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Il blasone dai cinque petali

Ayala e Kenjirō raggiunsero la baia di Owari in una mattina di cielo limpido. Il sentiero serpeggiava fra le pinete e, di tanto in tanto, si affacciava sulle scogliere a strapiombo sulla costa, permettendogli di intravedere un mare in rivolta che si abbatteva sulle spiagge. Il rumore delle onde si elevava fin sulla strada e gli riempiva le orecchie di sale. Se seguivano con gli occhi la linea della costa, in lontananza si stagliava il profilo delle colline che circondavano il porto di Anotsu.

Man mano che si avvicinavano alla città, i sentieri si popolavano di gente di mare e il vento cominciò a portare fino a loro il gracchiare dei gabbiani, che svolazzavano disordinati sul quartiere del porto. Kenjirō tentava di mantenersi impassibile, ma il gesuita percepiva nei suoi occhi lo sguardo felice di chi sa di essere a casa.

«Presto il nostro viaggio sarà concluso e potrai tornare dalla tua famiglia» gli disse. E si sorprese della stanchezza che sentì nella sua stessa voce.

Il samurai lo guardò si sbieco.

«È possibile che casa mia si trovi dietro quelle montagne, ma la sento ancora lontana. Concentriamoci sul percorso che ancora ci resta da fare.»

Ayala annuì in silenzio e riportò lo sguardo sulle colline. Una croce su una delle cime attirò la sua attenzione, dando il benvenuto ai visitatori che arrivavano dal mare e da terra. Era curioso vedere la croce di Cristo nel feudo di un daimio che non si dice cristiano.

Attraversarono la città diretti al porto, dove scoprirono che il numero di navi nere era cresciuto nettamente dall’ultima volta che erano stati lì. Le alte caracche portoghesi, con le loro stive gonfie di merci provenienti da Macao, oscillavano tra i fragili moli.

Ayala chiese quale fosse la prossima nave in partenza per Nagasaki e, dopo una breve conversazione con il capitano – nella quale chiarì l’importanza di quel che lasciava nelle sue mani –, gli consegnò la lettera diretta al principale della missione. In ogni caso, la ceralacca con le lettere IHS circondate dal sole fiammeggiante era un simbolo sufficiente perché il marinaio prendesse l’incarico molto sul serio.

Quando fu sicuro che le sue parole sarebbero arrivate alla missione a Nagasaki, il gesuita e il suo yōjinbō si incamminarono verso la destinazione finale del loro viaggio: il castello di Anotsu, la cui ombra sembrava incombere sull’intera baia.

Per la posizione del sole, Ayala calcolò che l’ora della scimmia1 stesse volgendo al termine. Avevano passato gran parte della giornata in attesa di essere ricevuti dai funzionari del castello, rispettando la rigorosa fila che cominciava fin dai quartieri che circondavano le mura. Aspettavano all’addiaccio, colpiti da un vento costante che gli si infilava sotto i vestiti, sempre più forte man mano che salivano, poiché la fortezza si inerpicava su un poggio che, nella parte posteriore, cadeva a strapiombo sul mare.

«Ci metteremmo di meno a prendere la fortezza d’assalto» borbottò Kenjirō, che si distraeva spazzolando il cavallo che la dama Reiko gli aveva ceduto.

Il gesuita sorrise davanti all’esasperazione del suo compagno. L’impazienza, come la gioventù, si cura solo con il passare degli anni.

Verso la metà dell’ora del gallo finalmente attraversarono il portico e penetrarono nel primo anello fortificato. Ayala notò che la sua presenza non passava inosservata alle guardie, che bisbigliavano guardando nella sua direzione. Dopo un breve scambio, una delle sentinelle abbandonò il suo posto e tornò un momento dopo accompagnata da un anziano elegantemente abbigliato con un kataginu blu.

«Straniero» lo chiamò il funzionario. «Che cosa ci fai qui? Questa fila non è per te.»

Ayala fu sorpreso dall’asprezza con cui lo interpellavano; notò solo allora che non c’era nulla fra i suoi abiti che lo identificasse come un uomo di Dio.

«Parlategli con rispetto» intervenne Kenjirō con severità. «Quest’uomo è Martín Ayala, inviato di Nagasaki con un salvacondotto di Oda-sama che gli concede di percorrere il paese. Ha concluso il suo viaggio e viene a chiedere udienza al signor Akechi.»

L’anziano esaminò lo straniero, il cui volto, barbuto e solcato da profonde occhiaie, si alzava un palmo al di sopra del resto dei presenti.

«Lei è un padre cristiano?» chiese, sospettoso.

«Così è. Mi dispiace non indossare qualcosa che risponda alla mia condizione.» E gli mostrò il documento bollato con lo stemma della corte di Gifu.

Il funzionario si chinò per studiare il salvacondotto con sguardo diffidente, ma non osò prenderlo in mano.

«Seguitemi. Non dovete aspettare qui, questo non è posto per una persona come voi.» E dirigendosi alla guardia che lo accompagnava, aggiunse: «Sadatsugu, occupati del loro destriero e dei loro bagagli».

Furono condotti attraverso la labirintica rete di cortili, giardini, porte e passaggi che collegavano gli anelli più esterni della fortezza con quelli più interni. Preceduti da due lancieri e dall’anziano amministratore, la lunga passeggiata finì per concludersi in una casa di un solo piano costruita accanto a uno stagno: una sorta di dojo o casa di meditazione, poiché l’interno era completamente chiaro, salvo per le stuoie di tatami che coprivano il pavimento di legno.

Una domestica si affacciò sentendoli arrivare e si affrettò a uscire per accoglierli con una profonda riverenza.

«Quest’uomo è un inviato di Nagasaki» spiegò il funzionario, senza disturbarsi a salutarla. «Lui e il suo accompagnatore aspetteranno qui finché non verranno chiamati al cospetto di sua signoria.»

«Certo», rispose la donna con un altro inchino e, prima di rimettersi in piedi, allungò le mani verso Kenjirō.

Questi notò lo sguardo accigliato delle guardie e, con riluttanza, accettò di consegnare le proprie armi. La domestica le accolse con un ringraziamento prima di fargli cenno con la mano di salire sulla pedana di legno.

«Riposate, prego, vi preparo un po’ di tè.»

La donna ripose le spade ai piedi dell’altare che presiedeva l’ampia sala, con le impugnature verso sinistra, indicando così che si trovavano in un luogo di pace. Poi sparì dietro l’unica porta laterale, i suoi passi delicati erano accompagnati dagli scricchiolii del legno.

I visitatori rimasero soli nella stanza vuota, spalancata su un giardino dipinto di colori autunnali.

«Era questa l’accoglienza che ti aspettavi?» chiese Ayala, godendosi il suono degli zampilli che si tuffavano nello stagno.

«Non so che cosa mi aspettavo, ma preferisco essere qui che in quella maledetta fila.»

Al calar della sera gli prepararono un bagno e gli restituirono i bagagli. Avevano perquisito le borse, ma avevano anche lavato e piegato i vestiti, quindi non protestarono. Quando si furono confortati con l’acqua calda, la domestica portò dei vassoi con la cena. Entrambi ringraziarono e mangiarono di fronte alla donna, che si ritirò solo quando ebbero finito, portando con sé i coperti.

Passarono la notte in quella stessa sala. Kenjirō, seduto a gambe incrociate, dormicchiando a testa bassa; Ayala, accucciato accanto a un braciere, con la schiena dolorante per aver dormito sul pavimento di legno. La mattina dopo, gli fu servita la colazione e ripresero ad aspettare, condannati alla piacevole ostilità di quella casa con tanto di stagno.

La giornata trascorse in una monotonia interrotta solo dall’andirivieni della domestica che, ossequiosa, rispondeva a tutte le loro necessità. La pazienza di Kenjirō si consumava al ritmo della luce del giorno; al calar della sera, il samurai non era più di grande compagnia: rimuginava sulla propria disperazione girando per la sala vuota, immerso in un silenzio ostile che rompeva solo per mormorare a voce bassa.

Dormirono un’altra notte in quella gabbia di carta e legno. A metà mattina, Kenjirō non riuscì più a sopportare l’attesa. Prese le sue spade, le fece scivolare sotto l’obi e si diresse fuori.

«Che cosa stai facendo?»

«Vado all’armeria. Era mio dovere presentarmi al cospetto del maestro d’armi al mio ritorno.» Parlava mentre si infilava i sandali seduto sullo scalino che dava sul giardino. «Nel frattempo, cercherò di capire se pensano di lasciarci qui in attesa fino a farci morire di noia.»

Detto questo, abbandonò la casa con lo stagno con uno slancio che ad Ayala parve pericoloso.

Miura Nagamasa, maestro spadaccino del clan Akechi, entrò nella sala dove lo attendeva quel visitatore inopportuno. Riconobbe con uno sguardo di sdegno il goshi inginocchiato davanti a lui: era lo stesso con cui aveva parlato all’inizio dell’autunno; anche se di quel disgraziato ricordava soprattutto l’eccellente fattura delle sue spade, del tutto inadatte a un contadino.

«E così alla fine sei sopravvissuto al tuo viaggio.»

«Con l’aiuto di Buddha e del dio dei cristiani, il maestro Ayala è riuscito a concludere il proprio lavoro ed è di ritorno al castello.»

«E perché sei qui? Se non ricordo male, non hai preso nessun’arma dal mio deposito.»

«La cavalcatura che era stata affidata al maestro Ayala è stata sostituita nelle stalle con un altro animale di simili virtù. Tuttavia, dopo la battaglia del monte Hiei ho perso i vestiti con lo stemma del clan Oda che mi avevate consegnato.»

«Hai combattuto a Hiei?» chiese Miura, senza nascondere lo stupore.

«Al servizio del signor Fuwa Torayasu. È stato lì che abbiamo perduto il cavallo, i vestiti e molti dei nostri averi» spiegò Kenjirō senza alzare la testa. «Vi assicuro che potrò restituire il costo di quegli abiti.»

«Ricordami il tuo nome, goshi

«Kudō Kenjirō, mio signore.»

«Kudō Kenjirō, perché dovrei volere il tuo sporco riso nella mia armeria?» L’armaiolo dava colpettini sul tatami con il suo ventaglio chiuso. «Sei stato negligente e spetta a me stabilire il prezzo delle tue mancanze.» Si leccò le labbra. «Consegnami il tuo daishō

Kenjirō alzò lo sguardo.

«Temo che questo non sarà possibile, signor Miura.»

«Osi disobbedire al maestro d’armi di sua signoria?»

«Queste sono le spade di mio padre, e la pietà filiale è un impegno maggiore dell’obbedienza che devo a voi.»

«Non c’è maggior obbedienza di quella che devi al tuo signore, sciocco!»

«La lealtà di un samurai per il suo signore è un riflesso della lealtà che, come figlio, deve a suo padre» rispose Kenjirō con voce calma. «Il filosofo degli Zhou2 diceva: “Se volete sapere com’è un uomo, osservate come si comporta con i propri genitori”. Perciò, se dovessi disonorare mio padre, come potrei onorare il mio signore?»

Miura alzò il mento con un’espressione di assoluto disprezzo: «Vuoi farmi una lezione, verme impertinente? Non restituisci gli abiti che ti sono stati consegnati e ti rifiuti di consegnare le tue armi per riparare il danno. La tua insolenza è tale che ti offri di ripagare la tua mancanza con denaro o riso, come un volgare mercante.» Chiuse il ventaglio e lo sbatté a terra con forza. «No, goshi, sarò io a dettare il prezzo della tua negligenza: apriti il ventre qui e ora, o ti assicuro che il signor Akechi saprà della vergogna che hai fatto cadere sulla tua famiglia».

«Ora basta!» echeggiò d’improvviso una voce.

Kenjirō seguì lo sguardo incredulo dell’armaiolo, che si perdeva nell’anticamera alle sue spalle. Quando si voltò scoprì Martín Ayala in piedi sulla soglia della sala di ricevimento.

«Cane nanban! Come osi irrompere così nei miei appartamenti?» proferì Miura, sconvolto dall’indignazione.

«Davvero pensate di condannare un uomo per dei semplici scampoli di tela?», lo rimproverò Ayala, senza ascoltare il suo avvertimento. «Questo samurai è al mio servizio per ordine di Oda Nobunaga, e altrettanto vale per le sue spade, consacrate alla cristianità. Appropriarsi di armi benedette porterà disgrazia sulla vostra armeria, e disporre della vita di un guerriero al servizio di Oda porterà disgrazia sulla vostra persona. Io stesso mi assicurerò che così avvenga.»

Miura strinse le labbra in una linea sottile. I suoi occhi minacciavano di scatenare un incendio, ma Kenjirō vide come lo sguardo dello spadaccino si moderava nel valutare le conseguenze di un accesso di rabbia, dimostrando la cautela che gli aveva permesso di mantenere il suo posto per tanti anni.

«Quest’uomo è stato investito di un blasone e di privilegi molto al di sopra delle sue origini, e ora ringrazia rifiutando di rinunciarvi. Pretende di tenere per sé degli abiti di cui non è degno.»

«Quegli abiti, e cose molto più importanti, sono stati perduti a Hiei. Ma se credete che la vostra posizione potrebbe vedersi compromessa da questa circostanza, io stesso mi rivolgerò a Oda-sama assumendomi la responsabilità di aver perso il suo blasone nel corso del nostro viaggio. Vi assicuro che voi sareste esonerato da ogni responsabilità.»

Il maestro d’armi sbuffò mentre incrociava le braccia, con fare severo. Alla fine, si produsse in un gesto esagerato di benevolenza: «Se voi vi impegnate ad assumervi le conseguenze di questa spiacevole situazione, potremo considerare chiusa la questione.»

Ayala si chinò in una profonda riverenza.

«Grazie per la vostraa comprensione» disse, con un tono così sincero da stupire lo stesso Kenjirō. «Vi assicuro che elogerò i vostri servigi e la vostra buona disposizione davanti ad Akechi-sama e Oda-sama. Ora, se volete scusarci.»

Si diresse all’uscita seguito dal suo sconcertato guardaspalle. Una volta fuori, il samurai non poté trattenersi dall’esclamare: «Non ho mai visto tempesta che lasciasse spazio alla calma con tale facilità».

Ayala sorrise.

«Qualcosa ho imparato dal nostro incontro con quei samurai nella locanda di Shima. Se una mente debole – come è il caso di quell’uomo – si sente umiliata, è facile che alberghi desideri di vendetta. È meglio lasciarlo così, fargli credere di esser stato magnanimo.» L’espressione del gesuita si fece più dura. «Questo non significa che non mi sia chiara la tua imprudenza. Come puoi essere così sciocco da metterti contro uno così?»

«Non c’è stato alcuno scontro» rispose Kenjirō, che si distraeva accarezzando le foglie dei mandorli lungo il sentiero. «Semplicemente, il signor Miura mi ha chiesto qualcosa che io non potevo dargli. Avevo le mani legate.»

«Ti saresti tolto la vita piuttosto che consegnare quelle armi, non è vero?»

«Perché me lo chiedete? Non sostenete di aver imparato qualcosa nel corso del viaggio?»

Ayala riportò lo sguardo davanti a sé, preferiva non discutere.

In ogni caso, la sua rabbia si dissipò quando vide l’inattesa comitiva che li attendeva accanto alla casa con lo stagno: il vecchio funzionario li aspettava accanto all’ingresso, accompagnato da vari guerrieri distinti dall’emblema con i cinque petali.

«Sono samurai al servizio diretto di Akechi Mitsuhide, non semplici sentinelle» lo avvertì Kenjirō in un sussurro prima di arrivare all’altezza di quegli uomini.

«Padre, venite con noi» fu il laconico saluto dell’anziano. «Sua signoria desidera parlare con voi.»

Ayala riuscì solo ad assentire, con la bocca di colpo secca. Quando Kenjirō gli si avvicinò, uno dei samurai gli rivolse uno sguardo sprezzante.

«Il goshi deve restare qui.»

Ayala lo pregò con lo sguardo di essere prudente e, senza altre parole, seguì la sua scorta nel cuore del castello.

1. Ora della scimmia: tra le tre e le cinque del pomeriggio.

2. Kenjirō si riferisce a Confucio, funzionario e maestro filosofo durante il regno della dinastia Zhou. Il confucianesimo è stato fondamentale per configurare l’etica e l’organizzazione sociale dei samurai.