CAPITOLO PRIMO

Dopo essermi trasferito nello studio di via Margutta, riuscii a sormontare la ripugnanza irragionevole e quasi superstiziosa che m’ispirava la villa della via Appia e a stabilire un rapporto abbastanza regolare con mia madre. Andavo da lei una volta la settimana, a colazione, che era il momento della giornata in cui sapevo che l’avrei trovata sola; e ci restavo un paio d’ore, ascoltando i soliti discorsi, che conoscevo a memoria, sulle due sole cose che la interessassero: la botanica, cioè i fiori e le piante che coltivava nel suo giardino, e gli affari, ai quali si dedicava, si può dire, dall’età della ragione. Mia madre, veramente, avrebbe voluto che la visitassi più spesso e anche in altre ore, quando, per esempio, riceveva i suoi amici o le persone della sua società; ma, dopo un paio di inviti che rifiutai con fermezza, parve rassegnarsi alla rarità delle mie visite. Naturalmente la sua era una rassegnazione forzata e pronta a scomparire alla prima occasione. “Ti accorgerai un giorno,” era solita dire parlando di se stessa alla terza persona, ciò che in lei era sempre indizio di un risentimento abbastanza vivo per desiderare di nasconderlo, “che tua madre non è una signora qualsiasi alla quale si fa una visita per dovere di cortesia e che la tua vera casa è qui e non a via Margutta.”

Uno di quei giorni, poco tempo dopo aver smesso di dipingere, mi recai da mia madre per la solita colazione settimanale. In realtà era una colazione un po’ particolare: quel giorno, infatti, cadeva l’anniversario della mia nascita; e mia madre, nel caso me lo fossi dimenticato, me l’aveva ricordato quella mattina stessa, facendomi al telefono gli auguri, nella sua maniera curiosamente burocratica e cerimoniosa: “Tu oggi compi trentacinque anni. Ti faccio i miei sinceri auguri di felicità e di successo.” Nello stesso tempo mi aveva avvertito che mi aveva preparato una “sorpresa”.

Così, verso mezzogiorno, salii sulla mia vecchia e sgangherata automobile e mi avviai attraverso la città con il solito sentimento di disagio e di ripugnanza che pareva crescere a misura che mi avvicinavo alla meta. Col cuore via via sempre più oppresso da una pesantezza angosciosa, imboccai alla fine la via Appia, tra i cipressi, i pini ed i ruderi di mattoni, lungo le prode erbose. Il cancello di mia madre si trovava sulla destra, a metà dell’Appia, e io, come il solito, lo cercavo cogli occhi, quasi sperando, per qualche miracolo, di non trovarlo più e di continuare diritto fino ai Castelli e poi tornare a Roma e rientrare nello studio. Ma ecco, invece, il cancello, spalancato, si sarebbe detto, soltanto per me, per fermarmi e per inghiottirmi al mio passaggio. Rallentai, girai bruscamente, e con un sobbalzo sordo e molle delle ruote, entrai nel viale ghiaiato, tra due file di cipressi. Il viale era in leggera salita fino alla villa, che si scorgeva in fondo; e io, allora, guardando ai piccoli cipressi neri, polverosi e ricciuti e alla villa rossa e bassa, rannicchiata sotto il cielo pieno di cirri grigi simili a batuffoli di ovatta sporca, riconobbi nel mio animo il costernato orrore che mi assaliva ogni volta che andavo a visitare mia madre. Un orrore come di chi si accinga a commettere un atto contro natura, quasi che, imboccando il viale, fossi in realtà rientrato nel ventre che mi aveva partorito. Cercai di farmi passare questo sgradevole sentimento di regressione, suonando a perdifiato il clacson per annunciare il mio arrivo. Quindi, dopo avere eseguito un mezzo giro sulla ghiaia, fermai la macchina sullo spiazzo e saltai fuori. Quasi subito la portafinestra, a pianterreno, si aprì e una cameriera comparve sulla soglia.

Non l’avevo mai vista prima di quel giorno; mia madre, che si ostinava a tenere per la villa la servitù che sarebbe stata appena sufficiente per un appartamento di cinque stanze, era, per questo, costretta a sostituirla sovente. Alta, con i fianchi e il petto ampi e robusti e i capelli curiosamente corti e malamente tagliati, simili a quelli dei condannati o dei convalescenti, aveva sul volto pallido e un po’ lentigginoso un’espressione sorniona, forse a causa di un enorme paio di occhiali cerchiati di nero che le nascondevano gli occhi. Notai soprattutto la bocca, di una forma come di fiore schiacciato, di un delicato rosa di geranio. Le chiesi dove fosse mia madre, e lei a sua volta domandò, con voce molto dolce: “Lei è il signor Dino?”

“Sì.”

“La signora è nel giardino, dalla parte delle serre.”

Mi avviai in quella direzione; non senza prima gettare un’occhiata sorpresa ad un’altra macchina che si trovava sullo spiazzo accanto alla mia. Una macchina sportiva, bassa e robusta, decapottabile, color azzurro metallizzato. Mia madre aveva dunque invitato qualcuno a colazione? Agitando nella mente questo dubbio sgradevole, feci il giro della villa, lungo il marciapiede di mattoni, all’ombra dei lauri e dei lecci, e sbucai dall’altra parte. Qui si stendeva un vasto giardino all’italiana, con le aiuole in forma di triangoli, di quadrati e di circoli, con gli alberelli tagliati a palla, a piramide e a pan di zucchero, e numerosi viali e vialetti ghiaiati e recinti di bosso. Un viale più largo, dritto, protetto da una pergola di ferro verniciata di bianco, intorno alla quale si attorcigliavano i rami delle viti, tagliava in due parti il giardino andando dalla villa fino in fondo alla proprietà, dove, addossati contro il muro di cinta, si vedevano luccicare i vetri di numerose serre per le piante da fiori. A mezza strada tra la villa e le serre, mi apparve, sotto la pergola, mia madre che camminava sola, volgendomi le spalle. Per un momento rinunziai a chiamarla e la guardai.

Camminava piano, molto piano, come chi si guardi intorno e si compiaccia di quello che vede e prolunghi più che può la sua contemplazione. Mia madre indossava un vestito turchino, a due pezzi, con la giacca molto stretta alla vita e molto larga alle spalle e la gonna angustissima, addirittura una guaina. Si vestiva sempre così, con vestiti molto attillati, che rendevano ancor più smilza, rigida e burattinesca la sua persona piccola e rachitica. Aveva la testa grossa su un lungo collo nervoso, con i capelli di un biondo crespo e opaco, sempre elaboratamente ondulati e arricciati. Di lontano potevo vedere benissimo, sul suo collo, le perle della collana, tanto erano grosse. Mia madre amava adornarsi di gioielli vistosi: anelli massicci che le ballavano intorno alle dita magre, braccialetti enormi carichi di amuleti e di pendagli che ad ogni momento parevano doverle scivolare via dai polsi ossuti, spille troppo ricche per il suo petto sfornito, orecchini troppo grandi per le sue brutte orecchie cartilaginose. Notai pure, una volta di più, con un sentimento misto di familiarità e di fastidio, come le scarpe che aveva ai piedi e la borsa che stringeva sotto l’ascella sembrassero troppo grandi. Quindi, alla fine, mi decisi e la chiamai: “Mamà.”

Con caratteristica diffidenza, si fermò di botto, come se qualcuno le avesse posato una mano sulla spalla, e poi si girò senza muovere le gambe, con il solo busto. Vidi la faccia affilata, dalle guance incavate, dalla bocca risucchiata, dal naso lungo e stretto, dai vitrei occhi azzurri che mi guardavano in tralice. Quindi sorrise, si voltò del tutto e mi venne incontro, la testa bassa, gli occhi fissi a terra, dicendo come per dovere: “Buongiorno e cento di questi giorni;” e benché l’intenzione fosse affettuosa, non potei fare a meno di notare che il suono della sua voce restava il solito, secco e gracchiante, simile al verso della cornacchia. Ripeté, come mi fu giunta vicino: “Cento di questi giorni, su, dammi un bacio;” e io allora mi chinai e le scoccai un bacio sulla guancia. Ci avviammo l’uno accanto all’altro verso il fondo del viale. Mia madre disse subito, indicando la vite che ricopriva la pergola: “Sai che cosa stavo guardando? Quei grappoli della mia uva. Guarda.”

Alzai gli occhi e vidi che i grappoli apparivano tutti, quali più e quali meno, come rosicchiati e succhiati.

“Le lucertole,” disse mia madre con la strana intonazione intima, affettuosa, e al tempo stesso scientifica che aveva allorché parlava dei suoi fiori e delle sue piante, “quelle bestiacce salgono su per i pali della pergola e mangiano l’uva. Mi rovinano la pergola perché i grappoli neri fra i pampini verdi fanno un bellissimo effetto, ma se i grappoli sono mezzo rosicchiati, l’effetto non c’è più.”

Dissi non so che cosa su un soffitto di Zuccari, in un palazzo romano, sul quale, appunto, era dipinto il motivo di una pergola d’oro coi grappoli neri e i pampini verdi, e lei proseguì: “L’altro giorno, non so come, una gallina dei contadini, qui accanto, è penetrata nel giardino. Una di queste lucertole stava sulla pergola e naturalmente succhiava la mia uva. Quindi, chissà come, le è mancato il piede ed è cascata giù. Pensa che non ha neppure toccato terra: la gallina l’ha presa nel becco e se l’è bevuta. Proprio così: bevuta.”

Dissi: “Allora bisogna che tu tenga le galline. Così mangeranno le lucertole e queste, per forza di cose, essendo mangiate, non mangeranno più l’uva.”

“Per carità, le galline, oltre a mangiare le lucertole distruggono ogni cosa, dovunque vadano. Preferisco tenermi le lucertole.”

Così continuammo la visita del giardino, percorrendo il viale sotto la pergola fino al muro di cinta e quindi camminando lungo le serre. Mia madre ora si chinava a prendere nella palma della mano, tra due dita, la corolla di un fiore sbocciato durante la notte; ora s’incantava, è la parola, con occhi perfettamente vitrei, di fronte ad un vasetto di terracotta dal quale una pianta grassa simile ad un serpente verde e peloso, si sporgeva fino a terra e quasi veniva fatto di stupire che non fischiasse; ora, in maniera aridamente didascalica, mi forniva una quantità di informazioni botaniche, ricavate dalla lettura minuziosa dei manuali di floricultura, nonché dalle lunghe conversazioni con i due giardinieri molto pazienti perché molto ben pagati, ai quali essa infliggeva la sua compagnia per tutto il tempo che lavoravano nel giardino. Come ho già detto, l’amore per i fiori e le piante era la sola cosa poetica della vita, altrimenti del tutto prosaica, di mia madre. Era vero che, a modo suo, mi amava; e che metteva nell’amministrazione e nell’accrescimento del nostro patrimonio un’incredibile passione. Ma così negli affari come con me, prevaleva il suo carattere autoritario, privo di scrupoli, interessato e diffidente. Invece essa amava i fiori e le piante disinteressatamente, con pieno abbandono e senza secondi fini. E mio padre, come lo aveva amato? Al solito, mi tornò l’idea che mio padre ed io ci rassomigliavamo almeno in questo: che non volevamo stare con mia madre. Le domandai bruscamente:

“A proposito, ma si può sapere perché mio padre scappava sempre via, lontano da te?”

La vidi arricciare il naso come sempre quando le parlavo di mio padre: “A proposito di che cosa?”

“Non importa, rispondi alla mia domanda.”

“Tuo padre non scappava da me,” rispose dopo un momento con fredda dignità, “gli piaceva viaggiare, ecco tutto. Ma guarda queste rose, non sono belle?”

Dissi in tono perentorio: “Vorrei che tu mi parlassi di mio padre. Perché allora, se è vero che non scappava da te, tu non viaggiavi con lui?”

“Prima di tutto qualcuno doveva pur stare a Roma e occuparsi dei nostri interessi.”

“Vuoi dire i tuoi interessi.”

“Gli interessi della famiglia. E poi non mi piaceva il suo modo di viaggiare. A me piace viaggiare con tutte le comodità. Andare nei luoghi dove ci sono dei buoni alberghi, e della gente che conosco. Per esempio Parigi, Londra, Vienna. Lui invece mi avrebbe trascinato, che so io? in Afganistan oppure nella Bolivia. Non posso soffrire le scomodità e non posso soffrire i paesi esotici.”

Insistetti: “Ma insomma perché scappava di casa o, come dici tu, perché viaggiava? Perché non restava con te?”

“Perché non gli piaceva stare a casa.”

“E perché non gli piaceva stare a casa? si annoiava?”

“Non mi sono mai curata di saperlo. So soltanto che diventava triste, non diceva più niente, non usciva mai. Alla fine ero io stessa che gli davo i soldi e gli dicevo: prendi, va’, è meglio che te ne vai.”

“Non credi che se ti avesse amato, sarebbe rimasto?”

“Già,” rispose tranquillamente con la sua voce sgradevole che pareva compiaciuta di dire la verità, “ma non mi amava.”

“E allora perché ti aveva sposato?”

“Sono io che volli sposarlo. Lui forse ne avrebbe fatto a meno.”

“Lui era povero, no? E tu ricca?”

“Sì, lui non aveva proprio niente. Era di buona famiglia. Ma questo è tutto.”

“Non credi che lui avesse voluto fare un matrimonio di interesse?”

“Oh, no. Tuo padre non era interessato. In questo era come te. Aveva, è vero, sempre bisogno di denaro, ma non dava importanza al denaro.”

“Lo sai perché ti faccio tutte queste domande su mio padre?”

“Non saprei proprio.”

“Perché mi è venuto in mente che, almeno per un aspetto, io gli rassomiglio. Anch’io scappo continuamente via da te.”

La vidi chinarsi e con una piccola forbice che non avevo prima notato, recidere pulitamente un fiore rosso. Quindi si rialzò e domandò: “Come va il tuo lavoro?”

A questa domanda, sentii improvvisamente la mia gola stringersi, e un senso di grigio, gelato squallore diffondersi intorno a me, partendo da me in onde successive sempre più ampie, come avviene nella natura quando una nuvola si frappone tra il sole e la terra. Risposi, con voce mio malgrado soffocata: “Non dipingo più.”

“Come sarebbe a dire, non dipingi più?”

“Ho deciso di smettere di dipingere.”

Mia madre non aveva mai avuto simpatia per la mia pittura, prima di tutto perché non ne capiva niente ma non amava né ammetterlo né sentirselo dire; e poi perché, non ingiustamente, pensava che fosse stata la pittura ad allontanarmi da lei. Ma dovetti ammirare una volta di più la sua capacità di controllo. Un altro, al suo posto, avrebbe mostrato almeno qualche soddisfazione. Lei, invece, accolse la notizia con indifferenza. “E perché?” domandò dopo un momento, con tono di curiosità blanda, oziosa e quasi mondana, “hai deciso di non dipingere più?”

Intanto eravamo giunti quasi sotto la villa; un odore di cucina, di ottima cucina, era per l’aria. Nello stesso tempo sentii che la mia disperazione, invece di diminuire, cresceva, benché mi ripetessi rabbiosamente: “Adesso mi passa, adesso mi passa.” E allora un ricordo mi affiorò alla memoria: me stesso bambino di cinque anni, con un ginocchio insanguinato, mentre risalivo, singhiozzando disperatamente, un altro giardino, e correvo incontro a mia madre nelle cui braccia mi gettavo con impeto; e mia madre che, chinandosi sopra di me, mi diceva con la sua brutta voce di cornacchia: “Aspetta, non piangere, fa’ vedere, non piangere, non lo sai che gli uomini non piangono?” Guardai mia madre e mi parve, per la prima volta dopo tanto tempo, di provare dell’affetto per lei. Quindi dissi: “Così,” in risposta alla sua domanda, la parola più breve che potei trovare, perché mi vergognavo della mia disperazione e non volevo che lei se ne accorgesse.

Ma mi resi subito conto che non serviva niente dire: “Così”; il senso di squallore non cessava per questo, ne avevo tutta la pelle accapponata e i capelli formicolanti; intorno a me, esso pareva far scolorire e avvizzire il mondo intero. Poi, risentii nelle narici ad un soffio leggero di vento, quell’odore di buona cucina, e quasi provai il desiderio di gettarmi tra le braccia di mia madre, singhiozzando, come quando avevo cinque anni, con la stessa speranza che mi consolasse della pittura interrotta come allora mi aveva consolato del ginocchio ferito. Dissi d’improvviso, in maniera del tutto inaspettata: “Anzi, a proposito, dimenticavo di dirti che lascio lo studio che ormai non mi serve più, e torno a stare con te.” Tacqui un momento, stupefatto da queste parole che non avevo avuto intenzione di dire e che mi venivano fuori da chissà dove. Quindi, rendendomi conto che ormai non potevo più tirarmi indietro, soggiunsi con sforzo: “Sempre che tu mi voglia.”

Nonostante la meraviglia in cui mi aveva piombato la mia stessa proposta, non potei fare a meno di ammirare per la seconda volta la capacità di dissimulazione di mia madre; quella capacità che lei, nel suo linguaggio mondano, chiamava: “la forma”. Le avevo detto la cosa che aveva aspettato per anni; la sola, forse, che poteva farle veramente piacere; niente, tuttavia, trapelò sul suo volto prosciugato e legnoso, nei suoi occhi vitrei. Disse lentamente, con voce più che mai sgradevole, quasi col tono di chi, in un salotto, ricambi qualche complimento di cui non gli importa nulla: “Figurati se non ti voglio. In questa casa sarai sempre accolto a braccia aperte. Quando verresti?”

“Stasera o domani mattina.”

“Meglio domani mattina, così ho il tempo di farti preparare la tua stanza.”

“Allora domani mattina.”

Dopo queste parole non dicemmo più niente, per un poco. Io mi domandavo che cosa mi fosse successo; e se per caso la mia vera vocazione non fosse ormai quella di stare a casa con mia madre e accettare la noia e amministrare il nostro patrimonio ed essere ricco. Dal canto suo, mia madre, pareva avere ormai oltrepassato la fase della sorpresa e del compiacimento per la vittoria insperata; e già si dedicava, come si poteva arguire dalla espressione meditabonda del volto duro e immobile, all’organizzazione della vittoria stessa, ossia ai piani per il mio e il suo futuro. Alla fine osservò, in tono casuale: “Non so se tu lo hai fatto apposta ma, comunque, è di buon augurio. Oggi è la tua festa e oggi hai deciso di tornare a vivere qui. Ti ho detto stamane che ho preparato per te una sorpresa. Vuol dire che varrà per le due occasioni.”

Domandai a caso: “Ma quale sorpresa?”

“Vieni con me e te la faccio vedere.”

Dissi con crudeltà: “Ad ogni modo oggi festeggiamo una sola delle due occasioni: il mio ritorno a casa. Questa è la vera festa di oggi.”

Mia madre notò il mio sarcasmo? Oppure non se ne accorse? Certo è che non disse niente. Intanto mi precedeva camminando intorno la parete della villa, verso lo spiazzo. La vidi avvicinarsi con deliberazione alla bella macchina sportiva che si trovava accanto alla mia e poi fermarsi, con una mano sul cofano, all’incirca nell’atteggiamento delle ragazze fotografate nei cartelloni pubblicitari delle fabbriche di automobili: “Mi avevi detto una volta che ti sarebbe piaciuto possedere una macchina molto veloce. Dapprima avevo pensato di comprarti addirittura una macchina da corsa, ma sono pericolose, e così ho ripiegato su questo cabriolet. Il rappresentante mi ha detto che è proprio il modello ultimo, uscito dalla fabbrica da pochi mesi. Fa più di duecento all’ora.”

Mi avvicinai lentamente, domandandomi quanto potesse costare l’automobile che mia madre voleva regalarmi: tre milioni, quattro? La macchina era di marca straniera e la carrozzeria era di lusso: sapevo che questo genere di automobili costano molto. Mia madre, adesso, parlava della macchina con lo stesso tono scientifico, distaccato, incuriosito, e quasi affettuoso, che adottava discorrendo dei fiori del suo giardino: “Mi piace soprattutto questo,” disse indicandomi il cruscotto che aveva un fondo nero sul quale i bottoni e le leve nichelate scintillavano come diamanti sui velluti neri di un gioielliere, “l’avrei comprata soltanto per questo. E poi mi piace perché ha la solidità di un bel paio di scarpe robuste, fatte a mano e fabbricate apposta per le camminate lunghe. Una solidità rassicurante. Allora vuoi provarla? Abbiamo il tempo di fare un giretto prima di colazione, di pochi minuti, però, perché c’è un piatto che non può aspettare e la cuoca ci tiene molto a che tu lo apprezzi, l’ha fatto apposta per te.”

Mormorai, guardando trasognato alla macchina: “Come vuoi.”

“Sì, provala, anche perché debbo confermare l’acquisto al rappresentante.”

Non dissi niente, aprii lo sportello della macchina e salii. Mia madre salì accanto a me e, mentre accendevo il motore e abbassavo la leva del cambio, mi informò con il solito tono intimo e scientifico: “È decapottabile. Il rappresentante mi ha assicurato che d’inverno non c’entra neppure il più piccolo soffio di vento. Del resto c’è il riscaldamento. D’estate puoi abbassare la capote, è più divertente correre senza capote.”

“Sì, è più divertente.”

“Ti piace il colore? A me è sembrato molto bello, tanto è vero che non ho voluto neppure vederne un’altra. Il rappresentante mi ha detto che la metallizzazione della vernice è un procedimento costoso ma di effetto più elegante.”

Dissi a caso: “È molto più delicato.”

“Quando si è sciupata, la fai riverniciare di nuovo.”

La macchina emise un rombo molto forte, proprio da motore da corsa, quindi la feci girare sullo spiazzo e poi infilai velocemente il viale di accesso. Era una macchina al tempo stesso molto potente e molto dolce come potei constatare sentendomela addirittura scappare sotto i piedi alla minima pressione sull’acceleratore. Uscimmo dal cancello e io non potei fare a meno di ricordare la mia sensazione di poco prima quando, dirigendomi verso la villa, mi era sembrato di rientrare nel ventre che mi aveva partorito. E adesso? Adesso ci stavo in questo ventre e non ne sarei mai più uscito.

Appena fuori del cancello, presi a destra e risalii la via Appia in direzione dei Castelli. La giornata scialba e sciroccale aveva addensato sul Monte Cavo una specie di anello nero, sfumato e incerto, di nuvole vagamente temporalesche; lungo la via Appia, pini, cipressi, ruderi, siepi, campi, tutto appariva opaco per la polvere e arso dall’estate. Mia madre continuava ad elogiarmi la macchina, in maniera casuale e mondana, come scoprendone via via i pregi. Risalii, senza dir parola, la via Appia fino al bivio, presi sulla sinistra, a grande velocità, discesi fino all’Appia Nuova, girai intorno al semaforo e tornai indietro.

“Come ti pare?” domandò mia madre al momento in cui imboccavamo di nuovo la via Appia Antica.

“Mi pare una macchina ottima sotto ogni riguardo. Del resto la conoscevo già.”

“Ma se è un tipo nuovo, di appena un mese fa.”

“Voglio dire: conoscevo già le macchine di questa marca.”

Ecco il cancello, ecco il viale di cipressi, ecco la villa in fondo allo spiazzo. Eseguii un mezzo giro, mi fermai, tirai su il freno a mano, e quindi, dopo essere stato un momento immobile e silenzioso, mi voltai bruscamente verso mia madre dicendo: “Grazie.”

Rispose: “L’ho comprata soprattutto perché mi piaceva tanto. Se non l’avessi comprata per te, l’avrei comprata per me.”

Mi parve, però, che aspettasse ancora qualche cosa, almeno a giudicare dalla sua espressione scontenta ed esigente. Dissi di nuovo: “Mi piace molto davvero, grazie.” E sporgendomi sfiorai con le labbra il belletto secco e ruvido della sua magra guancia. Lei disse, forse per nascondere il compiacimento che le ispirava il mio gesto affettuoso: “Il rappresentante mi ha raccomandato che, prima di usarla, tu legga le istruzioni per la guida e la manutenzione in questo libretto qui;” aprì uno sportellino nel cruscotto e mi mostrò un libretto giallo; “perché sono macchine delicate e ci vuole poco a rovinarle.”

“Lo leggerò.”

“Con questa macchina potrai fare anche del gran turismo. Per esempio, quando verrà l’autunno, andartene in Spagna, oppure in Francia.”

“Ci andrò in primavera, quest’autunno non posso.”

“Sì, certo, anche in primavera. La macchina ha un portabagagli molto capace. C’entrano tre valigie.”

Adesso mia madre pareva davvero soddisfatta; a tal punto che un po’ della “forma” aveva ceduto e si poteva vedere distintamente, fatto insolito, che era contenta. Attraversammo lo spiazzo, mia madre mi indicò a sinistra, un lungo e stretto viale diritto, fiancheggiato di alti lauri, in fondo al quale s’intravedeva una piccola costruzione rossa, a un solo piano, e disse: “Il tuo studio. È rimasto tale e quale. Niente è stato toccato. Se vuoi, puoi andarci a dipingere anche domani.”

“Ma se ti ho detto che ho deciso di non dipingere più.”

Non rispose, forse mi aveva indicato lo studio soltanto per farsi ripetere che avevo davvero rinunciato alla pittura. Intanto eravamo arrivati alla porta di casa. Mia madre mi precedette nel vestibolo, dicendo con intonazione autoritaria: “Adesso va’ a lavarti le mani, perché la colazione è subito pronta.”

Aprì una porticina che dava, come sapevo, in un corridoio il quale portava alla cucina, e scomparve. Io andai al guardaroba per un’altra porta. Tra le quattro pareti azzurre del bagno, mi guardai meccanicamente allo specchio, al di sopra del lavabo, mentre le mie mani si avvolgevano nella saponata, sotto il getto tiepido dell’acqua. Proprio in quel momento, dietro di me, la porta si disserrò e io vidi, nello specchio, affacciata tra l’uscio e lo stipite, la testa dai capelli troppo corti e malamente tagliati della cameriera che poco prima mi aveva accolto al mio arrivo.

Domandai senza voltarmi, guardandola nello specchio: “Come si chiama lei?”

“Rita.”

“Ma io non l’ho mai veduta.”

“Sono qui da una settimana.”

Mi chinai e mi insaponai con forza la faccia, benché non ne avessi bisogno: mi pareva di essere sudicio a forza di pensieri opprimenti. Mentre mi lavavo, udii la voce dolce di Rita che avvertiva: “L’asciugamano l’ho messo qui,” e scossi il capo per dire che stava bene. Quando rialzai il viso, mi accorsi che la ragazza se n’era andata. Uscii dal bagno e, attraverso l’anticamera, andai verso il salotto, o meglio verso i quattro o cinque tra salottini, salotti e saloni che occupavano il pianterreno della villa.

Queste stanze da parata e da soggiorno che comunicavano l’una con l’altra per mezzo di archi o di porte senza battenti, in modo da formare quasi un solo ambiente, erano arredate in maniera perfettamente impersonale, dell’impersonalità opulenta e noiosa propria ai mobili che sono stati scelti unicamente per il loro valore mercenario. Si poteva, infatti, essere sicuri che non c’era là dentro un solo oggetto che non fosse il più costoso o almeno fra i più costosi della categoria alla quale apparteneva. Mia madre non aveva né gusto, né cultura, né curiosità, né amore del bello; il suo criterio di scelta in qualsiasi acquisto era pur sempre il prezzo, il quale, quanto più era alto, tanto più le faceva supporre che l’oggetto in vendita avesse delle qualità di bellezza, raffinatezza, e originalità che lei, altrimenti, non sarebbe stata capace di ravvisarvi. Naturalmente mia madre non buttava i suoi soldi dalla finestra, al contrario, stava sempre molto attenta, e più di una volta l’avevo udita esclamare in un negozio: “No, è caro, non se ne parla neppure;” ma io sapevo che questa esclamazione si riferiva alle proprie possibilità finanziarie e non al valore reale dell’oggetto, di cui lei non capiva niente e che, sebbene inaccessibile alla sua borsa, restava tuttavia desiderabile appunto perché costoso.

Il risultato di questo criterio di scelta, era, come ho già detto, una collezione di mobili senza carattere e senza intimità, ma robusti e imponenti, perché mia madre, oltre che al valore monetario, attribuiva molta importanza alla solidità e al volume, come ad altre due qualità che lei era in grado di giudicare ed apprezzare. Così: divani profondi, poltrone enormi, paralumi giganteschi, tavole massicce, cortinaggi pesanti, soprammobili monumentali, tutto in quei salotti suggeriva l’idea di un lusso sostanzioso e di buona qualità. Dovunque, poi, nella penombra, brillavano i riflessi dei pavimenti lucidati a cera, delle superfici di legno ben spolverate, degli ottoni e degli argenti lustrati: la pulizia era un altro carattere della casa. Infine, come il solito, intravidi qua e là una quantità di grandi vasi pieni di mazzi di fiori un po’ funeraleschi che, come sapevo, ogni giorno di buon mattino mia madre andava a cogliere nelle serre. Mi accorsi che guardavo tutte queste cose con occhio diverso dal solito, meno distratto e disinteressato, come per rendermi conto dell’effetto che mi facevano, adesso che avevo deciso di tornare ad abitare con mia madre. E scoprii che provavo un sentimento di vile e nauseato compiacimento, come di fronte ad una vecchia tentazione ormai vittoriosa ma pur sempre ripugnante. Andai allo specchio antico e pesantemente incorniciato che sormontava una consolle, in fondo al salotto, mi guardai e improvvisamente provai il bisogno di ingiuriarmi ad alta voce, non sapevo se con odio o con gioia: “Idiota.” Quasi nello stesso momento udii un fruscio.

Mi voltai e vidi la cameriera Rita che, a pochi passi da me, in piedi presso un bar spostabile a rotelle, mi guardava con aria interrogativa, attraverso gli spessi occhiali cerchiati di nero. Mi domandai se mi avesse visto mentre m’insultavo, guardai alla sua faccia pallida e sorniona e non potei capire niente. Lei disse dopo un momento di silenzio: “La signora scende subito. Mi ha detto di offrirle intanto un aperitivo. Che cosa desidera?”

Di nuovo mi domandai se nella voce vi fosse l’ironia che il volto non mostrava. Ma no, era una voce seria, o per lo meno, ipocritamente seria. Dissi che volevo un whisky e lei, con molta precisione, prese la bottiglia del whisky, ne versò un po’ in un bicchiere, ci aggiunse un blocchetto di ghiaccio e dell’acqua e me lo porse domandando: “Vuole altro?”

Risposi che non volevo altro; e la vidi allontanarsi senza rumore, con le sue scarpe dalle suole di feltro. Andai a sedermi in una di quelle vaste poltrone, con il mio bicchiere di whisky, accesi una sigaretta e presi a riflettere. Perché mi ero ingiuriato a quel modo di fronte allo specchio? Evidentemente, pensai alla fine, il pericolo di questa specie di commedia del figliol prodigo che recitavo a me stesso, era di soggiacere, quando meno me l’aspettassi e quasi mio malgrado, a delle improvvise tentazioni profanatorie e scandalistiche. In altri termini, ero un figliol prodigo d’un genere particolare, il quale, nel momento stesso che riceveva l’abbraccio del vecchio genitore, provava la tentazione di allungare a quest’ultimo un buon calcio nello stinco, e che, dopo aver consumato il pasto festivo, andava a vomitarlo in un angolo del giardino. Non ebbi il tempo di approfondire questa interessante meditazione perché mia madre rientrò ad un tratto: “Rita ti ha dato da bere?”

“Sì, grazie, ma chi è questa Rita?”

“È una nuova, aveva delle raccomandazioni ottime, stava con degli americani che sono partiti. Veramente era una specie di governante ma qui non ci sono bambini, e così le ho detto: mia cara ragazza sono costretta a retrocederla a cameriera. Lei è libera di accettare o meno. Lei, naturalmente, ha accettato, sfido io, con tutta la disoccupazione che c’è...” Mia madre continuò a parlare di Rita anche dopo essere entrata nella sala da pranzo, dove Rita medesima stava già in piedi presso il buffet, coi guanti di filo alle mani, la cuffietta di pizzo sui capelli e il grembialino ovale alla cintura. Avrei voluto dire a mia madre: “Attenta, stai parlando di Rita, e Rita è qui;” quindi guardai al volto sornione e occhialuto della ragazza e tutto ad un tratto fui assolutamente sicuro che mi aveva visto mentre mi sporgevo verso lo specchio e mi davo dell’idiota. Mi sembrò che quest’idea, in fondo, non mi dispiacesse, come se da quel momento si fosse stabilita tra me e Rita una specie di complicità. Sedetti e mia madre disse, sedendo a sua volta: “Rita, il signor Dino è mio figlio e da domani mattina viene ad abitare qui. Non si dimentichi: se chiedono al telefono di un signore che si chiama Dino, questo Dino è mio figlio.”

Adesso eravamo seduti uno di fronte all’altro, ad una piccola tavola rotonda, in una stanza non grande ma con il soffitto molto alto, le mani sulla tovaglia di pizzo fiorentina, davanti a piatti di porcellana tedeschi, affiancati da posate d’argento inglesi e da bicchieri di cristallo francesi. Dietro la seggiola di mia madre, luccicavano nell’ombra gli intarsi biondi di una credenza olandese; dietro di me sapevo di avere un buffet veneziano. La porta finestra, che dava sul giardino, era spalancata, ma le tende erano accostate perché mia madre non desiderava, secondo le sue parole, che qualche giardiniere le contasse i bocconi mentre mangiava. Mia madre mi versò lei stessa il vino da una caraffa di cristallo e d’argento, quindi disse a Rita che poteva servire. La ragazza prese dal buffet una teglia di porcellana posata su un vassoio e si avvicinò a mia madre. La quale disse seccamente: “Serva prima il signor Dino.”

“Perché? Prima te.”

“No, io...”

“Rita, serva prima la signora.”

Mia madre disse: “Ma io non mangio quasi niente;” e con la punta del cucchiaio mise sul piatto qualche cosa. Rita si avvicinò a me e allora capii che cosa era quel buon odore di cucina che avevo sentito per aria nel giardino: un pasticcio di maccheroni. Mia madre disse: “Sapevo che ti piace, l’ho fatto fare apposta per te.”

Dissi, con masochistico compiacimento: “Buono, buono, buono,” e mi rovesciai sul piatto un’enorme porzione. Ora, io mangiavo poco di solito, e soprattutto non mangiavo questo genere di vivande. Non potei fare a meno di pensare che continuava così la commedia del figliol prodigo. Tutto ad un tratto scoppiai in una risata. Mia madre domandò allarmata: “Perché ridi?”

Risposi: “Mi sono ricordato di aver letto in qualche luogo una divertente parodia della parabola del figliol prodigo, sai, quella del Vangelo.”

“E cioè?”

“Nella parabola, il figliol prodigo ritorna a casa e il padre lo accoglie con tutti gli onori e uccide per lui il vitello grasso. Nella parodia, invece, il vitello grasso fugge spaventato, appena il figliol prodigo ritorna, ben sapendo qual è il suo destino. Allora lo aspettano. Il vitello grasso si fa aspettare un bel po’ e quindi si decide a tornare. Al colmo della gioia, il padre, per festeggiare il ritorno del vitello grasso, ammazza il figliol prodigo e glielo dà in pasto.”

Mia madre, come sapevo, non credeva a niente, salvo che al denaro. Ma credeva, tuttavia, come ho già detto, a quello che lei chiamava: “la forma”; la quale, tra l’altro, imponeva di essere “praticante” e, comunque, di rispettare le cose della religione. La vidi, così, far un volto di legno; poi disse con la sua voce più sgradevole: “Lo sai che non mi piace che tu prenda in giro le cose sacre.”

“Al contrario, non le prendo in giro. Che significa il mio ritorno, infatti, se non il sacrificio del figliol prodigo, che sarei io, a tutto vantaggio del vitello grasso che è tutto questo?” E feci un gesto circolare indicando i ricchi mobili della stanza.

“Non ti capisco.” Mia madre, a modo suo, non mancava di un senso di humour curioso, un po’ tetro e automatico; così soggiunse senza sorridere: “Ad ogni modo credo che, dopo questi maccheroni, c’è proprio il vitello, non so se grasso o no.”

Non dissi niente e presi a divorare la mia porzione di pasticcio con un sentimento misto di gioia e di rimorso, perché avevo fame davvero e il pasticcio era buono e al tempo stesso provavo rabbia che mi piacesse. Alzai quindi gli occhi verso mia madre e vidi che mi guardava con disapprovazione. Disse: “Dovresti masticare di più. La prima digestione si fa nella bocca.”

“Molto schifoso. Chi l’ha detto?”

“Lo dicono tutti i medici.”

I suoi occhi azzurri, vitrei e del tutto inespressivi mi covavano in una maniera indefinibile, al di sopra delle due mani incrociate e cariche di anelli sulle quali appoggiava il mento. Finii di vuotare in fretta e furia il mio piatto; mia madre disse con la sua voce fredda e stonata: “Serva ancora il signor Dino” e Rita che, intanto, era rimasta addossata alla credenza dietro mia madre, riprese la teglia e venne ad offrirmela. Afferrai la posata con una mano sola, lasciando l’altra dove stava, sull’orlo della tavola. Allora sentii la mano con la quale Rita sorreggeva il vassoio premere leggermente la mia, in un modo che avrebbe potuto anche essere intenzionale. Non mi soffermai più che tanto su questa supposizione, e ripresi a mangiare. Domandai alla fine con intonazione svagata: “E tu che fai di solito?”

“Cosa vuoi dire?”

“Voglio dire esattamente quello che ho detto: che fai di solito?”

“Oh, sempre la stessa vita, lo sai.”

“Sì, ma in tutti questi anni che sono stato fuori di casa non ti ho mai chiesto che cosa facevi. Adesso, forse perché sto per tornare qui, mi viene la curiosità di saperlo. Chissà, può darsi che tutto sia cambiato.”

“Io non amo cambiare niente. Mi piace pensare che vivo adesso come vivevo dieci anni fa, e come vivrò fra dieci anni.”

“Ma egualmente non so come vivi; dunque vediamo, la mattina a che ora ti svegli?”

“Alle otto.”

“Così presto? Ma spesso ho telefonato alle nove e mi sono sentito rispondere: la signora riposa.”

“Sì, qualche volta dormo di più perché faccio tardi la sera.”

“E appena sveglia che fai? Fai colazione?”

“Si capisce.”

“In camera tua o in sala da pranzo?”

“In camera mia.”

“A letto oppure ad un tavolino?”

“Ad un tavolino.”

“Cosa prendi per colazione?”

“Del tè, dei toasts, come sempre, e una spremuta di arancio.”

“E dopo colazione che fai?”

“Faccio il bagno.” Mia madre rispondeva alle mie domande con un tono leggermente risentito, insieme dignitoso e sorpreso, come se io avessi messo in dubbio che lei facesse veramente colazione o si lavasse.

“Il bagno o la doccia?”

“Il bagno.”

“Ti lavi da sola o ti fai aiutare dalla cameriera?”

“La cameriera sorveglia la gradazione dell’acqua, ci mette i sali, e poi quando il bagno è pronto, mi aiuta a lavarmi in quei punti del corpo in cui io non arrivo.”

“E poi?”

“E poi esco dall’acqua, mi asciugo e mi vesto.”

“La cameriera ti aiuta anche a vestirti?”

“Mi aiuta a infilarmi le calze. I vestiti no, mi piace vestirmi da me.”

“Ci parli con la cameriera, mentre fai il bagno e ti vesti?”

Mia madre si mise ad un tratto a ridere, quasi suo malgrado, con una specie di stizza nervosa: “Ma sai che sei strano con le tue domande? Potrei anche non desiderare di risponderti. La mia vita intima è una cosa che riguarda soltanto me.”

“Non ti ho chiesto quello che pensi ma quello che fai. Cerca di comprendermi. Io torno a casa dopo una assenza di quasi dieci anni. È giusto che io voglia ambientarmi di nuovo. Dunque, tu parli con la cameriera?”

“Si capisce, le parlo, non è mica un automa, è una creatura umana.”

“Quando ti metti addosso i gioielli, prima o dopo di vestirti?”

“Me li metto per ultimo.”

“In quale ordine, cioè quali prima e quali dopo?”

“Lo sai a che cosa mi fai pensare? Ai poliziotti dei libri gialli, quando devono scoprire un delitto.”

“Infatti debbo scoprire qualche cosa.”

“Che cosa?”

“Non lo so, qualche cosa. Dunque, in quale ordine te li metti addosso i gioielli?”

“Prima gli anelli e i braccialetti, poi la collana e poi gli orecchini. Sei soddisfatto?”

“Dopo esserti vestita, che fai?”

“Scendo giù e vado a dare gli ordini alla cuoca, per la giornata.”

“Cioè scrivi la lista per il pranzo e la cena.”

“Già.”

“E poi?”

“Vado in giardino, colgo dei fiori, li porto in casa e li metto nei vasi. Oppure passeggio e parlo coi giardinieri. Insomma mi occupo del giardino.”

“Dopo il giardino, che fai?”

La vidi guardarmi un momento, e quindi rispondere quasi con solennità: “Vado nello studio e mi occupo dell’amministrazione.”

“Tutti i giorni?”

“Sì, tutti i giorni, c’è sempre qualcosa da fare.”

“E che cosa fai?”

“Beh, scrivo, oppure ricevo gente.”

“Cioè vengono a trovarti avvocati, esattori, agenti di borsa, uomini di fiducia e simili?”

Improvvisamente si mise a ridere di nuovo ma questa volta in maniera compiaciuta e quasi sensuale, segno che avevo toccato un punto sensibile: “Tu credi forse che sia un lavoro da poco quello che faccio? Non è la pittura, d’accordo, ma è lo stesso un lavoro estenuante che mi tiene occupata tutta la mattina e qualche volta pure il pomeriggio.”

“Beh, è bene occuparsi, no?”

“Certi giorni mi viene persino un dolore fisso, qui, alla nuca.”

“Dovresti risparmiarti.”

Mia madre mi considerò un momento, forse con affetto, poi disse con la sua brutta voce gracchiante: “Lo faccio per te, affinché il tuo patrimonio si conservi e si accresca.”

“Il mio patrimonio? No, il tuo.”

“Quando morirò sarà il tuo.”

“Sei molto giovane ancora, morirò certamente prima io. Di noia. Comunque, diciamo pure: il nostro patrimonio. Come va, dunque, il nostro patrimonio, come va? Come va?”

“Ma lo sai che sei veramente strano. Va bene, grazie alle mie fatiche. Certo, se non ci fossi stata io, a quest’ora non avremmo più una lira.”

“Siamo dunque molto ricchi, no?”

Mia madre, a questa domanda, non rispose affatto, limitandosi a guardarmi con una faccia di legno e degli occhi di vetro. Quindi disse: “Rita, che fa lei così impalata? Perché non va a vedere se il secondo è pronto?” Vidi Rita riscuotersi come da una specie di trasognatezza ed uscire. Subito mia madre soggiunse: “Ti prego, te l’ho sempre detto, non parlare di interessi in presenza della servitù.”

“Perché no? Capirei se avessi parlato di oscenità. Ma di interessi? Sono forse osceni gli interessi?”

Mia madre scosse la testa, ad occhi bassi, come scartando, senza discuterlo, il mio argomento. Poi disse: “Loro sono poveri, non è giusto sfoggiare la ricchezza davanti a chi è povero.”

“Ma tu non vorresti mai che si parlasse di interessi neppure quando siamo soli. Fai una certa faccia, si direbbe che ti scandalizzi, come se, invece di soldi, parlassi di cose sessuali.”

Nuova scossa della testa: “No, mi piace parlarne, a tempo e luogo, anzi, visto che torni ad abitare qui, bisogna che ne parliamo. Dopo colazione andremo nello studio e ti fornirò tutte le informazioni che desideri.”

In quel momento Rita rientrò portando un lungo vassoio ovale, sul quale, tra mucchietti di varie verdure e legumi di stagione, stava disposto, in fette numerose, il vitello annunziato da mia madre. Dissi leggermente, spinto da non so quale demone dispettoso: “Però non hai ancora risposto alla mia domanda: siamo o non siamo molto ricchi?”

Questa volta non si limitò a rispondermi con il silenzio: sotto la tavola, sentii ad un tratto il piede di lei che cercava e quindi schiacciava con forza il mio. Poi disse a Rita: “Serva il signor Dino, io non mangio carne.”

Quel piede di mia madre sul mio m’ispirò addirittura un sentimento di disperazione. Dunque, lei mi premeva il piede come fanno gli innamorati fra di loro; soltanto che eravamo madre e figlio e il legame che ci univa non era l’amore bensì il denaro. D’altra parte io non potevo rifiutare questo legame, perché rifiutarlo avrebbe voluto dire rifiutare anche il legame di sangue che esso sottintendeva. Così non c’era niente da fare: volente o nolente, io ero ricco; e rifiutare di esserlo, equivaleva ad accettarlo.

La mia disperazione, tuttavia, prese una direzione inattesa. Rita mi porgeva il piatto oblungo del vitello, inchinando verso di me il petto florido e il volto lentigginoso e sornione, con la bocca bella e pallida color geranio: e io, allora, al riparo del vassoio, rivoltai la mano che tenevo sulla tavola e le afferrai il polso, risalendo, poi, su, fino al braccio. Finii di servirmi con l’altra mano, e quindi, rimessa la forchetta sul vassoio, insistetti di nuovo, con freddezza: “Dunque, siamo ricchi o no?” Per la seconda volta, sentii il piede di mia madre tartassarmi il mio. Dissi allora: “Un momento, Rita.”

Ubbidiente, Rita tornò indietro a porgermi per la seconda volta il vassoio. Presi di nuovo con una mano sola la forchetta e mi diedi a raccogliere in giro per il piatto un po’ di carne e di verdura. Intanto, con l’altra mano che avevo lasciato penzolare dalla seggiola, risalivo lungo la gamba di Rita, su, fino ai fianchi. Sentii, sotto la mia mano, attraverso la veste abbondante, i muscoli della gamba fremere, come quelli di un cavallo, se il padrone lo accarezza. Niente, però, trasparì sul volto che adesso non soltanto sembrava ipocrita, ma certamente lo era. Alla fine si allontanò; e io, cogliendo, almeno così mi parve, quasi un fuggitivo sguardo d’intesa dietro i suoi occhiali, non potei fare a meno di pensare che già adesso, prima ancora di rientrare nella casa di mia madre, mi trovavo in una situazione peggiore di quella di dieci anni prima: allora, quali che potessero essere le ragioni che avessi per farlo, non avrei mai pensato di mettere le mani addosso a una cameriera. Mia madre, intanto, aveva cessato di schiacciarmi la scarpa, nel momento preciso in cui io avevo staccato la mano dal fianco di Rita, con una simultaneità strana, come se avesse agito d’accordo con me. Dissi, riprendendo la conversazione interrotta: “Dunque tu lavori fino all’una e oltre, tutti i giorni?”

“Tutti i giorni salvo la domenica.”

“La domenica che fai?”

“Vado a messa.”

“In quale chiesa?”

“San Sebastiano.”

“Che fai in chiesa?”

“Faccio quello che fanno tutti gli altri, ascolto la messa.”

“E ti confessi qualche volta?”

“Certo che mi confesso, si capisce. E mi comunico, anche.”

“E il prete, una volta che ti sei confessata, ti assolve?”

“Non ho mai da confessare dei peccati molto gravi,” disse mia madre con una specie di civetteria. “Lo sai che mi dice don Luigi qualche volta: signora, lei finisce dove gli altri appena appena cominciano. Che peccati vuoi che commetta, alla mia età?” E mi guardò come per dire: ho rinunziato da tempo alla sola cosa che potrebbe farmi commettere dei peccati.

Tacqui per un momento; quindi ripresi: “Torniamo alla tua giornata: nei giorni feriali, dunque, tu lavori la mattina e poi che fai?”

“Faccio colazione.”

“Sola?”

“Sì, la mattina mangio sempre sola. Qualche volta, ma raramente, trattengo a colazione l’avvocato; soltanto, però, quando non abbiamo finito e dobbiamo continuare nel pomeriggio.”

“Quale avvocato? De Santis?”

“Sì, è sempre lui il mio avvocato.”

“E dopo colazione?”

“Dopo colazione, faccio una passeggiata per il giardino.”

“E poi?”

“Vado a riposare.”

“Cioè, dormi?”

“No, non dormo, mi tolgo le scarpe e mi stendo sul letto tutta vestita. Ma non dormo, mi lascio andare ai miei pensieri.”

“A che cosa pensi?”

La vidi ridere di nuovo in maniera nervosa e schiva, proprio come una fanciulla che sia tentata di parlare di un suo amore: “Dipende. In questi giorni sai a che cosa penso?”

“No, a che cosa pensi?”

“Penso ad una palazzina che è in vendita sul Lungotevere Flaminio. Un ottimo affare, non foss’altro per l’area. Purtroppo, in questo momento non posso permettermelo, ma lo stesso ci penso. Qualche altra volta penso a delle cose che posso permettermi, per esempio questo,” tese la mano e mi mostrò un anello con un grosso smeraldo circondato di brillanti. “Ci pensai a lungo, pesando il pro e il contro e alla fine mi decisi e lo comprai.”

“E dopo aver riposato, che fai?”

“Ma, insomma, perché questo interrogatorio?”

“Te l’ho già detto, per ambientarmi di nuovo.”

Disse malvolentieri: “Faccio tante cose, per esempio delle visite.”

“Da chi vai?”

“Oh, dipende: c’è sempre qualche ricevimento, qualche cocktail, e poi ho delle amiche.”

“Hai molte amiche?”

“Ho conservato quasi tutte le amiche che avevo quando ero in collegio” disse mia madre con aria improvvisamente pensosa, “dopo, chissà perché, non ho più fatto amicizia con nessuno.”

“Che fai con le amiche?”

“Che vuoi che facciamo? Quello che fanno le signore quando stanno insieme. Chiacchieriamo, prendiamo il tè o il martini, giochiamo.”

“A quale gioco?”

“Che noioso, sei! Ma, a bridge, oppure a canasta, o anche a poker. Qualche volta, la sera, organizzo qui dei tornei di bridge o di canasta.”

“Ah, sì, ricordo, dei tornei di beneficenza, no? a favore di chi?”

“L’ultimo lo feci a favore dei ciechi di guerra.”

“I ciechi di guerra. Siamo tutti, in un certo modo, ciechi di guerra, no?”

“Adesso francamente non ti capisco. Ma se si tratta di uno scherzo, mi pare che non sia uno scherzo di buon gusto.”

“Non importa. E dalle sarte ci vai?”

“Dal momento che non giro nuda, bisogna pure che ci vada. Anzi hai fatto bene a ricordarmelo, se no me lo sarei dimenticato: domani c’è il defilé della Fanti.”

“Ah, la Fanti. Sempre quella. Ma non muore mai?”

“Poveretta, perché vorresti farla morire? Non soltanto non muore, ma si ricorda di te, di quando eri bambino e mi accompagnavi da lei. Mi chiede sempre che cosa fai, come stai, spera che ti sposi e che le mandi tua moglie.”

“E la sera che fai?”

“Ceno, spesso c’è qualcuno. Qualche volta ho dei pranzi, sei otto persone, e altre che vengono dopo il pranzo. Oppure vado a teatro o al cinema con degli amici, sempre gli stessi. Ma più spesso guardo alla televisione.”

“Ah, hai comprato la televisione? non lo sapevo.”

“Ah, non te l’avevo detto? Sì, l’ho sistemata su, in un salottino. Viene una famiglia di vicini e la guardiamo insieme. Oppure me la guardo da sola. Mi piace la televisione: è meglio del cinema: non è necessario uscire di casa, si può assistervi in una comoda poltrona e fare al tempo stesso qualche altra cosa. Figurati che adesso ho ripreso a lavorare a maglia, dopo tanti anni che non lo facevo più. Sto facendo un golfino.”

“E dopo la televisione che fai?”

“Me ne vado a letto. Che vuoi che faccia?”

“Beh, potresti leggere, per esempio.”

“Sì, leggo, questo sì, per farmi venir sonno. In questo momento, per esempio, sto leggendo un romanzo abbastanza interessante.”

“Di quale autore?”

“Non ricordo l’autore, è un romanzo americano sulla vita di una piccola città di provincia.”

“Che titolo?”

La vidi fare un viso incerto e soggiunsi in fretta: “Dimenticavo che non hai mai ricordato in vita tua né il nome dell’autore né il titolo del libro che leggevi. Non è così?”

Avevo parlato con tono forse quasi affettuoso; e comunque già il fatto che ricordassi qualche cosa che la riguardava parve farle piacere. Ebbe un riso modesto: “Non è vero. Soltanto, come si fa a rammentare certi nomi? E poi quello che mi preme è soprattutto passare il tempo. Un autore o un altro, per me fa lo stesso.”

“Giusto. Prendi sempre la camomilla prima di addormentarti?”

“Come fai a ricordarlo? Sì, la prendo.”

“Te la portano in camera? Te la mettono sul comodino?”

“Già, sul comodino.”

Improvvisamente tacqui con un senso di sazietà e di futilità. Avrei potuto, come pensai, continuare a interrogare per ore mia madre e non sarei lo stesso venuto a capo di niente: la sua vita e lei stessa erano arrivati ormai a quel grado di mancanza completa di significato che, alla fine, equivale ad una specie di mistero al tempo stesso melenso e insondabile. Poi mia madre domandò: “Allora è finito l’interrogatorio? Oppure vuoi sapere che sogni faccio mentre dormo?”

“Sono soddisfatto.”

Ancora silenzio. Quindi mia madre disse in maniera inaspettata: “Tua madre è una donna che vive sola, e non ha che te ed è felice che torni a stare con lei.”

Capii che era commossa dal fatto che parlava di se stessa in terza persona. Pensai di dirle anch’io qualcosa di affettuoso, ma non trovai niente. Per fortuna, Rita, mi offrì in quel momento il vassoio con un dolce molto elaborato che finsi di ammirare dicendo: “Che bel dolce.”

“Era il tuo dolce preferito.”

Mi servii; Rita, come mi accorsi, si teneva un po’ lontano dalla tavola. Non capii bene se lo facesse per avversione o per quella particolare civetteria che simula l’avversione. Mia madre, che non aveva toccato il dolce, mi guardò implacabilmente e fissamente per tutto il tempo che misi a mangiarlo. Alla fine fece un gesto a Rita, che non compresi. La ragazza uscì e ricomparve di lì a poco con un secchio nel quale stava tuffata una bottiglia di champagne.

“Adesso beviamo un bicchiere di champagne alla tua salute.”

Vidi Rita, con gesti che testimoniavano una vecchia abitudine, togliere dal secchio la bottiglia, svolgere la carta d’argento e far saltare, quasi senza rumore e senza schiuma, il grosso tappo. Essa versò lo champagne nei nostri due bicchieri e quindi, come se non avesse voluto disturbare con la sua presenza il rito festivo, uscì in fretta.

Eccomi, dunque, con una coppa di champagne in mano, in piedi, di fronte a mia madre, la quale, in piedi anche lei, mi tendeva la sua coppa. Pronunziai, non sapendo che dire: “Cento di questi giorni.”

Mia madre si mise a ridere: “Ma sono io che devo dirtelo a te. Dimentichi che è la tua festa e non la mia.”

Non potei fare a meno di rispondere: “La vera festa è la tua: non dipingo più, torno a stare con te, dunque: cento di questi giorni.” E con la mia coppa andai ad urtare la coppa di mia madre che, questa volta, finse di non aver udito. Disse poi, dopo aver bevuto, posando la coppa sulla tavola: “Non è abbastanza gelato.”

“Perché? mi pare che sia buono.”

“Sì, ma non è stato abbastanza in ghiaccio.”

Riprese la coppa e la vuotò del tutto. Quindi premette un campanello sulla tavola. Riapparve Rita. Mia madre fece anche a lei la stessa osservazione sullo champagne non abbastanza gelato senza riceverne né, apparentemente, aspettarne alcuna risposta. Poi soggiunse che avremmo preso il caffè nello studio. Il pranzo era finito.

Uscimmo così dalla sala da pranzo e andammo nello studio, una stanza non grande che occupava tutto un angolo del pianterreno. In questo studio io non ci andavo volentieri, anzi evitavo di entrarci, perché, come pensavo spesso, era una specie di tempio per una religione che non era certamente la mia. Infatti, nello studio, seduta in un seggiolone di cuoio a borchie dorate, davanti a una grande tavola barocca di quercia scolpita, su uno sfondo di scaffali nei quali si allineavano pochi libri e molti scartafacci, mia madre si dedicava, da sola o in compagnia dei suoi uomini di fiducia, ai riti, per lei così commoventi, del disbrigo degli affari. Anche quel giorno la seguii malvolentieri: e, una volta nello studio, non potei fare a meno di domandare: “Perché qui, non potremmo andare nel salotto?”

Mia madre non parve udirmi. La vidi accomodarsi dietro la tavola facendomi cenno di sedermi di fronte, nel seggiolone che di solito era riserbato ai suoi interlocutori durante le conversazioni di affari. Quindi frugò nella borsa, ne trasse una chiave, si tirò un po’ indietro, aprì un cassetto e vi prese un lungo e stretto quaderno nero, che mi colpì per il suo aspetto di oggetto di chiesa o, comunque, connesso in qualche modo con la religione. Era invece, come ricordai improvvisamente, il quaderno in cui, in bell’ordine, stavano elencate tutte le nostre proprietà. Mia madre chiuse il cassetto, posò il quaderno sulla tavola davanti a sé, mi guardò un momento, fissa, con occhi più vitrei che mai, e poi disse: “Poco fa mi hai chiesto se fossimo ricchi, e io ho preferito non risponderti perché c’era presente la cameriera. Ma sono contenta lo stesso che tu mi abbia fatto quella domanda. E adesso ti fornirò tutte le informazioni che desideri, se non altro,” soggiunse a questo punto con voce ragionevole, “perché sarebbe mio desiderio che tu mi aiutassi nell’amministrazione e ti impratichissi e mi sostituissi in tante cose. Tanto non dipingi più, dunque avrai tutto il tempo di farlo.”

Non potei fare a meno di fremere a queste ultime parole: con quale serenità, con quale compiacimento, mia madre aveva pronunziato la frase: tanto non dipingi più; senza rendersi conto che, per me, equivaleva a sentirmi dire: tanto non vivi più. Domandai con sforzo, senza più alcuna dispettosità, questa volta: “Beh, allora, siamo ricchi o no?”

La vidi tacere per un momento, guardandomi con strana solennità. Quindi, sporgendosi verso di me e abbassando la voce: “Noi non siamo ricchi, Dino, siamo molto ricchi. Grazie a tua madre, tu sei oggi un uomo molto ricco.”

“Che cosa vuol dire: molto ricchi?”

“Molto ricchi vuol dire qualcosa di più che semplicemente ricchi.”

“Ma meno che ricchissimi?”

“Sì, meno che ricchissimi.”

Mia madre mi rispondeva adesso un po’ distrattamente. Aveva inforcato un paio di occhiali da monaca, senza cerchi, con le stanghette d’oro, e sfogliava le pagine del suo quaderno nero: “Del resto, niente meglio delle cifre potranno farti capire, dunque, dunque, dov’è, ah, eccolo... potranno farti capire, dicevo, che cosa significhi essere molto ricchi.”

Compresi che stava per fornirmi i ragguagli che mi aveva promesso e ad un tratto provai una incoercibile ripugnanza. Esclamai con vivacità: “No, per carità, non voglio affatto sapere che cosa significhi essere molto ricchi. Ti credo sulla parola.”

Mia madre alzò gli occhi dal quaderno, si tolse gli occhiali, e mi guardò: “Ma tu devi sapere: se non altro, come ti ho detto, per aiutarmi nell’amministrazione.”

Stavo per gridarle, con violenza: “Ma io non voglio aiutarti nell’amministrazione,” quando, per fortuna, ecco Rita con il vassoio del caffè. Mia madre, alla vista di Rita, parve rientrare in se stessa, proprio come un prete che vede avvicinarsi un miscredente. Chiuse con un colpo secco il quaderno e disse: “Lo versi lei, il caffè, Rita.” Allora, mentre Rita, dritta in piedi accanto a me, versava il caffè nelle tazzine, io mi domandai come potessi sfuggire a questa cosa insopportabile: la spiegazione di quel che volesse dire essere molto ricchi. Rita mi stava di nuovo vicina, ora, e, non capii se apposta o no, mi sfiorava le ginocchia con una gamba. Poi si voltò verso di me e mi porse la mia tazza. Quasi d’istinto, impressi uno scatto al mio braccio. La tazza si rovesciò sul piattino e il caffè cadde sui miei pantaloni chiari, caldo e umido sulla pelle. Esclamai, fingendo costernazione: “Accidenti, i miei pantaloni.”

“Ma Rita, perché non fa più attenzione?” rimproverò mia madre che non aveva visto né capito niente.

Mi affrettai a dire: “Rita non c’entra, sono stato io. Piuttosto, adesso: i miei pantaloni sono macchiati.”

Rita disse: “Non è niente, non era neppure zuccherato, porto un po’ d’acqua e tolgo la macchia.”

Questa soluzione non piacque a mia madre, che protestò subito con la sua voce più sgradevole, in tono autoritario: “Nient’affatto, non si puliscono le macchie addosso alle persone. Il signor Dino si toglierà i pantaloni, lei laverà la macchia e poi glieli stirerà.”

Guardai Rita che se ne stava in piedi presso la tavola, il volto atteggiato ad un’espressione di servile pazienza; quindi essa domandò con serietà. “Il signor Dino se li toglie subito i pantaloni, oppure debbo aspettare?”

“Il caffè macchia,” disse mia madre, “meglio che te li togli subito, Dino.”

“Ma non posso togliermeli qui, nel salotto.”

Vidi Rita voltare la testa dall’altra parte, forse per nascondere un sorriso. Mia madre disse: “Va’ su, nella tua camera, togliti i pantaloni e dalli a Rita. Poi mettiti la vestaglia che è nell’armadio e vieni giù. Intanto io ti preparo certe carte che voglio mostrarti.”

Così uscimmo, Rita ed io, lei precedendomi quasi di corsa, e dicendo: “Guardi, vado avanti perché quella camera è sempre stata chiusa e almeno apro le finestre;” e io seguendola e pensando, con una certa quale meraviglia, che tutto si svolgeva secondo le regole mai scritte ma inflessibili di simili situazioni ancillari: la madre che fornisce al figlio, proprio lei, il pretesto per appartarsi con la cameriera; quest’ultima e il figlio che si avviano insieme al letto sul quale cadranno insieme, fingendo l’un con l’altro di prendere sul serio il pretesto fornito dalla madre; la cameriera al tempo stesso eccitata e servilmente ambiziosa; il figlio, anche lui, insieme eccitato e padronalmente umiliato. Tra queste riflessioni, arrivai al secondo piano e mi diressi alla mia camera dove Rita mi aveva preceduto. La vidi che si sporgeva fuori dalla finestra, spalancando le persiane; come si voltò un po’ arrossata in viso dallo sforzo, dalla corsa e, forse, dal turbamento, le dissi seccamente: “Aspetti un momento fuori, che la chiamo.”

Appena fu uscita, andai lentamente alla finestra e per un momento stetti in piedi, le spalle contro l’imposta, fissando trasognato il giardino all’italiana che si stendeva di sotto. Non sono portato a ricordare il passato, né a commuovermi nei luoghi del passato; ma quel giorno avevo deciso di tornare a vivere con mia madre, dopo dieci anni di assenza; così non potei fare a meno di confrontare il mio presente stato d’animo con quello di dieci anni avanti. Allora, guardando prima ai bei mobili impero della stanza e poi al disegno geometrico del giardino all’italiana, tutte cose rimaste identiche, mi accorsi di provare non so quale squallido sollievo all’idea che, in fondo, neppur io ero cambiato. Sì, non ero cambiato; e ora tornavo a vivere con mia madre e avrei ripreso le vecchie abitudini di dieci anni prima; e forse, pian piano, avrei cominciato persino a dipingere, laggiù, nello studio in fondo al giardino, anch’esso rimasto immutato. Chissà, infatti, che, come a suo tempo andare a vivere a via Margutta era servito, per un poco, a ridarmi fiducia nel mio lavoro, così, adesso, tornare alla villa di mia madre mi avrebbe di nuovo ispirato, sia pure per breve tempo, l’illusione della pittura: la vita, in fondo, era proprio questo continuo cambiare di posizione, come in un letto scomodo nel quale è impossibile dormire a lungo sullo stesso fianco. Ma come i miei occhi si posarono sul letto e vidi che non aveva coperte né lenzuola e che il materasso era arrotolato, come appunto si fa nelle camere disabitate, mi resi conto improvvisamente che questa immutabilità delle cose e di me stesso non era poi così positiva come, per un momento, mi era sembrato. Niente era cambiato, era vero, ma io mi sarei trovato di nuovo di fronte alla disperazione, anch’essa immutata, che, a suo tempo, mi aveva fatto fuggire di casa. Niente era cambiato, ma poiché il tempo non passa invano, tutto era un poco peggiorato, pur restando sostanzialmente immobile. E così, mentre mia madre mi aspettava giù nel salotto per spiegarmi, carte alla mano, che cosa volesse dire essere ricchi, Rita aspettava dietro la porta che le gridassi di entrare e le saltassi addosso: due cose apparentemente molto lontane l’una dall’altra, in realtà collegate da un meccanismo segreto e rigoroso. Questo meccanismo non mi era sconosciuto, ne avevo sempre sospettato l’esistenza; ma non l’avevo mai veduto con tanta chiarezza come adesso, un po’ come si può vedere, nelle vetrine delle compagnie aeree, lo spaccato di un motore di aeroplano, con tutti i suoi complicati e numerosi congegni. Era il meccanismo, appunto, della disperazione, il quale, se fossi tornato a vivere con mia madre, mi avrebbe fatto rimbalzare dal denaro all’impotenza, da questa alla noia e dalla noia a Rita o a qualsiasi altro analogo avvilimento dello stesso genere. Meglio allora tornare allo studio di via Margutta, dove la disperazione, almeno, si esprimeva nella tela pulita che non avrei mai dipinto.

Udii a questo punto un discreto ma chiaramente impaziente e confidenziale grattare alla porta; e prima ancora che potessi rendermi conto di quello che facevo, mi ero già sfibbiato la cintura, sfilati i pantaloni e poi avevo gettato giù il materasso e mi ero disteso supino sul letto. Quindi gridai a Rita che venisse pure avanti.

Entrò subito, si assicurò con un rapido sguardo che stavo sul letto e si voltò per chiudere la porta. Io rimasi immobile per tutto il corpo, salvo nel luogo dove il desiderio faceva affluire il sangue turbato: mi guardavo al ventre, con occhi fissi, il mento inchiodato sul petto, come un cadavere disteso sul catafalco sembra guardare al proprio corpo ricomposto e pronto ad essere portato al cimitero. Rita, intanto, era venuta a mettersi contro il letto, e, dritta in piedi, pareva contemplarmi attraverso i suoi occhiali ipocriti, come si contempla un oggetto mai visto e degno di studio. Stesi allora una mano, afferrai la mano che lei lasciava pendere lungo il fianco e tirai al modo che si tira la cavezza ad una bestia non tanto recalcitrante quanto timida; e sentii che tutta la sua persona veniva dietro quella mano. Guidai la mano verso il centro del mio corpo e, appena fui sicuro che si era richiusa, la lasciai. Adesso Rita stava immobile, un po’ chinata in avanti, il braccio allungato sopra di me, un rossore acceso sotto i due cerchi neri degli occhiali. Poi disse, stranamente, con voce lenta e compiaciuta: “Che schifo;” e io mi meravigliai perché erano le medesime parole che avrei detto io stesso, se avessi voluto esprimere il sentimento misto di ripugnanza e di eccitazione che provavo in quel momento.

Trassi un sospiro profondo e domandai alla fine, senza guardarla, con voce bassa: “Perché sei venuta qui?”

Alzò le spalle e non disse niente; pareva incapace di parlare.

“Per togliermi la macchia? Ebbene va’ a toglierla, che aspetti?”

La vidi trasalire, come se l’avessi percossa in faccia, aprire con riluttanza le dita, una dopo l’altra, quindi uscire dal mio sguardo. Dovette uscire anche dalla camera, perché, dopo un momento, udii il rumore della porta che si apriva e si chiudeva. Appena fui sicuro che se ne fosse andata, balzai giù dal letto e aprii l’armadio. Come speravo, accanto alla vestaglia di seta che, secondo il consiglio di mia madre, avrei dovuto indossare, pendeva, nel suo involucro di cellophane, il solo vestito che non mi fossi portato via quando ero andato ad abitare nello studio: lo smoking. Presi i pantaloni e me li infilai. Mi stavano abbastanza bene, forse erano un po’ larghi, dieci anni prima ero stato più grasso, la cucina di mia madre era più ricca e più nutriente di quella delle modeste trattorie che adesso frequentavo. Mi specchiai: con la mia giubba di canapa marrone sui pantaloni neri, parevo un cameriere disoccupato. Disserrai pian piano la porta, vidi che non c’era nessuno, discesi in fretta la scala, e quindi, per il corridoio, evitando i salotti, andai all’anticamera e di qui uscii sullo spiazzo.

Le due macchine, quella vecchia e quella nuova, stavano l’una accanto all’altra, davanti alla villa. Il cielo nuvoloso, gli alberi, la villa si specchiavano vagamente nella limpida lucentezza della carrozzeria della macchina nuova; la vecchia appariva invece opaca, della medesima opacità, non potei fare a meno di dirmi, di cui la noia di solito velava il mondo intorno a me. Strappai una pagina dal mio taccuino, vi scrissi sopra: “grazie, ma preferisco tenermi la macchina vecchia. Il tuo affezionatissimo figlio, Dino”, e la inserii sotto le asticelle del tergicristallo, là dove, di solito, le guardie mettono i foglietti delle contravvenzioni. Poi salii nella mia automobile, accesi il motore e partii.