L’editore Bompiani sta per distribuire ai librai il suo nuovo romanzo La Noia. Si dice che esso contenga novità di stile, cioè il proposito di definire quella che a suo giudizio può essere la formula del romanzo moderno. È per questa ragione che noi ora la preghiamo di rispondere ad alcune domande.
D’accordo, ma a un patto. Vorrei che si parlasse anche di quello che di solito viene chiamato il contenuto del libro.
Che cosa la spinge a una raccomandazione che potrebbe sembrare superflua?
Non è superflua. Se non ne parliamo adesso noialtri, nessuno in seguito ne parlerà più. Avrò sì delle critiche, almeno lo spero, ma saranno tutte o velatamente o apertamente formali, perché la critica italiana, salvo alcune eccezioni, s’occupa soltanto di questioni formali, anche quella che apparentemente sembra volere risalire dalla forma alla sostanza, come la critica stilistica. E non dico che abbia torto, forse; dico che l’autore spesso tiene di più alle ragioni per cui ha scritto un libro che al modo come l’ha scritto. Mi ricordo per esempio la mia delusione quando nel 1929, Zavattini che fu uno dei primi a parlare de Gli Indifferenti, si limitò a lodare la descrizione dei colori della mattina visti attraverso i vetri appannati di una finestra.
Le cose letterarie non sono cambiate dal 1929 a oggi?
Mica tanto. Come allora, la critica, pur sotto diverse concezioni estetiche, si mantiene oggi sostanzialmente dentro i limiti d’un decoro da salotto buono. Per esempio, quando uscì la Ciociara, qualcuno mi diede del ragazzaccio perché avevo descritto in quel romanzo una marocchinata. Eppure le marocchinate ci furono, e come. E non parlarne, parlando della guerra in Ciociaria sarebbe stato, secondo me, disonesto.
Lei sembra volere mettere le mani avanti per questo suo nuovo romanzo. Ma a proposito perché s’intitola La Noia?
Perché l’argomento del libro è la noia. O meglio, l’argomento vero forse è un altro, ma senza l’idea della noia, non avrei mai scritto tutto il resto.
Della noia si sono occupati molti scrittori. Per esempio Pascal, Leopardi.
Sì, ma si trattava d’un altro genere di noia. Per Pascal la noia è il senso della vanità, del vuoto, della morte, il quale spinge gli uomini a cercare il divertimento cioè a distrarsi e a dimenticare. Per Leopardi che le ha dedicato un gran numero di definizioni assai diverse, la noia sembra essere il tedio della vita come la intendevano gli antichi, ossia, secondo le sue stesse parole: “... una mancanza del piacere, che è l’elemento della nostra esistenza e di cosa che ci distragga dal desiderarlo.” Non voglio certo mettermi alla pari con questi grandi uomini, ma la mia noia è differente. Anche perché credo che questo genere di noia sia una cosa nuova nella storia dell’umanità come è nuova la crisi delle arti che oggi ne è uno del sintomi più notevoli.
Si tratta dunque d’una noia con caratteri piuttosto sociali che individuali?
Tutti i sentimenti individuali hanno origini, diciamo così, sociali. La noia che ho cercato di descrivere nel mio libro è certamente il prodotto d’una determinata società.
Quale società?
Quella che è oggi dominante nei paesi dell’Occidente.
Sarà tempo che lei dica che cos’è questa noia, non le pare?
Essenzialmente: è il prodotto di un’alienazione. Ossia l’interruzione del rapporto tra l’uomo e la realtà e, dunque, tra l’artista e la materia, o se si preferisce tra il soggetto e l’oggetto.
Chi è il protagonista? Uno scrittore?
No, un pittore.
Perché un pittore?
La crisi del rapporto tra l’uomo e la realtà e di conseguenza tra l’artista e la materia si verifica oggi in tutti i campi dell’arte. Ma il caso della pittura è il più noto, il più plastico, il più esemplare. Per questo ho scelto la pittura.
Lei sceglie spesso degli intellettuali come protagonisti dei suoi romanzi. L’eroe del Disprezzo uno sceneggiatore e scrittore di teatro, quello dell’Amore Coniugale un romanziere, adesso quello de La Noia è un pittore. Perché?
Il Disprezzo, L’Amore Coniugale, La Noia, sono romanzi psicologici, d’ambiente borghese. Ora, secondo me, l’intellettuale è il solo personaggio positivo che la borghesia abbia espresso.
Un industriale, un banchiere, un professionista non potrebbero essere dei personaggi positivi?
Sì, ma a patto d’essere prima di tutto e soprattutto degli intellettuali.
Perché?
Perché l’intellettuale è il solo personaggio della borghesia che pensa le cose fino in fondo. Tutti gli altri si fermano per strada, fanno dei compromessi.
Questo pittore che pittura fa?
Non fa nessuna pittura. Smette di dipingere nella prima riga della prima pagina. Del resto lo scrittore di teatro del Disprezzo non scrive niente e il romanziere dell’Amore Coniugale è un cattivo romanziere.
Che vuol dire questo?
Vuol dire ch’è impossibile far capire al lettore che il protagonista di un romanzo è un grande artista. Ci provò D’Annunzio ma i risultati furono più che modesti. D’altra parte l’artista che abbia delle difficoltà nella sua arte è più drammatico di quello che non ne ha.
Si parla molto di pittura ne La Noia?
Non se ne parla affatto.
Che cosa racconta allora La Noia?
Racconta la storia dell’amore tra un pittore di trentacinque anni e una ragazza di diciassette.
E che funzione ha la pittura?
È indispensabile per la comprensione dell’angolo visuale dal quale è guardata e narrata la storia d’amore. Nel rapporto del pittore con la ragazza, si riflette quello del pittore con la sua arte. L’uno spiega l’altro e viceversa. Ma se si vuole si può anche leggere tutto il libro come una semplice storia d’amore. In realtà è la storia di un’esperienza.
Quale esperienza?
Quella che dà il titolo al romanzo.
La noia è un’esperienza?
Nel mio romanzo, sì. Cioè è qualche cosa che ha un principio e una fine. Che parte da A e finisce a Z. Il romanzo comincia infatti con un prologo e si conclude con un epilogo, ossia comincia con un capitolo in cui sono indicati i termini del problema (poiché si tratta d’un problema) della noia, e finisce con un altro capitolo nel quale, sia pure in senso tutto psicologico, è adombrata una soluzione.
Sarebbe dunque un romanzo con un lieto fine, un romanzo ottimista?
Diciamo piuttosto che è un romanzo che ha una fine, una conclusione. Se preferisce: un significato.
Allora è un romanzo didascalico?
No, è un romanzo appena poco più saggistico degli altri che l’hanno preceduto.
Lei crede nel romanzo saggistico o ideologico o di idee?
Ci credo in senso negativo, cioè credo che c’è una crisi del romanzo e che il romanzo saggistico è quello che ha più probabilità di sfuggire alla crisi.
Perché?
Perché mentre è molto facile ormai, grazie ai “poncif” narrativi elaborati dal naturalismo, dare a intendere che si descrive una realtà fisica anche quando invece non descrive un bel nulla, è molto difficile far credere che si pensa quando non si pensa niente. Del resto il cinema ha rubato al romanzo molte delle sue possibilità. A Balzac sono necessarie trenta pagine per descrivere la pensione di famiglia di Le père Goriot. Un film se la sbriga in tre minuti. Questa è una delle ragioni della crisi del romanzo realistico. Naturalmente non è la sola. Ma nessun film potrà mai darci le analisi di Proust oppure i contrasti ideologici di Dostoevskij.
Non sarebbe meglio in questo caso scrivere dei saggi?
No, sarebbe un’altra cosa. Il saggismo dei saggi è molto diverso da quello dei romanzi. Il primo è un puro prodotto dell’intelletto, il secondo deve essere prima di tutto un fatto poetico. Il saggismo dei romanzi non è che l’approfondimento della psicologia. In fondo alla psicologia anche la più individuale, ci sono le idee, i temi culturali. Un personaggio è un tema culturale che non sa di esserlo.
Questo romanzo è scritto in prima o in terza persona?
È scritto in prima persona.
Un tempo lei scriveva i romanzi in terza persona. Gli indifferenti è in terza persona. Poi ha adottato la prima persona. Perché?
Per la stessa ragione per cui i pittori oggi fanno la pittura astratta.
La pittura astratta è dipinta in prima persona?
Direi di sì. Ma si tratta d’una prima persona che è veramente una prima persona, non d’una prima persona che in fondo è una terza persona. La prima persona del monologo finale dell’Ulisse di Joyce, non quella di Moll Flanders di Defoe. Questa prima persona sta a indicare la mancanza della credenza in una realtà oggettiva che sia comune così allo scrittore come al lettore. La terza persona invece denota la presenza d’una simile credenza.
Nessuno crede oggi in una realtà oggettiva?
Ci credono i comunisti e i cattolici. Ma per quanto riguarda i risultati artistici, si direbbe che non ci crede nessuno.
Tuttavia non si potrebbe negare che, per esempio, il mondo di Proust sia un mondo oggettivo. Eppure è raccontato in prima persona.
È un’illusione originata dal fatto che il “je” proustiano è così ricco e complesso da dare l’impressione dell’oggettività. In realtà si tratta anche in questo caso d’un mondo frammentario e puramente soggettivo.
Il personaggio che dice “io” nel suo romanzo è un personaggio autobiografico?
No, non lo è. Se lo fosse, non sarebbe un personaggio. Del resto c’è anche un altro motivo per cui adotto la prima persona.
Quale?
La prima persona è saggistica o per lo meno può esserlo con facilità senza turbare l’illusione narrativa. Nei romanzi in terza persona, le parti saggistiche per forza di cose diventano intrusioni dell’autore nel contesto narrativo. Per questo quasi tutti i romanzi in terza persona sono romanzi naturalistici, di descrizione e di comportamento. La prima persona, invece, permette il recupero di quel tanto di saggismo che è sempre presente in un romanzo. Inoltre la prima persona è legata alla memoria. Il personaggio che dice “io” narrando i fatti ai quali ha preso parte, ricorda. Ora la memoria è saggio; proprio perché le cose non tanto avvengono quanto sono ricordate; ossia sono presentate già ordinate e sistemate dalla riflessione che è propria alla memoria.
Con la prima persona, tuttavia, lo scrittore rinunzia a vedere dall’interno tutti i personaggi. Egli non ne vede dentro che uno solo, quello che dice “io”. Tutti gli altri sono descritti dall’esterno, secondo come li vede il personaggio che parla in prima persona. Non le pare una limitazione?
Lo è certamente. Ma l’onniveggenza del romanziere dell’Ottocento alla fine s’era risolta in un trucco, in una convenzione priva di vita. E poi come ho già detto, quest’onniveggenza presupponeva una credenza nella realtà oggettiva che oggi non c’è più. Oggi non c’è più un solo mondo universale bensì tanti mondi particolari quanti sono gli scrittori. Alcuni di questi mondi sono molto vasti e apparentemente normali e il lettore ci si trova a suo agio, altri piccolissimi e stranissimi e il lettore fa fatica a entrarci, se pure riesce a entrarci: ecco tutta la differenza. Oggi insomma, non possiamo più scrivere “egli pensò”, perché non possiamo sapere con certezza che cosa pensa una terza persona, dal momento che non c’è più un pensiero o modo di pensare comune a tutti gli uomini. Possiamo soltanto scrivere “pensa”. In questo senso ci troviamo di fronte a un mondo più misterioso di quello d’una volta.
Ne La Noia il mistero non è rappresentato dal protagonista, poiché egli parla in prima persona ossia ci fa entrare nella sua intimità. Chi rappresenta allora il mistero?
Il mistero è rappresentato dalla deuteragonista, ossia dal personaggio della ragazza.
Essa è misteriosa per l’autore oppure lo è soltanto per il protagonista?
Tutti i personaggi sono un poco misteriosi per l’autore. In quanto, dopo averli messi in piedi, egli s’accorge che la loro vitalità sconfina dai limiti del romanzo. Ossia un personaggio che non sia un manichino, ha sempre possibilità superiori a quelle che gli sono attribuite in un romanzo. Ma lo scrittore non può sapere fin dove queste possibilità si estendono. Qui però si ferma il mistero del personaggio per lo scrittore. Il quale, in realtà, non soltanto deve sapere tutto o quasi tutto dei personaggi ma deve anche far sì che anche il lettore lo sappia o per lo meno l’intuisca. No, il personaggio della deuteragonista nel mio romanzo è misterioso soprattutto per il protagonista.
Perché?
Perché il personaggio del protagonista oscilla tra la conoscenza completa che è noia è irrealtà e la conoscenza imperfetta che è invece, mistero e realtà.
E cioè?
Facciamo un esempio: un paesaggio in cui viviamo da tempo, che conosciamo a fondo, spesso ci sfugge, non lo vediamo più, diventa irreale, insomma ci annoia. Invece un paesaggio che vediamo per la prima volta, di cui non sappiamo niente, c’incuriosisce e ci sembra reale appunto perché misterioso!
Allora la conoscenza è impossibile.
No, al contrario è possibile ma essa ha qualcosa di corrosivo, di nullificante: il momento stesso che conosciamo una cosa, essa cessa per noi d’esistere. Tuttavia non possiamo fare a meno di cercare di conoscerla ossia non sopportiamo che essa esista, cioè sia misteriosa in quanto risentiamo questo mistero come una limitazione e una servitù. Ecco, in poche parole, ho raccontato la storia del mio romanzo.
* Testo originariamente pubblicato su L’Espresso, 20 novembre 1960, p. 13.