco prima di essere uccisi… Troveremo quel veleno anche nel corpo di padre Enso?»

«Temo di sì.»

«Com’è possibile? Questo non è un porto marittimo del clan Oda, qui non c’è nessuna casa della missione. Non dovrebbe esserci ragione per cui i capi di Iga conoscessero anche solo l’esistenza di quell’uomo.» Ayala si appoggiò sulle ginocchia, incrociate al modo dei bonzi: «E da ciò che noi sappiamo, solo un assassino è arrivato qui con l’incarico di uccidere un padre cristiano.»

«Mi volete incolpare della morte di quel povero vecchio? La vostra accusa non ha senso: il vostro yōjinbō mi ha avuto sott’occhio da quando ho messo piede in queste risaie. Non ho fatto altro che condurre quei disgraziati nella vostra imboscata.»

«Vuoi farci credere che l’omicidio di padre Enso al vostro arrivo è stato un caso?» insisté Reiko.

«No. Proprio come me, il tribunale di Iga sapeva che il corvo che indagava su quelle morti poteva nascondersi qui, fra i cristiani di Takatsuki. Se devo avventurare una spiegazione, direi che un inviato di Iga ci ha seguiti dal monte Hiei; in fin dei conti, io non sono una persona di cui loro si fidano. Quel sicario deve aver giustiziato il vostro bateren credendo che si trattasse di Martín Ayala. La croce che avete piantato su quella collina dev’esser stata come un faro per lui, poiché è risaputo che i corvi vi si posano sopra, no?»

«È possibile che l’assassino sia ancora nascosto nella foresta?» chiese il vecchio Jigorō, anche se già conosceva la risposta.

«Ne dubito. Quell’uomo deve aver creduto di aver ottenuto quello che era venuto a cercare: la vita dell’investigatore cristiano e la conferma che qui si nasconde la mercanzia che scaricate a Kii. È perfino possibile che abbia assistito al funzionamento delle vostre formidabili armi e l’abbia raccontato nel dettaglio per mezzo di un yayate. Sarà già abbondanetemente in viaggio.»

Reiko strinse le labbra e abbassò lo sguardo, irrigidita per via della rabbia repressa. La tormentava l’idea di lasciar scappare l’assassino di una persona per lei così cara. Fino a dove dovevano spingersi i suoi sacrifici?

«Basta così!» concluse. «Ci aiuterai a eliminare quegli uomini, non importa se lo consideri opportuno o no. Porremo fine a questa storia una volta per tutte.»

«I vostri nemici sono i miei, questo ci rende alleati; ma non posso condividere un piano d’azione che ci porterà al patibolo.»

«Ti sbagli se pensi di essere qui per assentire o dissentire» lo avvertì Nozomi. «Sei qui per obbedire: se ti teniamo in vita è perché la tua testimonianza ci è utile. Viaggerai con me verso Gifu, dove esporremo tutti gli avvenimenti a Oda Nobunaga, senza tralasciare nulla», sottolineò. «E lo farai di buon grado, perché è l’unico modo che hai per raggiungere i tuoi obiettivi. Senza il nostro appoggio, le tue accuse contro il tribunale di Iga non sono altro che le parole di un noto traditore.»

Igarashi Bokuden si prese un istante per gustare il sapore acido della frustrazione che gli bruciava la gola, ribollendogli sulla lingua. Un sapore che conosceva bene, poiché dovunque andasse c’era sempre qualcuno disposto a trasformarlo in un mezzo per raggiungere i propri fini. Reagì come era solito fare davanti a quel tipo di imposizioni: contemplò le possibilità che aveva, ne soppesò le conseguenze, prese una decisione.

«Se volete richiamare l’attenzione del daimio più potente del paese, dobbiamo prostrarci ai suoi piedi con un omaggio che non lo lasci indifferente. Un presente che lo obblighi ad alzare lo sguardo e ad ascoltare le nostre parole, che sottolinei la verità con la veemenza del tuono che rivela il lampo.»

Due giorni dopo, completati i preparativi, Igarashi e la dama Nozomi abbandonarono il villaggio al riparo della notte. Erano abbigliati come i pellegrini che transitavano diretti a Nara: con un baule di offerte legato sulla schiena e una lanterna appesa all’estremità del bastone. Gli ci volevano non meno di sei giorni per raggiungere il castello di Gifu, nella provincia di Mino, dove Nobunaga aveva stabilito la sua corte militare. L’intenzione di Nozomi era di fare la maggior parte del viaggio lontano dalle stazioni di posta e dalle strade ufficiali, servendosi della sua rete di collaboratori per evitare gli occhi indiscreti che, senza dubbio, già percorrevano la provincia.

«Ci sono quasi settanta ri da qui a Gifu, gran parte dei quali passano troppo vicino a Iga» la avvertì Igarashi. «Difficilmente riusciremo a prenderci gioco di loro per tanto tempo una volta che avremo abbandonato i territori del tuo signore.»

La donna, che camminava in testa, gli rivolse uno sguardo deciso. La luce della lanterna gettava ombre sui volti consumati dal vento.

«Ho fatto questo percorso molte volte negli ultimi tempi, e nessun informatore si è accorto del mio passaggio. Forse lo sguardo di Iga non è penetrante come credi.»

«O forse ti hanno osservava in lontananza, come si osserva la formica solitaria che ti porta dritto al formicaio» mormorò fra sé Igarashi.

Ayala e Kenjirō rimasero qualche altro giorno presso la residenza di Reiko, in attesa che il samurai si riprendesse dalle sue ferite; se non del tutto, almeno abbastanza per intraprendere il viaggio di ritorno senza che i tagli si riaprissero.

In quel tempo, maestro e allieva recuperarono delle vecchie abitudini: passeggiarono per i sentieri di montagna che circondavano il villaggio mentre lei gli chiedeva i nomi giapponesi delle piante e degli insetti più strani che incontravano. Lo obbligava a tracciare con un ramo i kanji corrispondenti, e gli correggeva la pronuncia quando lo credeva opportuno. Ayala, tuttavia, sentiva di non avere nient’altro da insegnarle, e si limitava a osservarla con un sorriso negli occhi quando Junko si occupava delle questioni quotidiane del villaggio.

A una settimana dalla morte di padre Enso, Ayala si incaricò di celebrare la messa dei defunti in memoria del vecchio gesuita. Pochi giorni dopo nacque il bebè di Haruka, che non era svenuta nelle risaie nonostante la gravidanza avanzata e la notizia della morte del figlio e del marito. Molti avevano tentato di convincerla a stendersi su un pagliericcio finché non avesse partorito, ma lei continuava a passare la falce con lo sguardo perso e la faccia contratta, come se nel mietere le spighe di riso potesse segare via anche la propria tristezza. Il suo volto si ammorbidì soltanto quando le misero fra le braccia il figlio appena nato, che Ayala battezzò con il nome di Enzo Taro.

La comunità ricevette quella nuova anima cristiana come portatrice di buone notizie e, dopo molti giorni, lo sconforto che impregnava l’atmosfera cominciò a dissiparsi, come una nebbia spessa scongiurata dal sole del mattino.

Era arrivato il momento di partire, e così Ayala lo comunicò a Junko, che si limitò ad annuire in silenzio e a continuare con le sue faccende.

La mattina della sua partenza, con un cavallo da tiro sellato di fronte alla residenza e Kenjirō obbligato a sedersi in groppa all’animale, Ayala si intristì nel vedere che la sua antica discepola non usciva a salutarli. Il gesuita sapeva bene come si dovesse sentire, quindi pregò il suo yōjinbō di avere un po’ di pazienza ed entrò nella casa immersa nella penombra. Trovò Junko in ginocchio nel giardino interno, che strappava le erbacce che cominciavano a crescere fra le rocce coperte di muschio.

Si fermò sulla soglia e la osservò mentre gli dava le spalle, concentrata nel suo lavoro.

«La mia partenza ti fa così male che preferisci non salutarmi nemmeno?»

Lei si scosse via la terra dalle mani e gli rispose senza girare la testa: «Sono stufa che mi restino solo saluti e ricordi. Per una volta, mi piacerebbe tenere le persone che amo accanto a me».

«Sapevi che questo momento sarebbe arrivato, Junko. Nella gioia di ogni rincontro già germina la disgrazia di un addio, non è così che dicono i bonzi?»

«Non mi importa cosa dicono i bonzi» protestò con rabbia, girandosi verso di lui.

Ayala vide le lacrime nei suoi occhi, lacrime di impotenza per la morte di padre Enso, per la sua stessa partenza, e non poté evitare di sentire anche lui un nodo in gola per l’angoscia.

«Non piangere, bambina. Ci rincontreremo.»

«Non mi mentite. Sapete perfettamente che questa sarà l’ultima volta che ci vedremo. Quando ci saremo salutati, sarà per sempre.»

La certezza che sentì nelle sue parole l’attraversò come una lancia. Non poté trattenere le lacrime che gli bruciavano gli occhi.

«Solo Dio è per sempre, mia piccola Junko.»