Raramente accade che chi legge un romanzo sia fornito dall’autore stesso di tutte le chiavi che permettono di interpretare il libro e di scioglierne le eventuali difficoltà.
Il caso si verifica oggi, a proposito del nuovo romanzo di Alberto Moravia, La noia, pubblicato da Bompiani, e dall’autore commentato in una recente intervista. Abbiamo quindi l’opera e ci è indicata la via per meglio comprenderla: il che facilita a meraviglia il nostro compito di informatori. Delle dichiarazioni fatte da Moravia rileviamo subito la prima e più importante: le altre le vedremo dopo. Moravia chiede ai suoi critici, non tanto di tessere variazioni sulla sua arte di scrittore quanto di intrattenersi sul contenuto del libro. E crediamo che debba intendersi per “contenuto” qualcosa che vada al di là della semplice narrazione del fatto, della ficelle narrativa, senza però escluderla del tutto, perché non si può trarre la morale da una favola prima di averla conosciuta e fatta conoscere. A noi è poi avvenuto di leggere prima il libro e successivamente le glosse dell’autore: e ci sembra perciò naturale di seguire quest’ordine anche nel nostro breve esame del romanzo.
Ne è protagonista un giovane (non tanto: trentacinque anni) che si annoia. Ha una madre ricca, che vive in una villa sulla via Appia; ha poco conosciuto il padre. Di lui, del padre, si sa che viveva raramente in famiglia; si annoiava, viaggiava molto e tornava a casa solo per farsi rifornire di quattrini dalla moglie. Questo figlio, Dino, parla in prima persona: è “il personaggio che dice io”, secondo un procedimento al quale Moravia annette molta importanza. Dino ha affittato uno studio in via Margutta: non ama la madre, detesta la ricchezza di lei e si fa dare pochi, pochissimi soldi. Per ingannare la noia impugna i pennelli, ma non risulta che sia un vero pittore: non vedremo mai un suo quadro. Vero pittore è invece certo Balestrieri che ha uno studio accanto al suo: dipinge procaci nudi femminili e riceve ogni giorno la visita di una modella minorenne, Cecilia. Tanto il sessantacinquenne Balestrieri che la modella destano scarso interesse in Dino; finché non succede un fatto nuovo. Balestrieri muore improvvisamente e nel vicinato si sussurra che gli exploits erotici da lui compiuti siano la causa della sua fine. Automaticamente, e sempre annoiandosi, Dino eredita, per così dire, la modella. Ne diventa subito il quotidiano, insaziabile amante, ma con molta noia. Più che altro sembra interessato a farle confessare la natura dei suoi rapporti col defunto, quasi trasferendosi in lui.
A un certo punto sembra che Dino non possa sopportare più l’amante e sta per troncare la relazione; ma Cecilia lo previene e gli chiede di rallentare la frequenza del loro rapporto. Solo allora Dino si accorge di non poter più fare a meno di lei: la noia è sostituita da una tetra gelosia. La relazione continua in modo intermittente, Dino sorveglia Cecilia, la spia, va anche in casa di lei (un padre quasi muto, paralizzato, una madre equivoca, un ambiente sordido) e diventa un ingombrante, tollerato amico di famiglia. Ma c’è poco da fare: Cecilia ha un altro uomo, più giovane di Dino, l’attore disoccupato Luciani. Roso dalla gelosia Dino accetta questa confessione, accetta anche il condominio amoroso pur di non perdere la ragazza; e per la prima volta la paga, le dà del danaro perché lei possa spenderlo col Luciani. Infine non vede che una soluzione: sposare Cecilia, eventualmente sopportando anche il terzo uomo: e le fa questa proposta. Lei chiede di riflettere. Dino la porta in casa di sua madre, sulla via Appia. C’è molta gente, un ricevimento, i due salgono nella camera di Dino, attigua a quella della madre. E qui si svolge l’ennesimo e ultimo amplesso.
Cecilia è stesa sul letto, coperta solo da uno strato di biglietti da mille che Dino ha tolto dalla cassaforte materna: ed egli ripete la sua proposta. Ma Cecilia rifiuta in nessun modo potrebbe lasciare il suo Luciani. Di tutto quel danaro non ha bisogno: accetterà solo settantamila lire, sufficienti per compiere un breve viaggio col suo uomo. Prende infatti le settantamila lire; Dino rimette nella cassaforte gli altri fogli da mille, i due lasciano la villa su una nuova macchina decappottabile (dono della madre), poi Cecilia si allontana e Dino avventa l’auto contro un tronco d’albero.
Non riesce a morire, anzi scopre, durante la convalescenza, che il suo fallito tentativo di suicidio ha creato in lui “una certa quale serenità funebre e rassegnata”. “Ero stato davvero fino alle regioni oscure della morte; ne ero tornato; ormai, sia pure senza speranza, non mi restava che vivere.” Finisce per pensare teneramente a Cecilia e a Luciani, felici a Ponza. “Sì, ero contento che fosse felice, ma soprattutto ero contento che lei esistesse, laggiù nell’isola di Ponza, in una maniera ch’era la sua e che era diversa dalla mia e in contrasto con la mia, con un uomo che non ero io, lontana da me...” Non c’è più l’amore di prima, o meglio è sorto un altro amore. “Quest’amore poteva o non poteva accompagnarsi col rapporto fisico, ma non ne dipendeva e, in certo modo, non ne aveva bisogno. Quando Cecilia fosse tornata, avremmo ripreso i nostri rapporti di un tempo oppure non li avremmo ripresi; ma io, in tutti i casi, non avrei cessato di amarla.”
A quanto pare la noia di Dino non era che incomunicabilità, incapacità di uscire da se stesso. Gettandosi contro il platano, Dino avrebbe rotto quel circolo chiuso e avrebbe ritrovato un qualche contatto con la vita degli altri. Forse la sua noia è davvero finita; a meno che non venga a sostituirla il piatto conformismo di un ménage à trois (col rinforzo della ricchezza materna, dapprima troppo disprezzata).
Si riassume sempre male un romanzo che abbia pregio d’arte; e soprattutto un romanzo di Moravia. Chi non tenga presenti le confidenze dell’autore non tarderà ad accorgersi che questo libro non esce affatto dalle secche e dai pericoli del romanzo naturalista, da Moravia giudicato ormai morto e seppellito. Non ne esce per buona sorte, perché almeno due dei personaggi da lui creati hanno una singolare vitalità e una fisionomia che diremmo da perfetto “stato civile”. Questi personaggi sono: la madre di Dino, avara, piuttosto fatua ma a modo suo positiva, cauta dispensatrice di danaro ma anche comprensiva, sempre pronta ad accogliere e a giustificare il figliol prodigo; e Cecilia, una minorenne che galleggia quasi non toccata sul mare della sensualità, una natura al di fuori del bene e del male, di una corruzione pressoché incorrotta, innocente, irresponsabile – ma non senza una certa accortezza femminile, una certa astuzia: in qualche misura un fiore del male, ma pur sempre un fiore.
Leggendo le pagine migliori del libro (quelle che s’incontrano sul tema della gelosia) il ricordo corre irresistibilmente a Senilità di Svevo, al rapporto Emilio-Angiolina, alla crescente torbida esasperazione di quell’intellettuale fallito che è il moraviano avant lettre Emilio Brentani. Poi la somiglianza sfuma: Angiolina è in definitiva una donna perduta, Cecilia si avvicina singolarmente a Lolita e Dino resta quel che è: un individuo “che dice io”, una figura astratta, un’ipotesi di personaggio, una finestra dalla quale si osservano gli altri personaggi, non una figura poetica com’era l’Emilia di Svevo.
Ha osservato Moravia, nella ricordata intervista, che oggi nessuno crede più in una verità oggettiva e che per questa ragione il solo romanzo che possa interessare è il romanzo scritto in prima persona, il solo che possa includere una “dimensione saggistica”. In prima persona sarebbe scritta anche la pittura astratta. L’onniveggenza l’osservazione multilaterale del romanziere ottocentesco erano in realtà un trucco, un’illusione. E quanto allo scrivere in terza persona, “oggi non possiamo più scrivere ‘egli pensò’, perché non possiamo sapere che cosa pensa una terza persona, dal momento che non c’è più un pensiero o modo di pensare comune a tutti gli uomini.” E infine, riguardo alla noia che è il carattere primo e solo del suo personaggio, e che dà il titolo al libro. “Essa è certamente il prodotto di una determinata società. Essenzialmente è il prodotto di un’alienazione ossia l’interruzione del rapporto tra l’uomo e la materia, o se si preferisce tra il soggetto e l’oggetto”.
E a questo punto confessiamo che simili illuminazioni non chiariscono molto il carattere del personaggio che parla in prima persona. Certo se in questo libro si sostituissero i “pensai” ad altrettanti “pensò” la figura di Dino avrebbe bisogno di qualche ritocco in senso naturalistico; ma anche con la tecnica della prima persona essa non nobilita la dimensione saggistica molto più che non facessero i commenti psicologici cari ai naturalisti. La riflessione, l’analisi sono in definitiva possibili, e sono spesso intensamente poetiche, anche nei romanzi dei romanzieri “onniveggenti” che parlano in terza persona. E poi quale società sarebbe responsabile dell’abulia, dell’assoluto vuoto interiore del personaggio di Dino. La sua famiglia, beninteso, la nessuna educazione ricevuta, il cattivo esempio dei suoi, il fatto di non aver mai dovuto lavorare e impegnarsi in qualcosa di vero e di serio. Troppo poco per fare del suo caso una condizione di valore universale. Si aggiunga poi che quando un personaggio dice “io” noi siamo indotti ad attribuirgli la finezza psicologica, la sensibilità morale o la complessità dell’autore stesso, e che nella Noia questo non è possibile. Emilio Brentani non era Svevo, ma restava assai nobilmente un povero diavolo; mentre Dino, senza essere Moravia, ne ha pur sempre qualche attributo, ciò che rende incomprensibile la piattezza del suo orizzonte, del tutto ipotetica la natura della sua noia.
Non per questo potremmo negare la vitalità di molte parti del romanzo, l’acume posto dall’autore nello spogliarlo di molti elementi “anagrafici” o veristi, nel far di questa sua Roma una moderna città-tipo che non assomiglia più alla Roma di tanti altri libri; né tanto meno la capacità di render vivi e credibili figure che appaiono appena di scorcio (Balestrieri) o sono appena nominate: il temuto e vittorioso rivale Luciani, probabilmente più vacuo e inconsistente dello stesso Dino. C’è molto della cartella clinica nella Noia, c’è quell’ossessione del brutto che sembra oggi, la sola fonte di ispirazione di chi crede, professionalmente, di non credere a nulla. Ma forse, per fortuna sua, la realtà di Moravia è alquanto diversa se il suo nullismo non gli vieta di darci, seppure a fasi alterne alcune delle sue raffigurazioni oggettive più riuscite.
* Testo apparso per la prima volta sul Corriere della Sera, 24 novembre 1960; poi incluso in E. Montale, Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, tomo II, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, 1996, pp. 2350-2355. I passi della Noia citati da Montale differiscono dalla versione definitiva del romanzo: ciò potrebbe dipendere dalla lettura che Montale fa sulle bozze e non sul libro stampato.
Ma, per venire a uno degli esempi da cui vogliamo estrarre alcuni connotati sintomatici del romanzo moderno, osserviamo per un momento il Dottor Živago di Boris Pasternak. Pasternak non sente assolutamente il bisogno di garantirci che c’è qualcosa o qualcuno che, se vogliamo dirla con Flaubert, conduce la fatalità. Domandiamoci: chi conduce la fatalità, quale ente o potere la manovrano per produrre i salti di spazio e di tempo che riscontriamo nel Dottor Živago, per produrre gli incontri e i colpi di scena che fanno ritrovarsi tra loro i personaggi, a distanza di tempo e di vicende, in luoghi diversi e inaspettati, tra il turbine della rivoluzione russa e della guerra contro le armate Bianche che seguì alla rivoluzione di Ottobre? Si direbbe che assistiamo a una serie di “atti gratuiti”, cioè senza una plausibile motivazione, compiuti non tanto dai personaggi, quanto dal romanziere.
Atti gratuiti, anche e tanto più se sono atti di comodo: cioè se servono al romanziere per produrre scene, dialoghi, situazioni che a lui magari paiono necessari, ma che si producono al di fuori di ogni plausibile, motivabile logica e concatenamento. Ci sarebbe la famosa e mille volte citata giustificazione di Berlioz, che pare, ed è anche, una boutade, una battuta di spirito, ma in fondo è ancora un modo di assumersi la responsabilità; se non altro, la responsabilità estetica di un effetto ritmico, melodico, teatrale. Ma Pasternak non può assumersi nemmeno questa: non può dirci che ha forzato le normali probabilità della vita, che ha costretto ad avverarsi le combinazioni più aleatorie, perché voleva farci assistere a una scena d’amore, a un dibattito tra i rappresentanti di due diverse concezioni rivoluzionarie, oppure descriverci liricamente un paesaggio cittadino, una foresta popolata di partigiani, il lungo viaggio di una tradotta attraverso una campagna sepolta sotto la neve. A Pasternak una simile giustificazione, l’idea di un arbitrio narrativo commesso per ragioni di comodo, parrebbe senza dubbio cinica: minerebbe la credibilità dei suoi personaggi e della sua storia, che egli viceversa vuole credibili, riscontrabili come quelli dei romanzi tradizionali. D’altra parte, non è in grado di darci un perché di quegli spostamenti e coincidenze, dell’apparire di quelle scenografie: gli parrebbe un’oziosa ricerca di pretesti esplicativi; in termini di narrativa classica, gli parrebbe di perdersi a narrare i momenti che non interessano, le tappe intermedie che vanno bruciate. Ma i romanzieri tradizionali ci dicono, o ci fanno capire, perché quei passaggi vanno tralasciati, perché non sono materia degna di racconto. In ogni caso, hanno sempre l’aria di sapere quello che è accaduto durante quegli intervalli omessi, taciuti. Pasternak no; se anche lo sapesse, ha tutta l’aria di volerci mostrare che non gli importa di saperlo. Se potessimo tradurre tutto questo in un linguaggio da dilettanti di fisica moderna, dovremmo dire che Pasternak ci fa assistere all’urto degli atomi che scatena la reazione; ci dà in meravigliose pagine lirico-paesistiche la localizzazione, le coordinate del punto di urto; non può darci la traiettoria degli atomi che vi concorrono, il percorso che essi hanno compiuto per giungere a scontrarsi, perché quella loro traiettoria sfugge al calcolo e ricostruirla per via di congetture sarebbe un lavoro superfluo ai suoi fini, sarebbe un altro lavoro, che non gli compete; si ridurrebbe quasi soltanto alla ricostruzione turistica di un itinerario, forse improbabile, quasi certamente gratuito.
Prendiamo ora un altro esempio, ancora più rilevatore di un consimile lavoro di romanziere; osserviamo certi aspetti della Noia di Moravia; aspetti così evidenti, che mi pare strano non siano stati notati dalla critica (per quanto mi risulta, almeno). Nella Noia l’autore, a più riprese, con un procedimento più volte ripetuto, che mostra di essere un sistematico modo di operare, enuncia, in generale, quasi in astratto, o, come si dice, saggisticamente, una posizione, un atteggiamento, un vicendevole contegno dei protagonisti in una certa fase della loro vicenda: quasi soltanto l’andamento caratteristico, il tipo di profilo della loro storia in quel periodo. Dopo di che si limita a spiegare, a colorire quell’enunciato astratto con uno o più esempi; dichiara in maniera esplicita che prende uno o due, quali si siano, dei fatti, tutti equivalenti, che valgono a far vedere in concreto ciò che succedeva nella situazione indicata. Facciamo anche noi come lui: enunciato quel suo procedimento, spieghiamolo con uno dei numerosi esempi, tutti equivalenti, che troviamo nella Noia.
Il protagonista, il pittore che non dipinge più, è già da due mesi in rapporto quotidiano con Cecilia, la ragazza diciassettenne, per amore della quale è morto il vecchio pittore Balestrieri. Dopo aver descritto in forma saggistica, cioè con discorso generalizzante, il comportamento soprattutto erotico, di Cecilia, la sua strana indifferenza e inaccessibilità, o meglio, si direbbe, nullità psicologica, il senso di noia che se ne ingenera nel protagonista, questi si domanda: “Come aveva fatto, dunque, Balestrieri a innamorarsi così perdutamente di lei? O meglio, che cosa era avvenuto tra di loro perché questo carattere così insignificante di Cecilia diventasse, forse appunto perché tale, un motivo di passione?” Basterebbe proseguire per notare, per quanto vivo sia il piglio, e alacre e lucido il ritmo dello scrittore Moravia, il tono da trattato di casistica dell’amore, ben lontano da quello della situazione psicologica personale, colta in concreto, sul fatto; per così dire, in flagrante. Ma vediamo il capoverso successivo: in esso Moravia compie il passaggio, a cui il romanzo da tempo ci ha abituati, dal diagramma, dal tracciato per così dire geometrico del comportamento o dei pensieri dei personaggi alla visione diretta, frontale dei personaggi in azione. Finora ci ha dato il luogo geometrico di tutte le azioni possibili che possono scaturire da un dato comportamento, stato d’animo o di mente, modo di pensare dei personaggi (luogo geometrico, come si ricorderà, è per definizione il luogo di tutti i punti che godono di una certa proprietà). Di qui passa a isolare uno di quei punti che finalmente deve farci conoscere di fatto come si manifestano quelle proprietà, quelle caratteristiche: insomma come è vissuta quella situazione. Questo, ripeto, è un procedimento normale nella tecnica narrativa; ma osserviamo come Moravia lo adoperi. Il protagonista, meravigliato che la droga Cecilia così attiva e funesta per il povero Balestrieri, rimanga senza effetto su di lui; nella speranza di venire a capo di questo problema: “Così interrogavo Cecilia a lungo e, per così dire, a tastoni; senza sapere io stesso esattamente quello che avrei voluto apprendere da lei. Ecco un esempio di queste conversazioni: ‘Dimmi, Balestrieri non ti disse mai perché ti amava?’ ‘Uffa, ecco la solita domanda’” eccetera.
Possiamo troncare la citazione. L’importante è che, nel passare dall’enunciato generale della situazione al caso particolare, Moravia ci ha detto che quello è “un esempio”. Un esempio, dunque, tra i tanti possibili. Un altro romanziere, anche se fosse passato dal generale al particolare, ci avrebbe messo in condizione di credere che il fatto particolare da lui narrato è il fatto per eccellenza che riassume, condensa in sé la situazione. Ci obbligherebbe a credere che quel fatto non è una semplice verifica, una tra le tante possibili, della situazione data in generale, ha invece qualcosa di unico, coincide con la scena drammaticamente necessaria a fare avanzare l’azione, a rivelarci un nodo fatale, inesorabile, insostituibile, attraverso il quale la storia dei personaggi è dovuta passare per giungere agli sviluppi successivi, rivelare la sorte di quelle creature. Per il romanziere tradizionale, il fatto non si presenta come un fatto scelto da lui, ma come qualcosa che si è imposto da sé all’osservazione, si è messo in luce per moto proprio: si presenta insomma come fatto privilegiato, anzi molte volte come il fatto privilegiato, venuto a conoscenza del narratore, perché questi è un osservatore privilegiato, guarda e vede da una posizione di privilegio che benevolmente fa condividere dal lettore. Il Moravia della Noia, no: porta un esempio, tanto per spiegarsi, e anzi porta uno dei numerosi esempi che valgono a verificare il suo enunciato generale. Nel romanzo tradizionale il fatto è tassativo, obbligatorio, è quello, senza scampo, senza possibilità che il romanziere ne scelga altri; in questo di Moravia, il fatto, molte volte (nei molti casi in cui si ripete un procedimento analogo a quello citato) è una semplice verifica scelta ad libitum tra tutte quelle che il romanziere avrebbe a disposizione.
Ci sarebbe una domanda sottile: perché, se il romanziere prende un esempio ad libitum, prende poi quello e non un altro? Anche l’apparente arbitrio, esercitato in base a una completa e in apparenza libera disponibilità, è sempre una scelta, sia pure una scelta inconscia. Se io ho davanti a me un mucchio di oggetti, e mi si dice di prenderne uno a caso, si potrà poi sempre dimostrare che non ho pescato a caso, ma ho obbedito a una precisa prescrizione interna, a un comando psichico del quale non mi sono reso conto. Tanto è vero che esperimenti del genere servono appunto per i cosiddetti test psicologici. Perché Moravia, con l’aria di pescare ad libitum tra la serie dei casi concreti che potevano verificare la situazione enunciata, abbia poi preso proprio quello che adduce come esempio, è una domanda che ci condurrebbe direttamente all’analisi critica del suo romanzo; naturalmente, ci richiederebbe una critica svolta con strumenti psicologici che, per quanto sospetti a moltissimi teorici e metodologhi attuali della critica letteraria, non cessano di prestare eccellenti servizi in questo campo di indagini.
Ma noi adesso non vogliamo fare l’esame critico del romanzo La Noia, volevamo soltanto isolare un aspetto fisionomico, di impostazione e di condotta del racconto, che ci sembra utile per accertare i connotati di quello che chiamiamo il romanzo di oggi. E l’aspetto che abbiamo messo in luce è, riassumendo, il seguente. Con quel suo modo di operare, con quel prendere un fatto semplicemente come esempio di una situazione, col dichiarare in modo esplicito che utilizza quel fatto come esempio, Moravia indica di non voler privilegiare, considerare insostituibile quel singolo fatto che cita senza trasceglierlo tra gli altri analoghi che potrebbe ugualmente assumere, ottenendo lo stesso risultato di verifica fattuale della situazione già riconosciuta al di là e come al disopra dei fatti specifici: insomma, quello per lui è un esempio, ma non l’esempio per eccellenza, è un fatto genericamente indicativo e come tale fungibile, non è il fatto imprescindibilmente significativo.
Potrei benissimo, a questo punto, collegare il comportamento narrativo, che abbiamo osservato nella Noia, al punto di vista che tende a riconoscere nel romanzo di oggi una analisi o descrizione fenomenologica, nel senso che la filosofia di Edmund Husserl dà a questo termine. Nel Diario fenomenologico di Enzo Paci, cioè di uno dei più ferventi discepoli di Husserl, trovo questa pagina: “in ogni fatto, in ogni cosa isolata, si rivelano legami con tutte le cose, con tutti gli altri fatti. Nel tempo, nel tempo della natura e della storia. E ogni fatto è individuato anche se ha la forma di tutti gli altri fatti del suo tipo [...] L’individuo è unico e pure è il tutto.” Queste sono le constatazioni iniziali che portano il nostro filosofo alla riscoperta e approfondimento della fenomenologia. Ma a noi interesserebbe l’affermazione, per esempio, che “ogni fatto è individuato anche se ha la forma di tutti gli altri fatti del suo tipo”. Moravia, scegliendo come esempio un fatto “che ha la forma di tutti gli altri fatti del suo tipo,” ci darebbe un fatto estremamente individuato, in cui lavora la descrizione fenomenologica della realtà, ci darebbe, fenomenologicamente, un fatto intenzionato. Intenzionare, fenomenologicamente parlando, è avere coscienza di... Potrei, su questi accostamenti, giungere a definire il romanzo di oggi come un’operazione fenomenologica. E sulla base di questa definizione del romanzo, risalire al romanzo di ieri, a quello che precede il romanzo odierno, fino a quel Tozzi in cui l’anno passato avevamo riconosciuto il primo anello del romanzo nuovo, di quello che in Italia rinasce dopo una fase di oscuramento, di vacanza del gusto del romanzo, e ci avvia verso la narrativa di oggi. Ma preferisco accantonare momentaneamente, sia pure per tenermelo disponibile, questo strumento di analisi critica e storica della narrativa moderna.
Abbiamo colto certi aspetti tipici dello Živago di Pasternak, e della Noia di Moravia. Ci paiono aspetti, lì per lì, tra loro assai differenti. Proviamoci ad accostarli, per vedere se ne scaturisca una certa caratterizzazione del romanzo di oggi, che ci eravamo ripromessi di trovare. Abbiamo detto: Moravia, prendendo qualche fatto come esempio di una situazione, non privilegia questo fatto. Pasternak invece, nella sua persuasione di prolungare la linea della narrativa tradizionale, favorisce ancora i fatti che racconta: tutti gli episodi che succedono, per esempio, intorno e dentro la cosiddetta “casa delle figure” sono gli episodi per eccellenza del pieno dichiararsi dell’amore tra Živago e la sua donna. Ma per quanto narri fatti privilegiati e insostituibili, anche Pasternak, proprio perché ci dà questi fatti insostituibili mediante un colpo di scena che gli permette di far ritrovare i protagonisti in maniera affatto usuale, che potrebbe essere stata decisa dall’arbitrio di un narratore che si ponga di fronte alla propria vicenda con piglio dispotico, autoritario, dittatoriale; proprio per questo, Pasternak non è in grado di garantirci che nel frattempo, nel tempo taciuto, non si siano prodotti altri fatti che, sebbene ignorati, potrebbero figurare come altrettanto significativi. Va bene: Živago e la sua donna, in quel frattempo di cui non sappiamo nulla, in luoghi che non abbiamo visti e dai quali potrebbero spiccarsi altri itinerari che li avrebbero potuti portare a non incontrarsi mai più, hanno effettivamente maturato il decisivo incontro d’amore che avviene nella “casa delle figure”, hanno per caso seguito le strade che li portavano verso quella città, verso quella casa. Lo sappiamo con certezza da quello che vediamo avverarsi nel loro incontro. Ma per seguire quella linea favorevole, come hanno evitato le linee avverse? Quali circonvoluzioni hanno seguito i loro cammini? Per quali stati d’animo e per quali casi concreti sono passati questi due personaggi? Non basta che Pasternak ci mostri, per così dire, a ritroso, attraverso la conclusione, che non è avvenuto nulla che fosse degno di nota. Ci chiede di fare un atto di fede sui passaggi intermedi, sulla maturazione dell’incontro miracoloso: ma insomma un atto di fede su eventi che egli stesso non sa e che debbono certamente essere stati importantissimi se hanno prodotto il miracolo di quell’incontro, contro ogni aspettativa: un incontro che sembra sfidare le leggi della verosimiglianza, e che sembra prodursi secondo le combinazioni irrazionali della fiaba, anziché secondo i concatenamenti razionali della narrativa realistica, alla quale invece Pasternak sembra attenersi nei momenti che sceglie di narrare. In realtà, egli produce, come si diceva, un urto di atomi, di per sé assai significativo e pieno di conseguenze; ignora la traiettoria di quegli atomi.
La differenza da Moravia è che questi, tanto per fissare le idee su un caso preciso e concreto, ha l’aria di puntare il dito su una delle innumerevoli conflagrazioni di atomi che avvengono in una data fase di attività di un materiale radioattivo; insomma, su un fatto specifico ma non privilegiato, che “ha la forma di tutti gli altri fatti dello stesso tipo,” di tutte le altre conflagrazioni di atomi che avvengono in quel materiale. Pasternak, se posso esprimermi con una immagine, decide di riferirci, di mostrarci la particolare conflagrazione di atomi che è avvenuta in una determinata bomba atomica; quella, poniamo, di Hiroshima.
Tutti e due, però, compiono volta per volta il prelievo di un caso, di un fatto, da una media statistica che autorizza a ritenere che, in una determinata situazione, sia probabile, quasi certo il verificarsi di un determinato evento. Pasternak approfitta di questa probabilità statistica per far accadere la scena, che è necessaria drammaticamente allo sviluppo del romanzo, affinché insomma il romanzo sprigioni il suo significato di testimonianza sul decorso della storia, sulle grandezze e su quelli che, per l’autore, sono i tralignamenti di una grande rivoluzione sociale; in altri momenti approfitta di quelle probabilità statistiche per portarci sui luoghi, tra gli eventi da cui si esala liricamente l’atmosfera che vale a simboleggiare, a condensare, come un’immagine poetica, l’essenza di quei tempi, di quei fatti, dei destini umani a cui è toccato di attraversarli, di spendervi, consumarvi, esaltarvi, smarrirvi, ricuperarvi, perdervi, riscattarvi i propri giorni. Moravia invece approfitta di quelle probabilità statistiche per garantirsi e garantirci che il fatto da lui prelevato come esempio è legittimo, è veramente un esempio dei tanti fatti dello stesso tipo che possono e, presumibilmente, debbono accadere in quella determinata situazione. Ma più ligio di Pasternak al significato e alla portata delle previsioni statistiche, non privilegia, come ho già detto, il fatto che assume come esempio di quel tipo di fatti.
* Testo originariamente pubblicato in Il romanzo del Novecento. Quaderni inediti, presentazione di E. Montale, Milano, Garzanti, 1971, pp. 114-121.