Perché Valérie mi piaceva? Adesso, a distanza di tempo, mi pare di potere spiegare questa preferenza che, allora, mi si presentava soltanto come attrazione ossia come un fatto oscuro e senza motivo. Valérie mi piaceva, dunque, perché probabilmente vedevo in lei una specie di incarnazione del sentimento di incomunicabilità di cui soffrivo tanto. Alta, con lunghe forti gambe di danzatrice, la vita di vespa, il petto e i fianchi rotondi e floridi e il collo e il capo serpentini, Valérie aveva un volto di un pallore intirizzito, di tono quasi violaceo, con larghi occhi glauchi e immobili e una grande bocca piena di denti fitti e piccoli, bella ma, in fondo, molto simile a quella degli squali. Valérie aveva un carattere a suo modo straordinario: il mutismo. Sia, come è probabile, che sapesse di non avere niente da dire, sia che tacesse per rendersi originale, Valérie non parlava affatto. Ma è poco dire che non parlava. In realtà il suo silenzio era più che un semplice silenzio: era una provocazione, una sfida. Pareva che nella sua muta maniera lei dicesse: “Facciamo la gara del silenzio. E chi parla per primo, perde.” Questo mutismo ostinato e compiaciuto faceva di Valérie, per così dire, un personaggio posteriore a quello che sentivo di rappresentare. Valérie era ciò che io rifiutavo di essere; si trovava già in quel territorio dell’incomunicabilità in cui io recalcitravo ad addentrarmi; aveva accettato come condizione positiva quella che a me pareva la più negativa fra tutte. Provavo così di fronte a lei una curiosità non disinteressata, come di fronte ad un mostro al quale domani avrei potuto rassomigliare.
Venne dunque, Valérie, un pomeriggio e dopo essere entrata, senza, beninteso, salutarmi né dirmi niente, prese a girare per lo studio non soltanto osservando le tele esposte ma anche frugando tra quelle accatastate e voltate contro le pareti, comportandosi, cioè, come se io non ci fossi stato. Notai però che non guardava niente veramente e che tutta quella curiosità per la mia pittura serviva in realtà a farla pavoneggiare per lo studio, in atteggiamenti mondani e artificiosi, con la ruota della grande gonna a crinolina sospesa sulle gambe che parevano continuamente accennare dei passi di danza. Passarono così alcuni minuti; poi le dissi un po’ rudemente: “La smetta di guardare ai quadri che non la interessano e di cui non capisce niente. Venga qui.”
“Ma non voleva farmi il ritratto?” domandò rompendo finalmente il silenzio.
“Lo faremo più tardi. Ora venga qui.”
Non domandò di più e venne docilmente a sedersi sul divano accanto a me. Sparse intorno a sé l’ampia gonna, accavallò le gambe e quindi, come avevo preveduto e mi aspettavo, rimase immobile e silenziosa.
Adesso l’idea che Valérie, nonostante il suo atteggiamento sdegnoso, fosse d’accordo con me e fosse venuta allo studio con piena consapevolezza delle mie intenzioni, mi piaceva e mi divertiva. Pensavo che il silenzio di Valérie era una specie di verginità maledetta che io dovevo violare; e mi dicevo che se durante l’amore fossi riuscito a strappare qualche gemito di voluttà, lei poi non avrebbe più potuto ostentare con me i suoi provocanti e protervi silenzi: avrebbe dovuto riconoscersi vinta.
Presi a parlare scherzosamente del fatto che la vedevo spesso in giro del tutto sola o con delle amiche e così ne arguivo che in quel momento non volesse bene ad alcun uomo. Era una maniera come un’altra di entrare nell’argomento; ma Valérie non diede a vedere che mi aveva nonché compreso neppure udito. Continuai a parlare, tuttavia, sempre incoraggiato dal pensiero che lei fosse d’accordo con me e che venendo a trovarmi sapesse benissimo quello che io mi aspettavo da lei; ma mi accorsi ben presto che Valérie voleva farsi desiderare. È difficile spiegare ciò che provassi: in sostanza, pur mentre le parlavo e mi facevo piano piano più vicino a lei, avevo continuamente la sensazione di non esserci, ossia che Valérie fosse sola. Quest’impressione era tanto forte che volli smentirla con un gesto: alzai una mano e feci come per sollevarle i capelli che aveva folti crespi e neri, col pretesto che volevo vedere il suo orecchio. Tosto, con la stessa repentinità traditrice con cui scatta una tagliola dissimulata tra l’erba, lei si voltò e mi disse, tutto in un sol fiato: “Non mi tocchi, sono lesbica, gli uomini non mi piacciono, è dunque fatica sprecata, l’avverto che se lei mi tocca ancora urlerò, così,” e, come per convincermi che faceva sul serio, emise uno strillo acuto, stridulo, lacerante, agghiacciante che, non saprei dire perché, mi rimescolò l’animo ispirandomi quasi una specie di spavento. Subito dopo, come se non fosse successo niente, Valérie tornò al suo primo atteggiamento, le braccia incrociate sul petto, le gambe accavallate, la testa di profilo.
Allo strillo seguì il più lungo silenzio della mia vita, voglio dire il silenzio più lungo che mi sia accaduto di sopportare in compagnia di qualcuno con il quale avrei voluto, invece, parlare. Sedevamo l’uno accanto all’altro, tacendo lei e tacendo io; ma come ho già notato, il nostro silenzio non era un vero silenzio rilassato, tranquillo, privo di sottintesi, bensì, in un certo modo, un silenzio simile alla tela bianca che tenevo esposta sul cavalletto: come la tela non era una tela qualsiasi ma proprio quella tela che avrei voluto dipingere e non potevo, così il silenzio di Valérie e mio non era il silenzio dell’indifferenza o dell’accordo bensì quello dell’impotenza e della sfida. Eravamo insomma, silenziosi con una tensione molto simile a quella dei ragazzi quando fanno la gara del braccio di ferro. Si trattava di vedere chi sarebbe crollato per primo, ossia chi avrebbe parlato per primo.
Il silenzio si prolungava e io, intanto, pur tacendo, riflettevo e mi accorgevo che esso era in certo modo il simbolo della mia presente condizione. Valérie, infatti, non soltanto non voleva aver rapporti con me ma anche voleva dimostrarmi che era impossibile che ne avessimo. C’era, insomma, nel suo silenzio qualche cosa di didascalico e di pedantesco e dunque di insultante; come di una lezione proterva che mi si voleva imporre e che io respingevo. E qual era il senso di questa lezione? Che eravamo non già due persone vive e libere bensì due oggetti inanimati i quali, appunto perché inanimati, non potevano comunicare. Che non tacevamo, cioè, come due persone che non abbiano niente da dire, bensì come due sassi collocati l’uno accanto all’altro. Senonché c’era una differenza: i sassi non sono consapevoli di essere inanimati e di tacere; noi due, pur comportandoci come due sassi, sapevamo tutto il tempo che eravamo due persone.
Ma non volevo dichiararmi vinto e così andammo avanti forse tre quarti d’ora, immobili, muti, così vicini che mi pareva di avvertire il calore del corpo di lei e tuttavia lontanissimi l’uno dall’altro. Ogni momento, non so perché, speravo che la bocca di Valérie si aprisse in un sorriso e lei mi gettasse le braccia al collo esclamando: “Scusami, adesso basta, è stato tutto uno scherzo, ti voglio bene.” Ma era una speranza di cui riconoscevo l’assurdità nel momento stesso che la formulavo.
Intanto, Valérie taceva; e per quanto io cercassi di agganciare la sua attenzione con gesti che avrebbero dovuto ricordarle la mia esistenza, come accendere una sigaretta o sfogliare un libro, mi rifiutava con ostinazione il minimo segno di interesse. Mi era venuto così una specie di intorpidimento spasmodico per tutto il corpo; altrettanto intorpidito, il mio pensiero cercava invano di risuscitare il desiderio con l’evocazione di quei gemiti di voluttà che mi ero illuso di potere strappare alla ragazza. Quindi Valérie fece qualche cosa che ruppe, in certo modo, la situazione: tutto ad un tratto, come per sottolineare che per lei io non ero presente, rimboccò la gonna fino all’inguine e si aggiustò il reggicalze prima su una coscia e poi sull’altra. Aveva gambe magnifiche, lunghe dritte e alte, che poco più sul ginocchio si allargavano e si appesantivano senza perdere in nulla la loro eleganza. Notai che portava calze da danzatrice, con le maglie grandi e rade simili a quelle di una rete, tra le quali la carne compatta, di una bianchezza lucida sparsa di radi peluzzi scuri traspariva in maniera un po’ mortuaria. Ma questi particolari che in altre circostanze mi avrebbero forse turbato, in quel momento mi ispirarono un furore omicida, poiché mi venne in mente che Valérie si scopriva in quel modo non già per eccitare il mio desiderio bensì per dimostrarmi una volta di più che mi ignorava e che io per lei non c’ero. D’improvviso fu come se una molla fosse scattata nel mio corpo fino allora inerte. Con cieca violenza, quasi non vedendola più, come se mi fossi avventato non già contro di lei ma contro il mostro stesso che opprimeva la mia vita, le saltai addosso.
Valérie rimase un momento sorpresa quindi prese a dibattersi con violenza pari alla mia, sotto di me. Senza dubbio credeva che io volessi violentarla; non si rendeva conto che volevo ucciderla. Per questo, pur lottando con rabbia e forse anche con odio, e cercando tutto il tempo di colpirmi al ventre con il ginocchio e di graffiarmi la faccia con le unghie, non lottava con paura come probabilmente avrebbe fatto se avesse indovinato le mie vere intenzioni e questo salvò lei e me, perché, come credo, niente come la paura dell’aggredito può far precipitare il furore dell’aggressore.
Alla fine, come fui riuscito a stenderla sotto di me, le spalle sul divano e la faccia inchiodata tra i capelli e vidi chiaramente nei suoi occhi che non aveva paura di me, sentii ad un tratto svanire in me il desiderio di ucciderla e mi limitai a schiaffeggiarla con forza senza tentare di farle un male maggiore. Subito dopo la lasciai e lei balzò in piedi nel mezzo dello studio. Gli schiaffi non parevano averle fatto né caldo né freddo, prese la borsa, controllò rapidamente il volto nello specchietto e disse poi con voce del tutto calma: “Ero venuta per chiederle di prestarmi diecimila lire.” Capii che l’idea sottintesa era questa: “Forse prima potevi rifiutarmi il denaro; ma adesso che mi hai schiaffeggiato, non puoi non darmelo.” In silenzio cavai il portafogli e gettai sul divano il biglietto di banca. Lo raccolse, mi fece un leggero cenno di saluto e se ne andò. Poco più tardi, in maniera imprevista, mi telefono domandandomi in francese: “Est-ce-que ça vous arrive souvent?” Le dissi subito che mi scusavo, che era stato più forte di me, che ero pentito e che speravo di rivederla; ma, improvvisamente, mi accorsi che all’altro capo del filo lei taceva, esattamente come aveva taciuto poco prima sul divano: mi sfidava di nuovo, voleva di nuovo vedere chi di noi due avrebbe ceduto per primo. Chiesi per scrupolo: “mi sente?” e mi parve di avvertire il respiro di lei, tranquillo e pieno di odio, nell’imbuto del ricevitore. “Dunque”, pensai, “finiremo così: ai due capi di un filo telefonico senza neppure vederci, nonché udirci o parlarci.” Riattaccai il ricevitore e Valérie non mi telefonò più. L’incontrai poi una volta o due e fingemmo di non riconoscerci.
* Qualche mese dopo la pubblicazione del romanzo, appare sul n° 5-6 della rivista L’Europa Letteraria (dicembre 1960, pp. 15-19), diretta da Giancarlo Vigorelli, Un episodio inedito del romanzo “La noia” – Valérie.