Masamune avanzava come una serpe fra gli alberi, pestando in silenzio le radici, evitando i rami che gli si impigliavano nei capelli e nei vestiti. Lo seguivano una manciata di disertori che, proprio come lui, sentivano che Iga non era più posto per loro. Tatsumaru e Hitoka erano un paio di passi indietro: erano stati loro a riunire la maggior parte dei profughi. Ma non c’erano solo shinobi del clan Koyama in quella marcia notturna, fra loro si contavano anche uomini e donne di Otowa, di Shindo, di Tateoka… Una processione di disillusi e traditi, di oppositori del Tribunale delle Maschere che avevano intravisto l’opportunità di un nuovo inizio.
Mancavano due giorni alla luna nuova, ma gli avvenimenti di quella notte avevano precipitato i loro piani. Se avessero potuto attendere la data indicata da Fuyumaru, forse qualcun altro si sarebbe unito a loro. Masamune se ne rammaricava mentre, alle sue spalle, il vento portava i rantoli confusi della battaglia. D’un tratto, una lontana esplosione scosse la foresta e tutti si voltarono. Erano consumati dal senso di colpa perché stavano abbandonando i loro fratelli nel momento di maggior bisogno, eppure Masamune non rallentò il passo. Se qualcuno si fosse pentito, non aveva che da tornare sui suoi passi e gettarsi contro le lance e gli archibugi dell’esercito di Oda.
La boscaglia li fece riemergere molto vicino a uno dei guadi del fiume Kizu. Sull’altra riva si innalzava una serie di colline basse, con forme sinuose ricoperte di hagi. Il color porpora dei fiori sembrava sbiadito sotto la luce smorzata della luna calante, eppure a Masamune parve raggiante come il sole di un giorno nuovo.
Si addentrarono nelle acque gelate e attraversarono il fiume con attenzione: appena mezzo centinaio di ombre che sembravano essersi staccate dal bosco nell’oscurità. Prima che raggiungessero la riva opposta, una figura si drizzò su una delle colline. Indossava abiti scuri, come tutti loro, ma mentre si avvicinavano sguazzando verso quell’uomo ne riuscirono ad apprezzare l’espressione orgogliosa, molto lontana dall’inquietudine in cui erano immersi loro.
Masamune gli fece cenno di attendere vicino alla riva e salì sulla collina dove li aspettava colui che li avrebbe guidati a partire da quel momento.
«Questi sono coloro che mi hanno seguito,» si lamentò «se avessimo avuto un paio di giorni in più, sicuramente altri si sarebbero uniti a noi. Ma nessuno poteva prevedere che Oda si sarebbe scagliato così velocemente su Iga.»
«Ti sbagli,» disse Fuyumaru «il tribunale sapeva bene che il giorno era oggi.» Fece un passo verso il pendio e alzò la voce. «Ascoltatemi tutti! Il mio nome è Fuyumaru, alcuni di voi mi hanno conosciuto in un’altra vita, altri hanno sentito parlare di me solo come di un disertore e di un traditore. Vi chiedo di guardarvi alle spalle, sopra gli alberi.»
Si voltarono e riuscirono a vedere il bagliore degli incendi che affumicavano il cielo in lontananza. L’aria calda faceva sollevare le scintille come fossero stelle volanti, e il vento già trascinava le prime braci verso il fiume Kizu.
«I veri traditori si trovano nel cuore stesso di Iga» proseguì. «Il Tribunale delle Maschere ha consumato oggi il suo piano: ha permesso agli eserciti del Re Demone di penetrare in queste terre, e le case che si opporranno a rendergli vassallaggio bruceranno fin nelle fondamenta prima che la notte finisca. Quando spunterà l’alba, Iga si sveglierà come un’altra provincia sotto il dominio di Oda Nobunaga.» Sguardi inquieti si mossero fra i presenti. «Il nostro obbligo è di mantenere il lascito di Iga, rafforzarci, attendere il momento giusto per ristabilire un governo libero che restituisca questa terra alla sua gente.» Si chinò e strappò uno dei fiori che aveva ai suoi piedi. «L’hagi fiorisce quando arriva l’autunno, per questo sarà il nostro simbolo a partire da oggi, il blasone dei figli di Iga che si nascondono nell’ombra. Fioriremo quando gli altri appassiscono, resisteremo nonostante il freddo e la desolazione.»
«Fuyumaru!» si alzò una voce dalla riva, era quella di Tatsumaru. «Anche se condividiamo il tuo proposito, che futuro può esserci per una manciata di shinobi senza clan né padrone? Sono tempi di guerra, giorni per assassini e spie, non per chinare la testa come contadini. Temo che, se ci limiteremo a nasconderci, finiremo per appassire ancor prima di essere fioriti.»
«Non chineremo la testa, Tatsumaru, non spariremo nell’oblio. Nella provincia di Mikawa, Hanzō il Tessitore aspetta il nostro arrivo. Ci uniremo ai suoi shinobi al servizio del clan Tokugawa. Il fiore di hagi crescerà al riparo delle tre foglie di malva.»
«Tokugawa è un altro cane di Oda» rispose Tatsumaru. «Come potremo fidarci di lui?»
«Tokugawa è più di quanto credano in molti» disse Fuyumaru. «Non resterà per sempre all’ombra di Oda, e ha giurato di ristabilire i privilegi di Iga quando sarà giunto il momento. Perché, altrimenti, il Tessitore sarebbe al suo servizio?»
Masamune fece un passo avanti e si mise al fianco del padre.
«Qualcuno ha qualcos’altro da dire?» chiese. Ci furono sguardi obliqui, un silenzio inquieto, ma alla fine nessuno prese parola. «Non perdiamo tempo, allora. Abbiamo molta strada da fare.»
Si alzarono in piedi e ripresero la marcia sotto quel firmamento senza stelle, sempre verso est. Oltre il fiume Nabari, oltre il monte Fuji, li aspettavano una nuova casa e un nuovo signore da servire.
Gli stivali di Sá Pinto de Lima risuonavano con forza sul selciato. Lo accompagnava un nanban dall’aspetto pericoloso, avvolto in una lunga cappa che non permetteva di vedere che cosa nascondesse sotto la giubba o in vita. Agli stranieri era stato proibito di portare armi sulla terraferma, ma era evidente che quegli uomini non giravano indifesi per le strade di Osaka.
Il mercante era spronato da un’urgenza che gli nasceva dalle viscere: quella sera aveva un appuntamento alla casa da tè di Midori-san, un bordello nella zona più rispettabile del quartiere alto, lì dove le residenze, invece di una pozza di fango all’ingresso, avevano tanto di giardini con fiori fragranti. Nonostante le sue arie da cortigiana, la dama Midori era una delle poche che gli permettevano di saziarsi a sufficienza con le sue ragazze: mordere, schiaffeggiare, perfino tagliare… Tutto gli era permesso purché pagasse il giusto prezzo, e quella sera Sá Pinto aveva soldi e appetito.
Imboccarono strade secondarie, solitarie a quell’ora. Midori-san insisteva sempre sul fatto che doveva raggiungere casa sua usando i vicoli meno frequentati, come se riceverlo fosse un disonore per i suoi affari, come se i suoi soldi valessero meno di quelli dei funzionari e degli amministratori locali. Odiava le puttane di quel paese, la loro finta fragilità, il loro atteggiamento da nobili dame cadute in disgrazia… A quello pensava quando una figura emerse da una traversa e gli bloccò il passaggio.
La guardia si fermò di colpo e subito si mise fra quello sconosciuto e l’uomo che gli garantiva una paga. In ogni caso, l’altro non si intimorì affatto quando aprì la cappa per mostrargli l’impugnatura della sua spada all’italiana: anzi, cominciò a camminare verso di loro con passi calmi, girando con il pugno il fodero della sciabola per orientare la lama verso l’alto.
«Você é Sarima-san?» chiese lo sconosciuto in un portoghese vacillante.
Sá Pinto scrutò quel giapponese sotto la scarsa luce del vicolo. Indossava un hakama e aveva in vita un daishō come i samurai, ma non aveva parte della testa rasata né alcun blasone. Era un rōnin, come li chiamavano in quelle terre, un’onda errante, un vagabondo al quale era permesso l’uso delle armi… Ma perché sapeva il suo nome?
«Quem pregunta?»
«Mi chiamo Kudō Kenjirō» rispose il rōnin avendo esaurito tutto il portoghese che conosceva. «Vengo a saldare un debito che ha contratto tempo fa con una donna di nome Junko.»
Sarima capì solo l’ultima parola, ma fu più che sufficiente.
«Mate ele» ordinò fra i denti.
Con la disinvoltura di chi ha ripetuto quel gesto mille volte, il guardaspalle sguainò due armi nello stesso istante: una corta e pungente con la sinistra, un’altra lunga e affilata con la destra. Kenjirō studiò il suo rivale. Nei giorni che aveva passato a Osaka, aveva potuto osservare molti uomini come quello: di solito vagavano nei pressi del porto, dove gli era permesso di bere e di giocare a carte; quando perdevano, non esitavano a metter mano alle armi. Usavano la spada corta per bloccare e testare l’avversario, e quella lunga per tagliare e sferrare stoccate; ne tenevano una in ogni mano e si mettevano di profilo, muovendosi sempre in circolo, cercando di minacciare di lato il nemico. La scelta di quel vicolo angusto non era stata casuale.
Così cercò di essere paziente. Sapeva che il guerriero nanban era in difficoltà, che non gli piaceva trovarsi costretto fra quelle mura imbiancate, che non si aspettava di rischiare la vita quella sera. Lui, invece, aveva passato giorni a prepararsi per quell’incontro. Attese che il suo rivale perdesse la pazienza e, dopo un paio di accenni con la spada corta, tentò una stoccata profonda che il samurai deviò senza fatica. A quel punto, a Kenjirō bastò un giro di polso per tagliargli il petto con la punta della katana.
Fu un taglio superficiale, un doloroso avvertimento a tinte rosse, ma non ebbe l’effetto desiderato: invece di intimorirsi, il suo nemico gli si scagliò addosso con la punta della spada all’italiana. Kenjirō fece un passo indietro e la lama gli passò a un palmo dal collo. Prima che lo sconosciuto potesse pugnalargli il costato con la daga, gli assestò una gomitata in gola che lo obbligò a indietreggiare rantolando. Era tutto il vantaggio di cui aveva bisogno, quindi avanzò sul suo nemico con un poderoso fendente dall’alto. Sapeva che il portoghese non avrebbe potuto deviare quel colpo con una sola lama: fu obbligato a incrociare daga e spada sulla testa per fermare l’impatto con le coccie. Con la parte bassa indifesa, Kenjirō poté dargli un calcio al ventre, che fu sul punto di gettare il mercenario a terra. Prima che potesse rimettersi in guardia, il samurai concluse il suo attacco con un taglio obliquo che staccò di netto l’orecchio del rivale, affettandogli anche una discreta porzione di cuoio capelluto.
Il nanban si portò la mano alla ferita, sconcertato. Non sapeva esattamente che cosa fosse successo, ma comprese che il suo orecchio non c’era più mentre il sangue cominciava a inzuppargli i capelli e ad accecargli un occhio. Confuso, lasciò cadere le armi per tamponarsi la ferita; crollò di schiena contro una delle pareti del vicolo ed emise un grugnito animale. Guardò di sbieco il vagabondo per l’ultima volta e cominciò a camminare per allontanarsi, trascinandosi lungo la parete, lasciando una lunga macchia di sangue sul muro imbiancato a calce.
Solo davanti alla sua preda, il rōnin si chinò per raccogliere la spada del mercenario e si avvicinò a Sarima. Gli porse l’impugnatura.
«Difenditi» mormorò fra i denti.
Il mercante fece per afferrare con la sinistra l’arma che gli veniva offerta, ma all’ultimo momento tirò fuori la mano che nascondeva sotto la cappa. Impugnava una pistola a ruota, una strana arma che teneva per occasioni come questa. Lo sparo rimbombò nel vicolo e scosse la spalla sinistra di Kenjirō.
I due si guardarono, Sarima con un bagliore di speranza negli occhi. Una macchia di sangue cominciò a inzuppare l’haori del samurai, ma questo non gli impedì di rialzare la sciabola. Sá Pinto si sentì venir meno quando comprese che il proiettile gli aveva solo sfiorato la carne per poi perdersi nella penombra.
Non ebbe nemmeno il tempo di implorare clemenza o tentare la fuga, poté solo ammirare il bagliore della luna sulla lama, un istante di fugace bellezza prima della notte eterna.
Nei mesi che seguirono, Kenjirō alloggiò nei monasteri del monte Koya nel tentativo di distogliere la mente dai suoi aneliti e prepararsi per il musha shugyo.1 Quando si sentì in armonia con il vuoto, abbandonò la vita monacale e diresse i propri passi verso la costa nord del paese, che non conosceva e gli appariva quindi più misteriosa e affascinante. Percorse le province di Wakasa e Tajima visitando i dojo di varie scuole di scherma. Si dedicò alla caccia e alla pesca per nutrirsi, pernottò con contadini e pastori; per mesi camminò insieme a un pellegrino che lo istruì nelle forme poetiche classiche del katauta e del renga, mentre gli insegnava che un buon poeta non è colui che si ripiega sui propri sentimenti, ma colui che è capace di osservare il mondo con la fascinazione di un bambino.
Accettò di combattere per denaro e chiese umilmente di battersi in alcune delle migliori scuole del paese. Fu espulso due volte da monasteri di monaci guerrieri, ma il terzo gli aprì le sue porte e gli fu permesso di sfidare una naginata con una spada di legno. Vinse e dovette fuggire di corsa dall’ira degli sōhei, che lo inseguirono fin nei pressi del lago Togo.
Uccise due volte: una per salvare la propria vita e un’altra per salvare una vita altrui. Attraversò Hoki e raggiunse Izumo, dove si diceva che uno spadaccino portentoso fosse al servizio del clan Ikeda. Lì poté assistere a un duello fra quel samurai e un guerriero giunto da terre lontane per sfidarlo. Nonostante l’insistenza dell’avversario, il vassallo degli Ikeda non accettò di battersi con armi d’acciaio. Lui, almeno, non lo fece, poiché impugnò un bokken contro la katana del visitatore. Nel primo attacco strappò la spada di mano al suo rivale e gli schiacciò le costole, e Kenjirō comprese di non essere pronto per presentare una sfida formale contro un guerriero così formidabile.
Nel suo terzo anno di pellegrinaggio cominciò a viaggiare verso sud, di ritorno al mare di Seto, forse con l’intenzione di imbarcarsi verso l’isola di Shikoku. Tra sé e sé, però, sapeva che quella decisione rispondeva anche al desiderio di tornare a visitare il feudo cristiano di Takatsuki. Aveva ancora la speranza di incontrare di nuovo la dama Reiko e la sua gente, di condividere con lei i ricordi su Ayala-sensei.
Cedendo a quel desiderio, nel quarto mese dell’anno raggiunse il villaggio nascosto fra la riva dell’Akutagawa e le falde del monte Miyoshi. E lo trovò vuoto.
Attraversò le risaie incolte, salì per il bosco dove aveva affrontato Fuyumaru il Traditore e passeggiò in silenzio per la cittadina. Quella solitudine non avrebbe dovuto sorprenderlo, solo uno sciocco si sarebbe aspettato di trovare lì Junko e la sua gente. Morto Torayasu-sama, disciolto il clan Fuwa e rivelati i loro segreti, senza dubbio si erano visti obbligati a nascondersi, forse in cerca di protezione presso un altro daimio. In ogni caso, non poté evitare che la delusione pesasse su di lui come un macigno.
Vagò per il villaggio fino ad avvicinarsi alla residenza della dama Reiko. Si fermò davanti alla porta, restio a invadere l’intimità di quei ricordi, e fu tentato di girare sui tacchi e andarsene. Alla fine, però, si tolse i sandali ed entrò nella sala principale. I pannelli shōji erano pieni di tarme, e il sole trafiggeva la stanza facendo danzare la polvere: la pedana di legno sembrava coperta da un fine strato di terra e la fragranza dell’incenso koboku era svanita del tutto. Nonostante la desolazione del posto, i suoi ricordi affiorarono vividi, e osò addentrarsi per i corridoi in cerca del giardino interno. Voleva pregare sul piccolo altare sistemato fra le radici del salice, come la mattina in cui avevano dovuto difendere il villaggio. In qualche modo, sentiva che quel momento l’aveva trasformato.
Trovò il giardino ormai moribondo, i fiori appassiti, il suo delicato equilibrio ormai distrutto dalla natura selvaggia. Eppure, lo spirito di Jigorō-sensei continuava a impregnare il posto, impigliato sotto gli strati di tempo e di fogliame: bastò quello a farlo sentire benvenuto.
Si inginocchiò e cominciò a pregare al cospetto del tempietto in pietra. Quando aprì gli occhi, si chinò in avanti per scuotere la terra che copriva la piccola tettoia; fu allora che scoprì, fra le statuine di Buddha e della Vergine Maria, che qualcuno aveva lasciato uno spago arrotolato. Lo prese fra le dita, vi era appeso un crocifisso, di legno, scheggiato su uno dei bracci. Il crocifisso di Martín Ayala.
Kenjirō contemplò sul palmo della mano quel messaggio senza parole. Infine, chiuse il pugno e alzò gli occhi verso il sereno tramonto. Le lacrime non tardarono a far sfumare le nuvole e un sorriso si posò sulle sue labbra. Quant’era che non guardava quel cielo?, si chiese, prima di legare il crocifisso all’impugnatura della sua spada e a riprendere il cammino.
Concludeva il suo pellegrinaggio e cominciava una nuova ricerca.