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La giustizia dei lupi

Ayala entrò nel giardino con passo titubante, senza sapere che cosa avrebbe trovato nel bosco. La brezza marina agitò gli alberi da frutta e gli fece accapponare la pelle. Gli tremarono le mani, di paura o di freddo, quindi cercò il calore della croce che portava sul petto. Appena sfiorò la reliquia di sua madre, scheggiata da quando aveva accompagnato Kenjirō in battaglia, lo invase la calma di coloro che si abbandonano alla volontà di Dio. Era sulla strada della verità e il suo dovere era cercare di percorrerla fino alla fine. Se fosse caduto nell’intento, sarebbe stata una buona morte, come dicevano i samurai.

Aggrappandosi a quell’idea, calpestò la ghiaia a terra e si addentrò nel bosco artificiale che cresceva vicino al torrione. Nonostante la stagione avesse immerso il giardino in una quiete malinconica, percorrerlo tranquillizzava lo spirito e risvegliava il desiderio di farvi ritorno, forse quando la vita che giaceva sotto il terriccio si sarebbe aperta con l’arrivo di giornate più temperate.

Come una raffica di quella promessa d’estate, giunse alle orecchie di Ayala la musica dispersa di un koto. Le note vibravano intrappolate sotto i rami, silenziate di tanto in tanto da applausi improvvisi. Man mano che avanzava, i mandorli e i peschi si allontanarono per permettergli di intravedere la strana scena: nel cuore del boschetto si innalzava una morbida collina e, sopra a questa, un unico ciliegio dai rami quasi nudi. La sua esigua ombra accoglieva una ventina di persone che si scambiavano confidenze al caldo del sakè e dei bracieri di carbone.

Le concubine indossavano allegri yukata, agitati e smossi con altrettanta allegria, lasciando in vista spalle nude e cosce dal bianco turgore. Le mani dei loro accompagnatori volavano sotto i colorati strati di stoffa, schivando i languidi tira e molla e la falsa timidezza delle ragazze. E al centro del gruppo, rialzato sopra agli altri, seduto fra le radici del ciliegio, un uomo dai tratti eleganti discorreva con gli uni e con gli altri, sfoggiando un sorriso soddisfatto e una chioma sciolta che permetteva a malapena di intuire lo chignon samurai. Sul suo petto stava sdraiata una ragazza dall’atteggiamento dissoluto quanto gli altri, ma che con sguardo attento percepì la presenza di Ayala non appena lui si affacciò nella radura.

«Chi abbiamo qui?» annunciò Akechi Mitsuhide, avvertito dalla sua accompagnatrice. «Un nuovo invitato che si unisce a noi.»

Le facce si voltarono verso il nuovo arrivato e, come se si trattasse di un ulteriore attrazione, lo ricevettero con risate e applausi.

«Padre Martín Ayala,» sillabò il daimio, sforzandosi di pronunciare correttamente il suo nome «eravamo ansiosi di vedervi. Il vostro arrivo mi colma di gioia e mi ispira nuovi versi.»

Mitsuhide tese il bicchierino di sakè per farselo riempire, in attesa che si creasse il silenzio necessario per improvvisare un poema. Quando tutti furono in silenzio, tentò:

Presagio di neve,

svolazza il corvo

fino al mio giardino.

I presenti scoppiarono in applausi d’ammirazione e Ayala contemplò i propri abiti. Indossava un sobrio kimono nero che Junko gli aveva regalato prima di dirgli addio, e dalle sue spalle pendeva una cappa che era appartenuta al defunto padre Enzo Fabbiano, capo inevitabile degli abiti gesuiti. Doveva riconoscere che il suo aspetto rendeva giustizia al soprannome con cui erano conosciuti in quelle terre.

«Scusatemi per la pessima poesia» disse Mitsuhide con un sorriso e un sorso di sakè sulle labbra. «Senza dubbio devo lavorare sulla metrica.»

«Vi ringrazio del benvenuto, Akechi-sama,» rispose Ayala «temo di non potervi ricambiare una tale cortesia, ma la poesia non è fra i miei scarsi talenti.»

Se il daimio sperava che quella frivola accoglienza contrariasse un visitatore arrivato per questioni così gravi, la tranquillità che il gesuita mostrò dovette deluderlo. Non sembrava nemmeno soffrire della facile indignazione che i padri cristiani mostravano di fronte ai piaceri della carne. Per tutte quelle ragioni, l’animo di Mitsuhide si fece d’un tratto cupo.

«Immagino che, se siete qui, è perché avete dato per concluso il compito che dovevate portare a termine nelle mie terre» disse il signore della guerra mentre si alzava in piedi.

«Non solo nelle vostre terre, o-tono, il mio incarico mi ha portato molto oltre, fino alle falde del monte Hiei e nelle profondità della provincia di Settsu.»

«E che cosa avete potuto verificare in un viaggio così lungo?»

«Perdonatemi se per ora non vi espongo le mie conclusioni. Il principale della missione di Nagasaki deve essere il primo ad ascoltarle, ma non avrò inconvenienti a sottoporvele una volta che la Compagnia ne sarà a conoscenza.»

Mitsuhide annuì con un sorriso.

«E perché siete qui, allora?»

«Non volevo chiudere questa indagine senza ringraziarvi per l’aiuto che ci avete fornito, non solo facilitando il mio lavoro, ma accogliendo anche i fratelli che sono dovuti fuggire in seguito a crimini tanto abietti.» Ayala formalizzò il suo ringraziamento con una profonda riverenza. «Al tempo stesso, volevo chiedere a sua signoria se desidera aggiungere qualche considerazione o confidenza all’indagine prima di considerarla chiusa.»

Il daimio allargò le braccia e una domestica si affrettò a infilargli il kataginu. Con aria risoluta, Mitsuhide si annodò la giacca e si cinse in vita il daishō che un paggio bambino gli porse. Solo allora alzò la voce: «Portate il mio presente per padre Ayala».

Ayala, che era rimasto ai piedi della collinetta, vide una ragazza avvicinarsi per sistemare davanti al suo signore un vassoio innalzato su quattro gambe. Era coperto da una grande scatola laccata che impediva di appurare la natura del misterioso regalo.

«Mentre voi viaggiavate oltre l’Ise, io ho fatto le mie indagini, preoccupato per il costante arrivo di cristiani nelle mie terre.» Mitsuhide appoggiò l’avambraccio sull’impugnatura della sua katana. «Non ne abbiate a male, è un piacere accogliere i vostri, ma era evidente che i crimini contro i bateren cominciavano ad avere un effetto anche sulle mie terre. Ho ritenuto fosse mio dovere chiarire la questione, quindi mi sono chiesto: chi potrebbe beneficiare da una simile disgrazia? È stato allora che ho scoperto che, in mia assenza, il traffico mercantile al porto di Anotsu era duplicato, attratto dai nuovi insediamenti cristiani.» Il daimio scrutò l’espressione del suo ospite, ma questi rimase imperscrutabile. «Una disgrazia per la svostra gente trasformata in una benedizione per le mie casse, si potrebbe pensare… Salvo che quest’attività portuaria si rifletteva appena nei conti del feudo. Sempre più navi nere attraccavano nelle mie acque, ma le entrate per dazi doganali non erano cresciute nella stessa proporzione. Quando mi sono interessato di questo strano fenomeno, la verità non ha tardato ad affiorare.»

Mitsuhide rovesciò il vassoio spingendolo con il piede e due teste scivolarono giù per il pendio, saltando e colpendo l’erba nella loro tetra inerzia. Un silenzio attonito calò sulla radura quando una di queste venne a fermarsi di fronte al gesuita. Ayala osservò il volto macilento ai suoi piedi: gli occhi infossati, le guance scarnificate, la bocca annegata di sale… Non ci mise molto a riconoscere Luís Almeida, il mercante portoghese che l’aveva ricevuto al suo arrivo ad Anotsu, il perfetto intermediario fra il clan Akechi e i navigatori d’oltremare. L’altra testa apparteneva a Naomasa Sorin, antico primo consigliere del clan Kajikawa riconvertito in castellano degli Akechi.

«Il mercante Amaru e il mio stesso karō» annunciò Mitsuhide, chiudendo la mano intorno all’impugnatura della sua sciabola. «Io stesso gli ho tagliato la testa quando sono venuto a sapere del loro tradimento.»

Il gesuita distolse lo sguardo dagli occhi della vittima e lo sollevò verso il boia: «Tradimento?».

«Naomasa ha confabulato con Amaru per arricchirsi alle mie spalle. Il mercante gli ha indicato quali erano le case cristiane che dovevano essere chiuse in modo da deviare le rotte marittime fin qui, l’altro ha fatto ricorso ai sicari di Iga per eseguire gli omicidi. Un mercante straniero e un antico vassallo dei Kajikawa… Pensandoci bene, non ho di che stupirmi.» Mitsuhide fece un sorriso beffardo. «Dovreste ringraziarmi. Non ci saranno più morti fra la vostra gente.»

Ayala tornò a contemplare i volti di quegli uomini decapitati, martiri di una causa che gli era estranea. Non era ringraziamento quel che gli ribolliva in petto.

Abbandonò l’anello interno della fortezza colmo d’indignazione. Si sbarazzò dei funzionari che volevano scortarlo e prese il sentiero che conduceva alla casa vicino allo stagno. Lì, la domestica che li aveva serviti durante il loro soggiorno lo informò con gentilezza che Kudō Kenjirō lo aspettava alle porte del castello, e così Martín Ayala si incamminò in quella direzione.

Nessuno lo importunò mentre scendeva lungo il labirinto di cortili e mura di cinta. A ogni passo, però, la sua rabbia si diluiva in una pozzanghera di dubbi: era assurdo pensare che l’ambizione di due uomini avesse scatenato quella tempesta di disgrazie? Credeva che Mitsuhide fosse capace di sacrificare il suo primo consigliere e il suo intermediario con il mondo dei nanban solo per coprirsi le spalle davanti a una possibile accusa?

Certo che ne era capace. Erano mesi che si destreggiava in un ordito di cospirazioni, bugie e tradimenti che avrebbero fatto impazzire una mente estranea a quel mondo di ombre. Non aveva forse assistito ai terribili avvenimenti del monte Hiei? Chi aveva armato i monaci guerrieri con il “distruttore di province”? Chi, se non Akechi Mitsuhide in persona, aveva ordinato al proprio cognato di tradire Fuwa-sama e andare in battaglia al fianco dei suoi nemici? Avvenimenti dei quali non aveva altre prove che la sua stessa testimonianza e quella di alcuni altri diseredati, sopravvissuti a una sconfitta che li aveva privati di gloria e di un signore da servire. Che scuse non si inventeranno per giustificare il loro disonore? Se uno qualunque di loro accusasse Akechi davanti a un tribunale del clan Oda, la cosa più probabile è che gli verrebbe ordinato di commettere seppuku come ricompensa.

Arrivò al cortile d’armi tormentato da quelle idee. Lì lo aspettava Kenjirō che, inquieto nell’attesa, girava intorno ai loro scarsi bagagli. Appena lo vide arrivare, il giovane samurai si diresse al suo incontro con espressione sollevata: «Ayala-sensei, mi hanno obbligato ad aspettarvi qui. Siete stato ricevuto da sua signoria?»

Il gesuita annuì in silenzio, cercando di nascondere le proprie tribolazioni.

«Ho parlato con Akechi-sama… È stata una conversazione illuminante.»

Kenjirō aggrottò la fronte. Le parole di Ayala non concordavano con la disillusione nei suoi occhi.

«Portavate con voi gravi sospetti, sono forse stati chiariti con un semplice colloquio?»

«Il tuo signore è un uomo convincente, Kenjirō. Ha ribattuto alle mie inquietudini con una risposta che dovrà essere sufficiente per me e per la Compagnia di Gesù.» Ayala lo prese per le spalle. «È meglio che tu non sappia altro, ragazzo, ricorda che tu e la tua famiglia rendete vassallaggio al clan Akechi. Hai compiuto il tuo dovere in modo ammirevole, nessuno potrà pretendere da te più di quel che hai fatto… Per quanto mi riguarda, il tuo incarico è finito.»

Kenjirō scostò lo sguardo per un istante, improvvisamente serio.

«Se non ci sono inconvenienti per voi, mi piacerebbe scortarvi finché non vi imbarcherete per Nagasaki.»

Ayala sorrise, anche con gli occhi.

«Sarà un piacere, amico mio.»

Scesero fino al porto e cercarono alloggio in una locanda per viaggiatori d’oltremare. La presenza di un padre cristiano nel porto di Anotsu non attirava più tanto l’attenzione, ma non era usuale vederne uno seduto a un tavolo con un samurai. Quella coppia così particolare beveva sakè immersa in un silenzio condiviso che non sembrava infastidirli: cercavano in fondo ai loro bicchieri le conclusioni per un viaggio che arrivava alla fine. Non sembravano trovarle, quindi riempivano di nuovo i bicchierini e tornavano a bere. Nessuno aveva nulla da dire, volevano semplicemente restare insieme fino alla fine.

Fu a metà pomeriggio, dopo una cena anticipata, che Kenjirō si decise a riflettere a voce alta: «Ho voglia di tornare a casa domani, di ritrovare i miei genitori e i miei fratelli… Ma ho paura del giorno che verrà dopo domani.»

«Che cosa vuoi dire?»

«Per tutta la vita mi è stato chiaro quali fossero i miei obblighi: servire mio padre e il mio signore; impugnare la zappa nei campi di riso e, se necessario, la spada sul campo di battaglia. Ho sempre creduto che compiere il mio dovere sarebbe stato sufficiente per me, ma ora temo che non lo sia più.»

Ayala annuì, e gli riempì il bicchiere.

«È la maledizione di coloro che lasciano casa propria. Il tuo mondo ora è più grande.» Bevve un sorso del suo liquore. «Ma non devi soffrirne, Kenjirō, con gli anni imparerai che abbracciare un desiderio non significa rinunciare all’altro. Il mondo sarà sempre qui ad aspettarti, e percorrerlo è molto più gratificante quando hai un posto dove fare ritorno.»

«E voi? Volete tornare a casa vostra?»

Il gesuita alzò la vista verso il cielo, ma tutto ciò che trovò fu il tetto consumato di quella taverna perduta nella baia di Owari.

«Da tempo voglio tornare a casa. Forse a breve lo potrò fare.»

La nave che doveva portarlo di ritorno a Nagasaki oscillava vicino al molo. Ayala si fermò ai piedi della passerella d’imbarco mentre i marinai raccoglievano l’attrezzatura e allentavano gli ormeggi; in coperta, il nostromo aveva già ordinato di issare il fiocco. Sarebbero salpati fra non molto.

Prima che lo chiamassero a bordo, si voltò verso Kenjirō. Ora che lo guardava negli occhi per l’ultima volta, non trovava le parole per l’addio definitivo. Si limitò a sorridere con tristezza.

«Ayala-sensei,» cominciò il samurai, nel vedere che al gesuita mancava la voce «dicono che la vera amicizia è un fiore al vento: arriva in modo inaspettato e allo stesso modo si deve lasciar andare. Mi dispiace che il vento ci abbia fatto incrociare solo per un istante, ma vi assicuro che ricorderò questo viaggio fino alla fine dei miei giorni.» Kenjirō si inchinò davanti a lui. «È stato un onore camminare al vostro fianco.»

Ayala si asciugò le incipienti lacrime e lo abbracciò.

«Non ci sarà giorno in cui non mi mancherà averti al mio fianco.» Fece un passo indietro per restituirgli la riverenza. «Sei stato molto più che un protettore, sei stato il mio ultimo respiro e la voce della mia coscienza. Grazie di tutto Kudō Kenjirō. Sono sicuro che ci rincontreremo.»

«In ognuna delle nostre vite, Ayala-sensei» annuì Kenjirō con affetto.

Si separarono prima di perdersi d’animo, e Martín Ayala salì sulla passerella con movimenti incerti. Aveva perso il suo bastone per quel che restava del viaggio.

Kenjirō rimase sul molo finché i marinai non liberarono gli ultimi ormeggi e la nave si inoltrò pigramente nel canale: quando furono a distanza sufficiente, il nostromo ordinò di allentare la vela maggiore per prendere vento, e l’imbarcazione si allontanò con il sole di levante a poppa.

Il viaggio di Ayala continuava, ma il suo si concludeva lì, e Kenjirō si sentì invadere dall’inevitabile tristezza di chi resta indietro. Quando le vele sfumarono all’orizzonte, si mise la borsa in spalla e imboccò il cammino verso casa.

Camminò per il resto della giornata con lo sguardo assente, alieno a quanto lo circondava, finché non notò le prime case della valle con i loro tetti di paglia che indicavano il cielo, appuntite come aghi di pino. Solo allora Kenjirō si accorse che il sole stava già calando dietro alle colline, e il vento trascinava fino a lui il tamburellare delle campane d’argilla nell’aria impregnata della fragranza dell’erica. Casa sua gli dava il benvenuto, si disse con un sorriso, e cominciò a scendere lungo il sentiero pietroso che arrivava al casolare di ottomila tsubo e trentadue famiglie amministrato da Kudō Masashige.

Si inoltrò fra i campi coltivati e le capanne sparse qua e là, lungo i sentieri che i suoi stessi piedi avevano calpestato fino a poco tempo prima. Mentre si avvicinava alla casa della sua famiglia, si dilettò nel riscoprire il paesaggio: il mare di cedri che copriva i monti vicini sembrava aver intrappolato il crepuscolo nelle sue foglie, e presto si sarebbe liberato di quel colore bronzeo per tornare al verde profondo, quasi solenne, dell’inverno. I campi di riso, pieni di spighe dorate al momento della sua partenza, erano diventati pantani che sarebbero rimasti incolti fino alle nuove inondazioni per la semina.

E fu tra le ultime pile di paglia che venivano ammucchiate in una risaia che scoprì una figura familiare, minuta e inquieta. Circondata da uno sciame di bambini, sporca di fango fin nei capelli, Fumiko-chan giocava ad arrampicarsi sul pendio e a saltare dal sentiero alla montagna di fieno. I piccoli correvano, gridavano e facevano chiasso, sfidandosi a saltare, prendendo in giro i più timidi. Ovviamente, Fumiko era tra gli istigatori, e Kenjirō si fermò a contemplarla dalla salita che circondava la piantagione.

Una fitta di felicità lo ferì mentre osservava sua sorella, e si sarebbe con gioia perso in quel momento se non fosse stato perché i bambini presero a tacere a uno a uno quando notarono la sua presenza, forse temendo i rimproveri di un adulto.

«Kenji!» gridò d’un tratto Fumiko, e cominciò a piangere mentre correva verso il terrapieno che delimitava i campi coltivati. «Kenjiiiii!» gridava fra le lacrime, disperata per arrampicarsi fino a lui.

La terra si staccava sotto le sue mani e i ciottoli rotolavano giù per la scarpata, ma fra inciampi e scivolate Fumiko riuscì a raggiungere il sentiero dove suo fratello la aspettava. La bimba gli saltò al collo, lo abbracciò e cominciò a piangere.

«Su, su, calmati» le disse lui all’orecchio mentre la stringeva a sé.

Lei scuoteva la testa. Sollevò il capo solo per pulirsi il moccio con la manica e guardarlo negli occhi.

«Promettimi che non te ne andrai mai più» lo incalzò.

Lui sorrise e le ravviò una ciocca di capelli sporchi di fango.

«Questo non te lo posso promettere», rispose con un tono di scusa. «Ma posso prometterti che tornerò sempre.»

Lei affondò di nuovo la testa nel suo petto, e Kenjirō la portò in braccio per il resto della strada.

«Sai dove sono padre e madre?»

«In casa. Non hanno più parlato di te da quando sei andato via.»

«E perché credi che non lo abbiano fatto?»

«Si sono dimenticati di te. Ma io no!» protestò la bambina, con aria di sfida.

«Non credo che si siano dimenticati di me, Fumiko. Ti racconto un segreto: a volte, i grandi non parlano di quello che li preoccupa.»

Lei alzò di nuovo la fronte e notò l’orecchio mozzato del fratello: «Che cosa ti è successo?» chiese, improvvisamente seria. «Sei stato in guerra? Hai avuto paura…? Hai dovuto sguainare Filo di Vento?»

«Ho avuto paura» rispose, interrompendo la cantilena di domande. «Ma ogni sera, quando chiudevo gli occhi, pensavo a te e riuscivo ad addormentarmi.»

Si chinò per posarla a terra. Erano arrivati all’ingresso di casa. Si scambiarono un ultimo sguardo prima che Kenjirō aprisse la porta che si affacciava sul giardino.

Dentro, Masanori tagliava la legna. Alzò la testa e, nel vedere suo fratello sulla soglia, lo sguardo gli si illuminò come se una nube si fosse d’un tratto dissipata. Lasciò cadere l’ascia sul ceppo e corse a ricevere Kenjirō.

«Fratello!» Lo strinse con forza, come se temesse che fosse un fantasma.

Kenjirō lasciò cadere i bagagli, sorpreso dalla reazione del fratello maggiore. In quel momento capì che, dentro di sé, aveva temuto quell’incontro. Aveva paura che Masanori, che aveva ammirato per tutta la sua vita, lo ripudiasse per avergli rubato quel viaggio, le sue spade e il suo ruolo di primogenito.

La consolazione di sapersi benvenuto dal fratello sciolse una pietra di sale che si diluì in un pianto sereno, contenuto. Attraverso le lacrime, vide sua madre affacciarsi sul giardino. Lei si portò una mano al petto e sorrise, senza voler percorrere i passi che li separavano per non interrompere l’incontro tra i due fratelli.

Dietro di lei apparve Kudō Masashige.

«Kenjirō, figlio mio!»

Masanori fece un passo indietro perché il fratello potesse salutare il padre. Spettava a lui dargli il benvenuto a casa.

«Padre,» cominciò Kenjirō, liberando il daishō che portava in vita «ho portato a termine il compito che mi avete affidato. Vi riporto le spade della famiglia.»

Si inginocchiò e porse le armi, offrendole al padre. Questi le ricevette con un inchino e le lasciò in mano alla moglie. Poi, obbligò Kenjirō a rialzarsi.

«È mio figlio che torna a casa, non le mie spade» sorrise Masashige, soddisfatto. «Alzati ed entra in casa, avrai una lunga storia da raccontare.»