Nello stesso edificio di via Margutta dove abitavo, nel corridoio a pianterreno, tre porte più in là della mia, aveva il suo studio un vecchio pittore che si chiamava Balestrieri. L’incontravo spesso, avevo scambiato qualche parola con lui, ma non lo frequentavo: come tutti gli uomini che non pensano che alle donne, Balestrieri era di una estrema, quasi insultante freddezza con le persone del proprio sesso, quali che ne fossero le condizioni e l’età, ravvisando evidentemente in loro altrettanti possibili rivali. Balestrieri era un uomo piccolo dalle spalle molto larghe e dai piedi molto grandi, due difetti che non si curava di nascondere, anzi metteva in vista indossando enormi giacche sportive a quadroni, e calzando antiquate scarpe lustre e affusolate. La faccia di Balestrieri aveva molto della maschera carnevalesca o del satiro pompeiano: capelli bianchi come l’argento, volto rosso acceso, sopracciglia nere come il carbone, naso prominente, bocca grande, mento puntuto. L’espressione di questa faccia era un po’ imbambolata e tuttavia, sotto sotto, inquieta. Di Balestrieri avevo sentito dire da alcuni pittori anziani che lo conoscevano bene, che era un erotomane e che aveva incominciato a dipingere in gioventù unicamente per attirare, con il pretesto della pittura, delle donne nel suo studio. In seguito, però, gli era, per così dire, rimasta l’abitudine della pittura, che, per lui, voleva dire soprattutto il nudo femminile. Balestrieri, che era agiato, non viveva del suo lavoro, non esponeva mai, e, in certo modo, dipingeva per se stesso; i suoi amici mi dissero che era così affezionato ai suoi quadri che, quelle rare volte che si decideva a regalarne uno, ne faceva una copia e la dava in luogo dell’originale. Quanto alla qualità, tutti erano d’accordo nel dire che si trattava di pessima pittura. Una o due volte, preso da curiosità, avevo tentato di sbirciare i quadri di Balestrieri, attraverso i vetri del suo finestrone, dal cortile; e avevo intraveduto alcune grandi tele scure nelle quali si distinguevano a malapena enormi nudi femminili dalle forme eccessive e dagli atteggiamenti poco naturali.
Lo studio di Balestrieri era costantemente visitato da un gran numero di donne. Attraverso i vetri del mio finestrone, potevo vederle attraversare il cortile e scomparire nella porta che dava nel corridoio del pianterreno. Sapevo che andavano da Balestrieri perché negli altri due studi abitavano due pittori che vivevano con le famiglie, e, d’altronde, non si servivano di modelle perché dipingevano quadri astratti. Queste donne di Balestrieri testimoniavano una grande varietà di gusti: giovani e mature, popolane e signore, ragazze e donne sposate, bionde e brune, magre e grasse, piccole e grandi, si vedeva che Balestrieri, come tutti i dongiovanni poco raffinati, non andava troppo per il sottile ed era un collezionista di avventure che tirava più alla quantità che alla qualità. Balestrieri aveva molto di rado quello che si chiama una relazione, ossia dei rapporti duraturi con una sola donna; e anche quando l’aveva, non interrompeva le altre avventure meno importanti. Soprattutto nei primi anni che abitavo in via Margutta, la figura e la vita di Balestrieri mi avevano incuriosito così che l’avevo anche un poco spiato. Ero arrivato perfino a fare una statistica delle donne che lo visitavano: fino a cinque donne diverse al mese, ossia una donna nuova ogni sei giorni, con una frequenza di circa due visite al giorno. Balestrieri, quando lo vidi la prima volta, aveva cinquantacinque anni; al tempo in cui si svolgono gli avvenimenti che sto narrando, ne aveva sessantacinque; eppure, durante quei dieci anni, non avevo osservato alcun cambiamento nelle sue abitudini: vedeva sempre, più o meno, lo stesso numero di donne, come se il tempo per lui non passasse.
O meglio, un cambiamento ci fu, ma si manifestò non già in una diminuzione delle visite femminili, come ci si sarebbe potuto aspettare, bensì in un accrescimento. L’erotismo di Balestrieri, che io paragonavo spesso ad un vulcano in continua ma tranquilla attività, ebbe, infatti, verso il suo sessantatreesimo anno di età, come una fase parossistica. Le donne che sfilavano nel cortile e andavano a bussare alla porta del vecchio pittore mi parvero più numerose; inoltre mi accorsi che erano ormai quasi sempre ragazze molto giovani: come tutti i viziosi, Balestrieri, con gli anni, inclinava verso le adolescenti. Ho parlato di una fase parossistica dell’erotismo; sarebbe più esatto dire che si trattò, se mai, di una fissazione, probabilmente inconsapevole, su un tipo solo di donna ad esclusione di tutti gli altri. Insomma, Balestrieri, senza rendersene conto, stava cessando in quel tempo di essere il dongiovanni collezionista che era sempre stato e, per la prima volta, si dedicava o voleva dedicarsi ad una donna sola. Quelle numerose ragazze, tutte più o meno della stessa età, non erano perciò che prove sempre più riuscite di un tipo che si andava insensibilmente precisando; approcci ad una figura ideale che, un giorno o l’altro, si sarebbe incarnata. E infatti, ad un tratto, il flusso delle adolescenti verso lo studio di Balestrieri cessò, per lasciare il posto ad una sola visitatrice che, evidentemente, esse avevano preparato e che le riassumeva tutte.
Ebbi modo di osservarla con una certa attenzione, se non altro perché mi accorsi quasi subito che lei osservava me. Sempre vestita da ballerinetta secondo la moda del momento, con una leggera camicetta sbuffante e una gonna molto corta e ampia che pareva sostenuta da una crinolina, ella dava l’idea di un fiore capovolto, dalla corolla sbilenca e oscillante, che andasse in giro camminando sopra i pistilli. Il volto l’aveva rotondo, da bambina; ma una bambina cresciuta troppo in fretta e iniziata troppo presto alle esperienze muliebri. Era pallida, con un’ombra leggera sotto gli zigomi che faceva parere smunte le guance, e una folta capigliatura bruna e crespa tutto intorno il viso. La bocca piccola, di forma ed espressione infantile, faceva pensare ad un bocciolo avvizzito precocemente sul ramo, senza aprirsi; ed era segnata agli angoli da due rughe sottili che mi colpirono in maniera particolare, per il senso di aridità intensa che ne emanava. Infine gli occhi, la sua cosa più bella, grandi e oscuri, anch’essi di forma infantile sotto una fronte un po’ sporgente, avevano uno sguardo senza innocenza, indefinibilmente distante, indiretto e incerto.
Diversamente dalle altre donne di Balestrieri che filavano dritte e a testa bassa verso lo studio del vecchio pittore, questa attraversava il cortile con una lentezza che pareva studiata, facendosi quasi trascinare, come sembrava, dal neghittoso e riflessivo movimento dei fianchi. Pareva non tanto che andasse mal volentieri da Balestrieri, quanto che, pur andandoci, cercasse nello stesso tempo qualche altra cosa che lei stessa non avrebbe saputo definire. Quasi sempre, poi, attraversando il cortile, alzava gli occhi verso il mio studio, e se io, come spesso avveniva, perché tenevo il cavalletto presso il finestrone, ero visibile dietro i vetri, immancabilmente accompagnava lo sguardo con un sorriso. Per qualche tempo rimasi incerto su questo sorriso, così lieve da fare venire il dubbio che non fosse intenzionale. Ma in seguito, appena mi avvenne di incontrarla più da vicino nel corridoio, dovetti convincermi che il sorriso era per me e che ella vi annetteva un significato molto preciso.
Questo suo muto invito mi ispirava un sentimento oscuro di avversione che cercherò di spiegare. Prima di tutto non sono portato alle avventure, specie se, come era il caso, l’avventura mi viene per così dire suggerita e quasi imposta dalla donna; anzi, proprio l’insistenza del sorriso mi ispirava quasi un dispettoso impulso a non contraccambiarlo e a fingere di non averlo notato. In secondo luogo la ragazza non mi piaceva: non avevo mai amato che donne fatte, e questa, che non doveva avere più di diciassette anni, ne mostrava meno di quindici a causa della gracilità della persona e della infantilità del volto. Infine c’era un terzo motivo, più valido anche se meno chiaro e definibile, ed era il senso di nausea che mi assaliva tutte le volte che immaginavo di avvicinarla, parlarle, e, conseguenza inevitabile, fare l’amore con lei. Questo senso di nausea non era ispirato da una ripugnanza diretta e fisica: la ragazza non mi piaceva, è vero, ma non mi ripugnava affatto; bensì dalla rappresentazione dell’esperienza alla quale sarei andato incontro accettando il suo invito. Era, come pensavo, lo stesso sentimento di nausea apprensiva che probabilmente provano tutti coloro che si trovano sulla soglia di una realtà sconosciuta e oscura; o, forse, più semplicemente, della realtà senza più, ove si siano abituati per lungo tempo a non affrontarla. Un sentimento, dico, di ribrezzo mischiato di apprensione; il quale mi stupiva perché la ragazza, così infantile e così insignificante, non pareva giustificarlo in alcun modo.
Ma non è facile, quando ci si annoia, pensare con continuità qualche cosa. La noia, per me, era simile a una specie di nebbia nella quale il mio pensiero si smarriva continuamente, intravedendo soltanto a intervalli qualche particolare della realtà; proprio come chi si trovi in un denso nebbione e intraveda ora un angolo di casa, ora la figura di un passante, ora qualche altro oggetto, ma solo per un istante e l’istante dopo sono già scomparsi. Nella nebbia della noia, io avevo intraveduto la ragazza e Balestrieri; ma senza annettere loro alcuna importanza, e, comunque, distraendomi continuamente da loro. Così, avveniva che, per settimane, io dimenticassi l’esistenza di quei due che, purtuttavia, vivevano e si amavano a pochi passi da me. Ogni tanto mi ricordavo di loro, quasi con stupore, e pensavo allora: “Toh, ci sono sempre, continuano ad amarsi.” Mi dimenticavo a tal punto di Balestrieri che, la mattina dopo la mia fuga dalla villa di mia madre, tornando allo studio dopo aver preso il caffè lì accanto, e avendo notato in via Margutta, proprio di fronte al mio portone un carro funebre tutto nero e dorato, con i soliti angioli dorati ai quattro angoli e i soliti cavalli neri alle stanghe, ma ancora vuoto e senza fiori, non pensai che potesse essere lì ad aspettare qualcuno che conoscevo. Girai intorno il carro il quale sbarrava il passaggio, m’inoltrai sotto l’androne e, poiché camminavo, come sono solito, con gli occhi a terra, andai ad urtare con la fronte contro il bordo inferiore della bara che, in quel momento, quattro uomini stavano portando a spalla verso il carro. Subito, mi tirai indietro con un salto, mentre i quattro becchini mi lanciavano sguardi di stupita riprovazione; quindi la bara mi passò sotto il naso, seguita da due sole persone: un giovanotto dal viso butterato e brutale, vestito di un abito di tela turchina, e una donna che gli dava il braccio, della quale non vidi niente perché ammantata di veli neri dalla testa ai piedi. Il giovanotto mi fece pensare a Balestrieri, forse perché aveva anche lui il viso un po’ rosso e le sopracciglia molto nere; nello stesso tempo udii la portiera del palazzo fare a voce bassa non ricordo più quale commento sulla repentinità di certe morti e insieme udii il nome del vecchio pittore. Così appresi che Balestrieri era morto, probabilmente il giorno prima, che questo era il suo funerale e che la donna in gramaglie era la moglie dalla quale si era separato da molti anni e il giovanotto dal vestito blu, il figlio che ne aveva avuto. Come ho già detto, la noia mi aveva distratto in quei giorni al punto di dimenticare non soltanto la esistenza di Balestrieri, ma anche quella della ragazza che pure mi incuriosiva. Perciò fu senza meraviglia che mi accorsi di esser stato quei due ultimi giorni nel mio studio, ignorando che tre porte più in là Balestrieri si sentiva male, moriva, era vegliato, era messo nella bara, era portato via. Chissà, pensai, forse qualcuno mi aveva parlato della malattia di Balestrieri, ma io, pur udendolo, non l’avevo ascoltato, perduto com’ero nella noia; un po’ come mi avveniva talvolta di leggere accuratamente i titoli dei giornali e un momento dopo di scoprire che non sapevo affatto che cosa dicessero. C’era voluto la bara, o meglio il picchio doloroso che avevo dato con la fronte contro la bara, perché ricordassi l’esistenza del pittore nel momento stesso in cui ne apprendevo la morte.
Del resto la morte di Balestrieri non era stata così semplice come poteva sembrare a prima vista. Quel giorno stesso, un po’ attraverso le scandalizzate allusioni della portiera, un po’ attraverso i commenti più espliciti di un gruppo di amici che incontrai al caffè, ricostruii la fine del vecchio pittore. A quanto sembrava, dunque, Balestrieri era morto in un momento molto particolare, cioè mentre faceva l’amore con la ragazza che mi aveva sorriso tante volte. Quest’amore, poi, non era stato un amore normale, intendendo per normale l’atto che porta alla procreazione, bensì una deformazione o specialità erotica, di modo che, piuttosto che dall’amore, Balestrieri era stato ucciso, diciamo così, dalla maniera con la quale lo aveva fatto. La portiera non aveva voluto spiegarsi, limitandosi ad alludere al fatto con indignazione; gli amici al caffè avevano, invece, allegramente abbondato in particolari, come se si fossero trovati presenti nello studio al momento della morte; ma, come riuscii alla fine ad appurare, si trattava soltanto di supposizioni. In realtà Balestrieri si era sentito male ed era morto sotto gli occhi atterriti della ragazza, questo era quanto si sapeva di certo. Il fatto che la ragazza fosse la sua amante, che lui fosse stato trovato seminudo sul letto e che, infine, la ragazza stessa fosse corsa a chiamare la portiera, in vestaglia senza nient’altro sotto, pareva confermare la diceria di una morte improvvisa, sopravvenuta nel momento della voluttà. Ma coloro che non volevano credere a questo genere di morte, facevano notare che la ragazza era in vestaglia perché era modella e stava posando, e che Balestrieri era solito, d’estate, dipingere in canottiera e in mutandine da bagno. D’altra parte, a favore della diceria della morte per amore, veniva riferita l’affermazione del medico accorso al capezzale del moribondo: “Se quest’uomo si fosse reso conto che alla sua età certe cose non si fanno, sarebbe ancora vivo.” Altri sostenevano invece che il medico si era limitato a dire alla ragazza, dopo avere visitato Balestrieri: “Signorina, lei lo ha ucciso,” soggiungendo però, subito dopo: “O meglio, lo ha aiutato ad uccidersi.” Ma nessuno sapeva chi fosse questo medico e dove si trovasse; forse il medico di guardia di una delle numerose farmacie del quartiere; né io mi curai di rintracciarlo.
Quello stesso giorno, dopo aver fatto colazione in una piccola trattoria di via Margutta, rientrai nello studio e trovai un pacco con un biglietto di mia madre. Nel biglietto, mia madre mi dava una lezione di buona creanza: “Un’altra volta, invece di scappare, passa almeno a salutarmi”; nel pacco c’erano la giubba dello smoking e i pantaloni chiari che la brava Rita aveva smacchiato e stirato. Gettai tutto quanto in terra, mi distesi sul divano e accesi una sigaretta. Soffrivo, al solito, di un senso atroce di noia e mi pareva strano che anche gli altri non si accorgessero che mi annoiavo; cioè non si rendessero conto che, per me, loro e il mondo intero in realtà non esistevano, e continuassero, invece, come mia madre, a comportarsi con me come se io non mi fossi annoiato. Pur fumando, cominciai pian piano a riflettere sulla mia situazione che evidentemente andava peggiorando ogni giorno un po’ di più; e mi domandai alla fine che cosa mi restasse da fare, ora che avevo rinunziato alla pittura e tuttavia non avevo avuto il coraggio di accettare il denaro di mia madre. Mi rendevo conto che c’era poco da fare nel senso di un’azione che introducesse qualche cambiamento veramente sostanziale; ma che potevo sempre fare quel che fanno molti quando si trovano in una situazione insostenibile: accettarla e adattarmi. In fondo, pensai, io ero simile al rampollo di una famiglia nobile ma decaduta che si ostini a voler vivere con lo stesso treno di vita fastoso dei suoi antenati. Il giorno che accetta la situazione che già gli sembrò insostenibile, e che, invece, è la situazione normale di una quantità sterminata di persone, egli cessa di soffrire e si accorge che tutto ciò che sembrava intollerabile ad un certo livello, non lo è più affatto ad un livello più basso. In realtà ciò che mi faceva soffrire non era tanto la noia quanto l’idea che io potessi o dovessi non annoiarmi. Cioè, appartenevo anch’io ad una famiglia molto nobile e molto antica che, in passato, non si era mai annoiata, ossia aveva sempre avuto rapporti diretti e concreti con la realtà. Io dovevo dimenticare questa famiglia; e accettare definitivamente la condizione in cui mi trovavo. Ma si poteva vivere nella noia, ossia vivere senza alcun rapporto con niente di reale, e non soffrirne? Qui stava tutto il problema.
Tra questi pensieri mi venne sonno e mi addormentai pesantemente, quasi con la sensazione di annegare piuttosto che di dormire. Feci un sogno molto chiaro: mi pareva di stare in piedi, di fronte al cavalletto, la tavolozza in una mano e il pennello nell’altra. Sul cavalletto è collocata la solita tela pulita; allato al cavalletto, fatto singolare perché io non dipingo più quadri figurativi da parecchi anni, sta, in piedi, una modella. È una giovane donna dal volto saggio e occhialuto che ricorda molto quello di Rita, e dal corpo curiosamente piatto e privo di volume sulla cui bianchezza esangue spiccano, in maniera mortuaria, le due macchie gemelle del seno, simili a due grossi soldoni scuri e il triangolo nero del pube. È inteso che io sto ritraendo la modella; e infatti la mia mano, armata di pennello, si muove, evidentemente dipingendola, sulla superficie invisibile della tela. Continuo a dipingere con cura, con concentrazione, con sicurezza; il quadro procede bene, la modella non fiata, non si muove, parrebbe davvero morta, non fosse lo scintillio degli occhiali e il sorriso forse ironico che le increspa le labbra. Alla fine, dopo una lunghissima seduta, il quadro è finito e io muovo qualche passo indietro per contemplarlo a mio agio. Sorpresa: la tela è vuota, bianca, pulita, nessun nudo femminile vi appare disegnato o dipinto, ho certamente lavorato ma non ho fatto nulla. Esterrefatto, afferro un tubetto qualsiasi di colore, sprizzo un getto sulla tavolozza, intingo il pennello, con furia mi scaglio di nuovo sulla tela. Niente, la tela rimane bianca; intanto la ragazza sorride sempre più beffardamente dei miei vani sforzi, pur conservando l’espressione ipocrita e saggia che le conferiscono i grossi occhiali cerchiati di tartaruga. Una mano si posa sulla mia spalla; Balestrieri in persona, un sorriso paterno sul volto rosso, mi toglie di mano il pennello e la tavolozza e si pianta davanti alla tela, voltandomi le spalle. È in canottiera sbracciata, Balestrieri, e in mutandine da bagno estive, una tenuta che mi ricorda Picasso col quale, improvvisamente, gli scopro qualche somiglianza. Adesso Balestrieri dipinge e io guardo alla nuca di Balestrieri, sulla quale piovono i capelli folti ed argentei e penso che Balestrieri sta dipingendo e che io, invece, non sono riuscito a dipingere. Il quadro di Balestrieri è finito; Balestrieri se ne è andato; e io sto davanti al quadro. Non so se sia bello o brutto, certo però è dipinto; la tela non è più bianca e vuota come quando io avevo finito di dipingere, bensì coperta di segni e di colori. D’improvviso, una rabbia grandissima mi sconvolge, afferro il solito coltellino di cui mi servo per raschiare i colori e colpisco la tela con violenza e metodicamente, cioè dall’alto in basso, in modo da tagliarla per tutta la sua altezza. Ma, orrore: non ho colpito la tela bensì il corpo della modella il quale, infatti, sanguina adesso per un gran numero di sottili ferite verticali che partono dal petto e scendono fino alle gambe. Il sangue spiccia dalle ferite, rosso e abbondante, si formano rivoletti secondari che si congiungono, ora tutto il corpo della fanciulla che, purtuttavia, continua a sorridere, è ricoperto da una rete sanguigna e io continuo a colpire, con violenza, con metodo; finché, con un grido inarticolato di angoscia, mi desto.
Era una giornata rannuvolata e lo studio stava immerso in una luce bassa, grigia e triste. Saltai su dal divano e, come se avessi saputo quel che facevo, mi precipitai alla porta, l’aprii e uscii nel corridoio. Era vuoto, con le quattro porte chiuse; o meglio, guardando con più attenzione, mi accorsi che quella dello studio di Balestrieri era accostata. Senza riflettere, continuando ad agire in maniera quasi automatica, andai a quella porta, la trovai, infatti, aperta, la spinsi ed entrai.
Non ero mai penetrato nello studio del vecchio pittore; così, adesso, mi parve di potermi illudere che fosse soltanto la curiosità a farmelo visitare. Le tende erano abbassate e lo studio era quasi al buio; una lampada dal paralume rosso montato su un piedistallo di legno scolpito e dorato, probabilmente un oggetto di chiesa, stava accesa su una tavola ricoperta di damasco purpureo. Alla luce sanguigna di questa lampada, potei rendermi conto che lo studio di Balestrieri era molto diverso dal mio. Intanto era più grande, con una scala che portava ad un ballatoio di legno sul quale davano due piccole porte. Inoltre, mentre il mio studio aveva l’aspetto di un vero studio di pittore, sommariamente ammobiliato e molto disordinato, lo studio di Balestrieri, come notai subito con un senso oscuro di ripugnanza, era invece arredato alla maniera antiquata di un salotto borghese di quaranta o cinquant’anni prima; e nessuno avrebbe potuto pensare che ci avesse abitato un pittore, se non ci fossero stati i famosi nudi appesi fittamente sulle pareti, dal pavimento fino al soffitto, e un cavalletto monumentale collocato in buona luce, con una tela incompiuta, presso il finestrone. Mi colpì soprattutto la tetraggine dei mobili, per lo più antichi o falsi antichi, di stile rinascimentale. Le pareti, sotto i quadri, erano tappezzate di damasco rosso; in terra, come alla rinfusa, gli uni sovrapposti agli altri, c’erano numerosi tappeti persiani, dai disegni scuri e fitti. Richiusi la porta dietro di me e, guardandomi intorno e aspirando a piene narici l’odore particolare, insieme mortuario e casalingo, che era per l’aria, mi avvicinai lentamente al cavalletto. La tela incompiuta non poteva essere che quella sulla quale Balestrieri stava ritraendo, poco prima di morire, la giovanissima amante; confesso che ora mi pungeva la curiosità di vedere come ella fosse fatta. Ma come fui davanti alla tela provai un senso di incredulità e di delusione. Balestrieri, infatti vi aveva abbozzato col carbone una immagine che mi riusciva molto difficile collegare con la fanciulla dal corpo gracile e dal volto infantile che mi aveva così spesso sorriso. Era uno dei soliti nudi eccessivi, ritratto per giunta in un atteggiamento sforzato, cioè accovacciato sulle gambe ripiegate ma con le mani congiunte dietro la nuca, in maniera da dare la massima evidenza al seno e ai fianchi, due parti del corpo femminile che Balestrieri pareva prediligere. Mi colpirono soprattutto l’ampiezza delle anche e la pesantezza del petto che non ricordavo di avere osservato nella modella. Invece, la vita snella e le spalle e le braccia gracili, avrebbero potuto essere le sue. Dimenticanza significativa, Balestrieri non si era curato di disegnare il volto; così che ogni identificazione, almeno per me, era impossibile.
Guardai a lungo la tela pensando che Balestrieri era veramente un pessimo pittore, anche secondo la remota tradizione naturalistica alla quale, in maniera molto vaga, si richiamava; quindi mi voltai verso lo studio e presi ad esaminare le tele appese alle pareti. Erano tutti nudi, come ho già accennato, tutti nudi femminili, ritratti per lo più in atteggiamenti innaturali e sforzati; e la prima cosa che mi venne in mente fu che Balestrieri, pur essendo un pessimo pittore, era tuttavia un pittore molto accurato, anzi minuzioso fino alla pedanteria. Si vedeva che non si fidava dell’ispirazione e lavorava un po’ come i maestri antichi, per velature successive, tornando più e più volte su certi particolari, fino a quando non fosse stato del tutto sicuro di averne esaurito le possibilità. Il risultato, ahimè, era il particolare naturalismo fotografico, leccato e rifinito, dei quadri che si vedono esposti nelle cosiddette mostre d’arte delle gallerie più commerciali. Ma era evidente, d’altra parte, che erano tutti quadri perfetti, sia pure della laida perfezione che è propria della pornografia. In altre parole il mondo di Balestrieri era un mondo concreto e coerente, senza incrinature né contaminazioni e poco importava se desse l’impressione della mania. Balestrieri, lui, in questo mondo ci si era trovato benissimo, sino alla morte, senza mai dubitarne né tentare di uscirne. Era stato forse una specie di pazzo, Balestrieri; ma un pazzo la cui pazzia consisteva nell’illusione di avere un rapporto con la realtà, ossia di essere savio, come testimoniavano le sue tele; mentre io, non potei fare a meno di dirmi, ero forse un savio la cui saggezza, però, consisteva nella profonda convinzione che un simile rapporto fosse impossibile, ossia un savio che si credeva pazzo.
Tra queste riflessioni, avevo fatto il giro delle pareti, guardando una per una le tele e non trovandone alcuna in cui fosse possibile riconoscere le fattezze della ragazza col volto di bambina. Mi dissi che doveva essere proprio così: Balestrieri non aveva mai dipinto la sua piccola amante, si era accontentato di amarla; proprio il contrario di quello che si sarebbe potuto supporre, data la sua età avanzata. Stavo per andarmene, quando un rumore che veniva dall’alto mi fece levare gli occhi. La ragazza di Balestrieri usciva proprio in quel momento da una delle due piccole porte che davano sul ballatoio e si avviava giù per la scala, senza fretta e evidentemente ignorando la mia presenza, gli occhi rivolti in basso, una mano sulla balaustra e l’altra alzata al petto a sorreggere un grosso involto.
Giunta ai piedi della scala, levò finalmente gli occhi e parve spaventarsi vedendomi ritto in piedi davanti a lei, presso la tavola che stava nel centro dello studio. Ma fu cosa di un attimo; subito dopo, sul suo volto rotondo, si diffuse una serenità placata, come se l’incontro non fosse per lei una sorpresa e anzi ci si fosse preparata da tempo. Dissi con imbarazzo: “Abito nello studio qui accanto, forse mi avrà visto qualche volta; ero entrato per dare un’occhiata ai quadri.”
Rispose indicando l’involto: “E io sono venuta a prendere la mia roba, prima che affittino lo studio. Ero la sua modella, lui mi aveva dato la chiave e così sono entrata.”
Notai che aveva una voce assolutamente priva di qualsiasi accento che permettesse di indovinare il luogo in cui era nata o la classe sociale alla quale apparteneva. Una voce incolore e neutra, di una esattezza ed economia di tono da dare quasi il senso della reticenza. Non sapendo che aggiungere, domandai a caso: “Lei veniva spesso a trovare Balestrieri?”
“Sì, quasi tutti i giorni.”
“Ma quando è morto?”
“Avant’ieri sera.”
“Lei era presente quando è morto?”
La vidi guardarmi un momento con i suoi grandi occhi oscuri che piuttosto che osservare gli oggetti parevano rifletterli senza vederli. “Si è sentito male mentre posavo per lui.”
“La stava dipingendo?”
“Sì.”
Non potei fare a meno di esclamare con sorpresa:
“Ma dov’è la tela su cui la dipingeva?”
Indicò il cavalletto: “Quella lì.”
Mi voltai, guardai di sfuggita la tela e poi, più a lungo, lei. Nella penombra che pareva disfarne e assorbirne i contorni, la sua figura pareva più che mai gracile e infantile, con la larga gonnella sospesa sulle gambe sottili, il busto esile e il pallido volto mangiato dagli occhi vasti e bui. Domandai incredulo: “Ma è proprio lei che ha posato per quel disegno?”
A sua volta, sembrò stupita del mio stupore: “Sì, perché? Non le piace come mi ha disegnato?”
“Non so se mi piaccia o no, ma certamente non le rassomiglia.”
“Non mi ha disegnato la testa perché la disegnava sempre per ultima. Come fa a sapere che non mi rassomiglia?”
“Voglio dire che il corpo disegnato da Balestrieri non sembra il suo.”
“Le pare? eppure è il mio.”
Sentivo tutta la futilità e falsità di questa discussione pseudo artistica, su un disegno come quello e per giunta su una questione di rassomiglianza. Ma pur vergognandomi, come di una tacita complicità che avrei dovuto rifiutare, non potei fare a meno di rispondere con vivacità: “Non è possibile, non posso crederci.”
“Le pare?” disse di nuovo, “eppure io sono fatta così.” Depose l’involto sulla tavola, andò al cavalletto, considerò per un momento la tela, quindi soggiunse voltandosi: “Forse c’è qualche esagerazione ma in fondo sono proprio così.”
Non so perché, vedendola dritta in piedi accanto alla tela, ricordai il mio sogno di quel pomeriggio. Domandai a caso: “Balestrieri le fece soltanto quel disegno oppure la ritrasse in qualche altra tela?”
“Oh, no, mi ha dipinto tante volte.” Levò gli occhi verso le pareti e incominciò a enumerare, indicando via via: “Quella sono io, e quella ancora, e quella lassù, e poi quella lì.” Soggiunse in maniera conclusiva: “Non la finiva mai di dipingermi. Mi teneva in posa per delle ore.”
Provai ad un tratto non so quale impulso di parlare male di Balestrieri; forse per strapparle qualche accento un po’ più personale e più partecipe. Dissi con crudeltà: “Molta fatica per un risultato assai scarso.”
“Perché?”
“Perché Balestrieri era un pessimo pittore, anzi non era pittore affatto.”
Non reagì in alcun modo; si limitò a dire: “Non m’intendo di pittura.”
Insistetti: “In realtà Balestrieri era soltanto un uomo a cui piacevano molto le donne.”
Approvò con convinzione: “Ah, questo sì.”
Intanto aveva ripreso il suo involto e mi guardava con aria interrogativa; come a dire: “ora debbo andare, perché non fai in modo di trattenermi?” Proposi con un’improvvisa dolcezza nella voce, che mi sorprese perché non l’avevo voluta né prevista: “Vuol venire un momento nel mio studio?”
La vidi illuminarsi di una pronta, ingenua speranza: “Vuole che posi per lei?”
Rimasi imbarazzato. Non avevo avuto l’intenzione di mentirle e ora lei, invece, mi proponeva una finzione che mi umiliava doppiamente, sia perché era una finzione, sia perché era proprio l’ultima finzione alla quale avrei ricorso: quella del pittore che invita la bella ragazza nel suo studio col pretesto di dipingerla; in una parola, una finzione degna di Balestrieri. Domandai, un po’ dispettosamente: “Anche Balestrieri, la prima volta, l’invitò nel suo studio con il pretesto di dipingerla?”
Rispose con serietà: “No, io andavo da lui per prendere lezioni di disegno. Poi lui volle dipingermi, ma più tardi.”
Così, per lei, la finzione del ritratto non era una finzione, era una cosa seria. Infatti soggiunse: “Ora non ho niente da fare. Se vuole, posso posare per lei fino all’ora di cena.”
Mi domandai se dovevo spiegarle che ero un pittore che non dipingeva più; e che, d’altra parte, quando aveva dipinto, non aveva mai dipinto quadri figurativi. Ma allora, pensai, avrei forse dovuto cercare un altro pretesto per invitarla nel mio studio, poiché pareva che avesse bisogno di un pretesto. Tanto valeva accettare quello del ritratto. Dissi, così, leggermente e vagamente: “Va bene, andiamo nel mio studio.”
“A quest’ora posavo sempre per Balestrieri,” mi informò sollevata e contenta, prendendo il suo involto dalla tavola: “Dipingeva tutti i giorni dalle quattro alle sette.”
“E la mattina?”
“Anche la mattina, dalle dieci all’una.”
Intanto c’eravamo avviati verso la porta. Mi rendevo conto che lei vedeva per l’ultima volta lo studio nel quale aveva passato tanta parte della sua vita e mi aspettavo, forse per pietà del vecchio pittore che l’aveva tanto amata, che dicesse qualche cosa o per lo meno si guardasse indietro. Ma si limitò a domandarmi, gettando un’occhiata alle pareti: “E adesso che è morto, che ne faranno dei quadri?”
Risposi con la solita crudeltà: “Magari cercheranno di venderli. Poi, vedendo che nessuno li vuole, li metteranno in qualche cantina.”
“In cantina?”
“Sì, li butteranno via.”
“Lui aveva una moglie da cui viveva separato. I quadri andranno a lei.”
“Ragione di più perché li butti via.”
Non disse niente, con indifferente reticenza. Adesso mi precedeva nel corridoio e così, vista di dietro, con quel grande involto tra le braccia e quel suo passo che pareva involontario e riluttante, mentre era, in realtà, potentemente e sensualmente deciso, dava quasi l’impressione di un semplice trasferimento di domicilio. Sì, lei passava dallo studio di Balestrieri al mio: ecco tutto. La raggiunsi, le spalancai la porta dicendole: “Come può vedere è uno studio molto diverso da quello di Balestrieri.”
Non mi rispose, come se, invece, non avesse trovato niente di diverso tra il mio studio e quello del suo vecchio amante. Andò semplicemente alla tavola, vi depose l’involto e quindi si voltò, domandando: “Il bagno dov’è?”
“Là, quella porta.”
La vidi avviarsi verso il bagno e poi scomparirvi. Andai al divano e diedi una rassettata ai cuscini sui quali avevo dormito quel pomeriggio; quindi presi a raccogliere le numerose cicche di sigarette che, fumando, avevo buttato in terra. Mentre facevo queste cose, pensavo alla ragazza, mi domandavo se mi piacesse e se avessi voglia di fare quello che lei si aspettava che facessi, e mi accorgevo che non provavo alcuna voglia. Mi dissi alla fine che l’avrei ancora interrogata su Balestrieri e i suoi rapporti con Balestrieri, che mi incuriosivano, e poi l’avrei mandata via.
Ero così tranquillo e così assorto nella consapevolezza di questa mia tranquillità, da dimenticare il pretesto della pittura che la ragazza mi aveva offerto e che io avevo distrattamente accettato. Così fui addirittura meravigliato quando l’uscio del bagno si aprì e la ragazza apparve sulla soglia. Era nuda, completamente; stringeva contro il petto con le due mani un asciugamano e camminava sulle punte dei piedi. Vedendola, non potei fare a meno di pensare che Balestrieri non aveva esagerato ritraendola con le fattezze formose che avevano destato la mia incredulità. Aveva infatti un seno magnifico, pieno solido e bruno, che però discordava e pareva, per così dire, quasi staccato dal busto il quale era, invece, quello gracile e magro di una adolescente. La vita era anch’essa quella di una fanciulla, incredibilmente snella e flessuosa; ma nei fianchi, compatti e forti, riappariva il carattere adulto che si notava nel seno. Camminava sospingendo in avanti il petto e tirando indietro il ventre, gli occhi fissi quasi cupidamente sul cavalletto che stava ritto presso il finestrone; come fu giunta di fronte alla tela, domandò senza voltarsi, con quella sua voce priva di espressione, secca e giusta: “Allora dove debbo mettermi?”
Mi domandai se ci fosse in lei qualche ipocrisia in quel momento, e dovetti subito convenire che non c’era. Aveva preso sul serio la sua parte di modella; anche se poi, forse, sospettava che non era che un pretesto per un altro genere di rapporti. Ma doveva esserci, come pensai, nella sua mente, quasi un’incapacità a collegare una cosa con l’altra; e questo le permetteva di essere sincera. Dissi tranquillamente: “Non si metta in alcun posto.”
Si voltò meravigliata: “Perché?”
Spiegai: “Mi dispiace, ma ho accettato il pretesto della pittura un po’ leggermente. In realtà non dipingo più da qualche tempo. E quando dipingevo, non dipingevo modelle o altri oggetti. Mi dispiace.”
Disse senza mostrarsi offesa, in tono neutro: “Ma lei mi aveva detto che voleva che venissi a posare.”
“Sì, è vero, sia come non detto.”
Lentamente, con l’aria di non dare importanza alla cosa, prese l’asciugamano che finora aveva stretto al petto e se lo gettò sulle spalle, avvolgendolo, poi, intorno al corpo. Quindi si avvicinò al divano, con aria timida e diffidente, come se io l’avessi invitata a sedervi mentre in realtà non avevo detto nulla; e si collocò ad una delle estremità, lontano da me. Ci fu un momento di silenzio; poi, ecco, su quelle sue labbra infantili, ecco affiorare il sorriso che era solita rivolgermi quando m’incontrava nel corridoio. Dissi impacciato: “Adesso lei penserà male di me.”
Scosse la testa in segno di diniego, senza parlare. Mi contemplava, con quel suo sguardo inespressivo, come se i suoi occhi fossero stati due scuri specchi che riflettevano la realtà senza capirla e, forse, anche senza vederla; ed io sentivo crescere il mio impaccio. Era chiaro che non voleva andarsene e che si aspettava da me la seconda parte, diciamo così, del programma. Alla ricerca di un argomento comune, mi tornò in mente, naturalmente, Balestrieri: “Quanto tempo era che conosceva Balestrieri?”
“Due anni.”
“Ma lei quanti anni ha?”
“Ne ho diciassette.”
“Mi racconti come aveva conosciuto Balestrieri.”
“Perché?”
“Così.” Ci pensai su un momento, poi soggiunsi, con sincerità: “Mi interessa.”
Disse lentamente: “Ho conosciuto Balestrieri due anni fa. In casa di una mia amica.”
“Chi era questa sua amica?”
“Una ragazza che si chiama Elisa.”
“Quanti anni ha Elisa?”
“Ha due anni più di me.”
“Che faceva Balestrieri in casa di Elisa?”
“Le dava lezioni di disegno, come a me.”
“Com’è questa Elisa?”
Disse sommariamente: “È bionda.”
Mi parve di ricordare una delle tante ragazze che avevo visto sfilare nel cortile. Domandai: “Bionda, con gli occhi celesti, il collo lungo, la faccia ovale, le labbra strette e carnose?”
“Sì, è lei. La conosce?”
“No, ma l’ho vista andare da Balestrieri qualche volta, poco prima che ci andasse lei. Elisa, le lezioni di disegno le prendeva a casa o allo studio?”
“A casa, e anche allo studio, dipendeva dai giorni.”
“Lei non mi ha detto che cosa avvenne quel giorno che incontrò Balestrieri in casa di Elisa.”
“Non avvenne niente.”
“Va bene, non avvenne niente. Ma poi alla fine Balestrieri diede lezioni di disegno anche a lei. Come fu che ci arrivò?”
Questa volta mi guardò e non disse niente. Insistetti: “Mi ha sentito?”
Si decise finalmente ad uscire dal silenzio. Domandò: “Ma lei perché vuol sapere queste cose?”
“Mettiamo che lei m’interessi,” dissi con la consapevolezza non tanto di mentire quanto di dire una menzogna, che, nel momento stesso in cui la dicevo diventava una verità.
Guardò in aria, come una scolara che stia per recitare la lezione di fronte ad un maestro esigente, quindi disse: “Rividi Balestrieri in casa di Elisa perché eravamo amiche e ci andavo spesso. Un giorno gli domandai di dare anche a me lezioni di disegno, ma lui disse che non poteva.”
Avevo sempre pensato che Balestrieri corresse dietro a tutte le donne in cui gli avveniva di imbattersi; ed ecco, invece, che aveva rifiutato il pretesto che la ragazza gli offriva. Domandai: “Perché crede che Balestrieri rifiutasse?”
“Non lo so, non aveva voglia.”
“Forse era innamorato di Elisa?”
“Non credo.”
“Allora perché non aveva voglia?”
Rispose in maniera definitiva: “Dapprima pensai che fosse stata Elisa a sconsigliarlo; poi mi accorsi che Elisa non sapeva niente. Non voleva, ecco tutto. Pensai che gli seccasse che venissi allo studio e gli proposi di darmi le lezioni a casa mia, ma rifiutò anche questa volta. Insomma non voleva.”
“Ma lei perché ci teneva tanto a che Balestrieri le desse le lezioni?”
Esitò e quindi la vidi arrossire nel volto pallido, in maniera ineguale, come a chiazze lievi e successive: “Mi ero innamorata di lui, o meglio, credevo di esserlo.”
“E lui non le dava retta, perché?”
“Non lo so.” Esitò di nuovo, quindi, come se fosse riuscita a vincere finalmente l’ultima ritrosia, parve sciogliersi in una parlantina meno reticente, benché pur sempre precisa ed economica: “Credo che non gli piacessi, ecco tutto. Andammo avanti così due o tre mesi in questo modo, e lui adesso addirittura mi evitava e io ne soffrivo. In quel tempo sono stata proprio innamorata di lui. Alla fine ricorsi ad un trucco.”
“Un trucco?”
“Sì. Un giorno che Elisa doveva andare da lui e io lo sapevo, invitai Elisa a colazione e le dissi che lui aveva telefonato per avvertirla di non venire più perché era occupato, e ci andai io.”
“Balestrieri come lo prese il suo trucco?”
“Dapprima voleva mandarmi via. Poi diventò più gentile.”
“Quel giorno faceste l’amore, eh?”
Arrossì di nuovo, nella stessa maniera graduale e ineguale, e accennò di sì col capo, senza parlare.
“E Elisa?”
“Elisa non lo seppe mai che io ero andata al suo posto. Ma lei e Balestrieri, poco dopo, si lasciarono.”
“È ancora amica di Elisa?”
“No, non ci vediamo più.”
Seguì il silenzio. Mi rendevo conto che le stavo facendo un interrogatorio quasi poliziesco, al quale lei, d’altronde, pareva sottomettersi di buon grado; e mi domandai che cosa veramente volessi sapere. Era chiaro che non mi interessavano tanto i fatti quanto qualche cosa che stava al di là dei fatti e ne costituiva il fondo e la giustificazione. Ma che era questo qualche cosa? Domandai bruscamente: “Lei perché si era innamorata di Balestrieri?”
“Che cosa vuol dire?”
“Voglio dire: perché proprio di Balestrieri, un uomo vecchio che avrebbe potuto essere il padre di suo padre?”
“Non c’è motivo per innamorarsi di una persona. Ci si innamora e basta.”
“Ci sono sempre dei motivi, per tutte le cose.”
Mi guardava e, stranamente, pareva adesso essersi fatta più vicina a me sul divano sul quale sedevamo entrambi. Oppure era un’illusione ottica dovuta all’interrogatorio che la rendeva via via sempre più nota e riconoscibile? Disse alla fine, a fior di labbra, chinandosi un po’ in avanti e guardandomi fissamente: “Provavo una grande attrazione per lui.”
“Che specie di attrazione?”
Non disse niente e si limitò a guardarmi. Insistetti: “Dunque?”
“Beh, posso dirglielo. Balestrieri rassomigliava un poco a mio padre, e quando io ero più giovane, avevo avuto una vera passione per mio padre.”
“Una passione?”
“Sì, me lo sognavo di notte.”
“Così lei s’innamorò di Balestrieri perché rassomigliava un poco a suo padre?”
“Sì, c’era anche questo.”
Ci fu di nuovo silenzio, poi ripresi: “Balestrieri, secondo lei, perché in principio, non voleva saperne di lei?”
“Gliel’ho già detto: non gli piacevo.”
“Dire che non gli piaceva non spiega niente. Sono tanti i motivi per cui non piace una persona.”
“Ci saranno stati. Ma io non li so.”
“Ma potrebbe indovinarli. Crede che Balestrieri non volesse saperne di lei perché lei era troppo giovane?”
“No, questo no.”
“Oppure perché provava per lei lo stesso sentimento che lei provava per lui, cioè la considerava un po’ come una figlia?”
“Non credo. Se no, me l’avrebbe detto.”
Tacqui un momento, riflettendo con intensità. Mi era chiaro ormai che interrogavo la ragazza su Balestrieri per sapere qualche cosa su di me: anch’io, infatti, avevo respinto sinora i suoi approcci e, anche di me, lei pareva innamorata. “Oppure non crede che Balestrieri avesse paura di conoscerla?”
“Paura, perché paura?”
“Paura perché prevedeva quello che infatti avvenne in seguito: cioè che si sarebbe innamorato di lei. L’amore qualche volta fa paura.”
Disse, in maniera sibillina: “A me non fa paura.”
Insistetti: “Lei non ha risposto alla mia domanda: Balestrieri l’evitava perché aveva paura?”
“No, non aveva paura. Anzi, a proposito, adesso ricordo che una volta mi disse: se tu non facevi quel trucco non ti avrei mai dato retta, non mi piacevi.” Tacque un momento e poi soggiunse: “Questo è tutto, di più non so.”
Compresi che non sarei venuto a capo di niente nella direzione che avevo sinora seguito; e cambiai bruscamente: “Ma in seguito lui si innamorò di lei, no?”
“Sì.”
“Molto?”
“Sì, molto.”
“Perché?” La vidi chinarsi in avanti e guardarmi. Adesso mi era proprio vicina. Non era più un’illusione ottica; le sue ginocchia toccavano le mie. Disse:
“Non lo so.”
“Ma non le parlava mai del suo amore?”
“Sì, ne parlava.”
“E che diceva?”
Parve riflettere e nello stesso tempo la vidi pencolare verso di me, quasi stesse per cascarmi addosso. O meglio, forse a causa di quella specie di cartoccio che le formava attorno al corpo l’asciugamani arrotolato, pareva un recipiente pieno che si inclinasse sempre più verso di me, come per darmi la possibilità di attingervi. Rispose alla fine:
“Non ricordo cosa diceva. Ricordo quello che faceva.”
“Che faceva?”
“Per esempio, piangeva.”
“Piangeva?”
“Sì, tutto ad un tratto si prendeva la testa fra le mani e cominciava a piangere.”
Pensai a Balestrieri come lo avevo sempre veduto: vecchio, sì, ma robusto, con le spalle larghe, le gambe ben piantate e la faccia rossa di vitalità sotto i capelli bianchi; e non potei fare a meno di restare sconcertato: “Perché piangeva?”
“Non lo so.”
“Non le diceva perché piangeva?”
“No, diceva soltanto che piangeva a causa mia.”
“Forse era geloso?”
“No, non era geloso.”
“Ma lei gli dava ragione di essere geloso?”
Mi guardò un momento in silenzio, come se non avesse capito, quindi rispose brevemente: “No.”
“Piangeva, così, in silenzio, senza parlare?”
“No, diceva sempre qualche cosa.”
“Allora, vede che parlava. E che diceva?”
“Per esempio diceva che non poteva fare a meno di me.”
“Ah dunque, c’era un motivo perché piangeva: avrebbe voluto fare a meno di lei e non poteva.”
Corresse con pedanteria: “No, diceva semplicemente che non poteva fare a meno di me. Non diceva mai che voleva fare a meno di me; anzi, al contrario, una volta che volli lasciarlo, tentò di uccidersi.”
Rimasi sorpreso dalla mancanza completa di diversità nel suo tono, sia che dicesse una cosa indifferente sia invece che mi rivelasse che Balestrieri aveva tentato di uccidersi a causa sua. Domandai: “Tentò di uccidersi? In che modo?”
“’Con quelle pillole che si prendono contro l’insonnia. Non ricordo come si chiamano.”
“I barbiturici.”
“Sì, ecco, i barbiturici.”
“Stette male?”
“Stette male un paio di giorni ma poi gli passò.”
“Soffriva d’insonnia, Balestrieri?”
“Sì, prendeva i barbiturici contro l’insonnia. C’erano delle notti che dormiva un’ora o due soltanto.”
“Perché?”
“Perché non dormiva? Non lo so.”
“Per causa sua?”
“Lui diceva che tutto quello che succedeva era per causa mia.”
“E non diceva altro, non spiegava perché lei era la causa di tutto?”
“Sì, adesso che ci penso, diceva che io ero la sua droga.”
“Un luogo comune, non le pare?”
“Che cosa vuol dire un luogo comune?”
“Una cosa poco originale, che tutti potrebbero dire.”
Ancora silenzio. Ripresi alla fine: “Ma perché lei era una droga per Balestrieri?”
Domandò a sua volta, lentamente: “Ma insomma perché lei mi fa tutte queste domande?”
Risposi con sincerità: “Perché c’è in tutta questa storia di lei e di Balestrieri qualcosa che mi incuriosisce.”
“Che cosa?”
“Non lo so. È per questo che le faccio delle domande. Per sapere perché le faccio.”
Non sorrise e mi guardò di nuovo con attenzione benché in maniera inespressiva, chinandosi verso di me, così che quasi mi pareva che l’odore caldo e semplice del suo corpo mi sfiorasse le narici. Spiegò alla fine: “Immagino che fossi una droga per Balestrieri, perché lui aveva sempre più bisogno di me. Anche lui lo diceva: la dose che mi bastava una volta, adesso non mi basta più.”
“In che senso aveva sempre bisogno di lei?”
“In tutti i sensi.”
“Nel senso di far l’amore?”
Mi guardò e non disse niente. Ripetei la domanda. Parve allora decidersi e rispose con precisione: “Sì, in questo senso.”
“Lo facevate molto spesso?”
“In principio soltanto una o due volte la settimana, poi un giorno sì e un giorno no, poi tutti i giorni, poi due volte al giorno. Alla fine non le ho più contate.”
“Perché?”
“L’avrebbe fatto continuamente,” adesso sembrava più a suo agio, “mi faceva posare, poi smetteva di dipingere e voleva far l’amore: così tutto il giorno.”
“Non era mai sazio?”
“Si stancava. Qualche volta si sentiva anche male. Ma non gli bastava mai.”
“E a lei piaceva tutto questo?”
Esitò, poi osservò: “A una donna non dispiace mai che un uomo mostri di amarla.”
“Ma lui l’amava veramente? O piuttosto aveva bisogno di lei per abitudine, per vizio, come, appunto, si ha bisogno di una droga?”
Rispose quasi con calore: “No, mi amava veramente.”
“Per esempio, come dimostrava di amarla?”
“Come si fa a dirlo? Sono cose che si sentono.”
“Nient’altro?”
“Beh, tanto per fare un esempio, voleva sposarmi.”
“Ma era già sposato, no?”
“Sì, ma diceva che avrebbe fatto in modo di ottenere il divorzio.”
“E lei avrebbe accettato?”
“No.”
“Perché non avrebbe accettato?”
“Non lo so, non mi andava di sposarlo.”
“Allora lei non lo amava?”
“Non l’ho mai amato.” Si fermò, come presa da scrupolo e poi soggiunse: “O meglio, forse l’ho amato nei primi tempi, appena lo conobbi.”
Ci fu un lungo silenzio. Mi stava adesso molto vicina, quasi incombente, con il busto piegato in avanti e gli occhi fissi su di me, dandomi un senso di squilibrio, per cui pensai di nuovo che era un recipiente, un bel vaso a due anse, snello e pettoruto, colmo di desiderio, che stesse per traboccarmi addosso e sommergermi. Dissi alla fine: “Le ho fatto un interrogatorio in piena regola, lei sarà un po’ stanca?”
Si affrettò a rispondere: “O no, non mi ha stancato affatto, anzi.”
“Anzi che cosa?”
“Anzi mi ha fatto piacere,” soggiunse dopo un momento. “Mi ha fatto pensare a tante cose a cui non penso mai.”
“Non pensa mai a Balestrieri?”
“No.”
“Neppure oggi che l’hanno portato via?”
“No, oggi meno degli altri giorni.”
“Perché meno degli altri giorni?”
Mi guardò e non disse niente. Ripetei: “Perché meno degli altri giorni?”
Rispose finalmente, con semplicità: “Perché oggi non ho fatto che pensare a lei. Ho seguito per un poco il funerale, da lontano, poi non ho più resistito e sono corsa allo studio. Mi era venuta la paura che avessero cambiato la serratura.”
“E allora?”
“Allora non avrei più avuto un pretesto per vederla.”
Finsi di non dare peso a questa dichiarazione e domandai: “Tuttavia Balestrieri è stato qualche cosa per lei?”
“Sì, certo.”
“Che cosa?”
Rifletté un momento e poi rispose: “Non lo so. È stato certamente qualche cosa, ma siccome non ci ho mai pensato, non so cosa sia stato.”
“Ci pensi ora.”
“Non posso pensarci. Non si può pensare apposta a qualcuno o a qualche cosa. O viene fatto di pensarci naturalmente oppure non ci si pensa.”
“In questo momento a che cosa penserebbe, come lei dice, naturalmente?”
“A lei.”
Tacqui un momento, accesi una sigaretta e poi dissi con deliberazione: “Beh, si rassicuri, ho finito di interrogarla e vengo al punto. Dunque, mentre Balestrieri non era gran che per lei o anzi, forse, niente, lei per Balestrieri era qualche cosa di molto reale, molto concreto. Qualche cosa di cui non poteva fare a meno, secondo le sue parole stesse, qualche cosa, insomma, ancora con le parole di Balestrieri, di simile ad una droga. Non è così?”
“Sì.”
“In altri termini, lei per Balestrieri era non soltanto qualche cosa di molto reale, ma anzi, addirittura, la sola realtà che contasse. Infatti, quando gli disse che voleva lasciarlo, lui tentò di uccidersi. E lo tentò appunto perché lei, andando via, gli sottraeva tutto quello che per lui era reale.”
Mi guardava con aria gentile e cortese ma per niente convinta; proprio come un bambino guarda la madre che gli fa la predica prima di dargli una chicca, e aspetta con pazienza che la predica di cui non gli importa nulla e che non comprende, sia finita, per potere impossessarsi del dolce. Disse tuttavia: “Sì, è vero, adesso che ci penso, ricordo che mi ripeteva spesso che io ero tutto per lui.”
“Lo vede? Insomma, Balestrieri, benché amante infelice e pessimo pittore, era in un certo modo abbastanza invidiabile.”
“Perché?”
“Perché poteva dire a qualcuno: tu sei tutto per me.”
Di nuovo tacque, come incerta sul significato delle mie parole, e comunque poco desiderosa di cercarlo: la chicca era quello che le premeva, non la predica. Ripresi: “E ora basta con Balestrieri, parliamo di noi due.”
Parve rallegrarsi, in una sua discretissima, quasi invisibile maniera, con un leggero movimento in avanti del volto, come per mostrare sollecitudine e attenzione, e un ancora più leggero spostamento dei fianchi sul divano, come per avvicinarsi ancora di più. “Sono tre o quattro mesi almeno,” dissi, “che noi ci incontriamo nel corridoio o nel cortile e, tutte le volte che ci incontriamo, lei mi guarda e mi sorride, in un certo modo, diciamo così, significativo. Non è così? Se non è vero, mi smentisca pure, vorrà dire che ho avuto un’impressione falsa.”
Non disse niente, limitandosi a guardarmi, come se aspettasse la fine del discorso, e quello che c’era in mezzo non l’interessasse. Proseguii: “Non risponde, arguisco dunque che non mi sono sbagliato. Quello, poi, che lei vuole da me mi pare abbastanza chiaro. Mi scusi, so che sono brutale: lei da quattro o cinque mesi vuol farmi capire che è disposta a fare con me quello che faceva con Balestrieri. Questo, almeno, è quanto ho capito. Di nuovo, se sbaglio, me lo dica.”
Ancora silenzio; il suo volto esprimeva adesso quasi una timida soddisfazione di essere stata capita così bene. Continuai: “Balestrieri le diceva che lei era tutto per lui. E la parola tutto, significava, a quanto pare, proprio tutto. Purtroppo, io mi trovo nel caso opposto: per Balestrieri lei era tutto; per me è niente.”
Mi fermai un momento guardandola e non potei fare a meno di ammirare la sua impassibilità. Disse con modestia, abbassando gli occhi: “Non ci conosciamo che da mezz’ora.”
Mi affrettai a spiegare: “Non vorrei essere frainteso. È impossibile, infatti, che lei sia tutto o anche qualche cosa per me, nel senso che di solito si dà a questa frase. Effettivamente, come lei mi ha fatto osservare, ci conosciamo da appena mezz’ora. No, qui si tratta di qualche cos’altro. Cerchi, per piacere di seguirmi, anche se queste spiegazioni non la interessano. Dunque: io le ho chiesto di venire qui allo studio con il pretesto di dipingerla, non è così?”
“Sì.”
“Era proprio un pretesto, cioè una bugia. A parte il fatto che da anni non dipingo più figure umane e oggetti riconoscibili, io le ho mentito perché non sono un pittore o meglio non lo sono più da qualche tempo. E non lo sono più perché non ho niente da dipingere ossia non ho rapporti con niente di reale.”
Rispose con ostinazione: “Ma non importa che lei mi faccia il ritratto.”
Non potei fare a meno di ridire: “Capisco, lei non vede il nesso tra il fatto che non dipingo più e la cosa che sembra starle tanto a cuore. Eppure c’è. Stia a sentire: ho detto che lei è niente per me, ma, ripeto, lei non deve attribuire a questa frase nessun significato sentimentale. In altri termini: lei si offre a me come si offre qualsiasi oggetto. Prendiamo un esempio materiale: quel bicchiere, là sulla tavola, non ha degli occhi belli come i suoi, né quel seno magnifico né quei fianchi rotondi, se accettassi la sua offerta non mi bacerebbe né abbraccerebbe, eppure si offre né più né meno di lei. Si offre, dico, senza pudore, senza riserve, senza malizia, senza calcoli, proprio come lei. E io debbo rifiutarlo, come rifiuto lei, perché, come lei, quel bicchiere è niente per me. Ho dato come esempio il bicchiere, ma potrei dire qualsiasi altro oggetto anche non avvertibile dai sensi.”
“Ma perché è niente?” Questo detto con voce bassa e timida, quasi più a favore del bicchiere che di se stessa. Risposi brevemente: “Spiegare questa cosa mi porterebbe un po’ lontano, e del resto sarebbe inutile. Diciamo così che quel bicchiere per me è niente perché non ho rapporti con esso, di nessun genere.”
Obiettò, parlando questa volta a favore di se stessa: “Ma si creano questi rapporti, non le pare? Continuamente ci accade di creare dei rapporti con delle persone che prima non conoscevamo neppure.”
Le domandai: “Vede quel quadro sul cavalletto?”
“Sì.”
“È una tela pulita, ossia sulla quale non ho dipinto nulla. Ebbene è la sola tela che possa firmare. Guardi.” Mi alzai, andai al cavalletto, presi una matita e scrissi la mia firma in un angolo della tela. Lei mi aveva seguito con lo sguardo mentre andavo al cavalletto e mi seguì mentre ne tornavo ma non disse niente. Ripresi, sedendomi di nuovo: “Così il solo rapporto che può esserci tra me e una donna è niente, cioè, appunto, quel rapporto che c’è stato sinora tra lei e me o meglio che non c’è stato. Non sono impotente, intendiamoci; ma in pratica è come se lo fossi e, comunque, lei faccia conto che io lo sia.”
Avevo parlato con tagliente risolutezza, per farle capire che non c’era più niente da dire. Ma come la vidi restare seduta, silenziosa e immobile, quasi avesse ancora aspettato qualche cosa, soggiunsi un po’ irritato: “Se non provo niente per lei, cioè non ho rapporti con lei, come potrei far l’amore? sarebbe un atto meccanico, esterno, del tutto inutile e del tutto noioso. Dunque...”
Non finii e la guardai in maniera significativa; come per dirle: dunque non ti resta che andartene. Questa volta, finalmente, parve capire, e, piano piano, con rincrescimento, con esitazione, con riluttanza e quasi, si sarebbe detto, con una superstite speranza che io la fermassi prendendola tra le mie braccia, incominciò ad alzarsi dal divano, restando, per così dire, seduta, cioè sollevando pian piano i fianchi e tenendo le gambe piegate e il busto eretto. Ma non la presi tra le mie braccia; e lei, alla fine, fu in piedi davanti a me. Disse con umiltà: “Mi scusi. Se però lei avrà bisogno di me come modella, può telefonarmi. Adesso le scrivo il mio numero di telefono.”
La vidi andare alla tavola, e, trattenendo con una mano l’asciugamani al petto, con l’altra scrivere qualche cosa su un pezzo di carta. “Non le ho ancora detto il mio nome: mi chiamo Cecilia Rinaldi. L’ho scritto qui, con la strada e il numero del telefono.”
Si rialzò e s’incamminò verso il bagno in punta di piedi. Pareva vestita da sera, con l’asciugamani che le lasciava nude le spalle e le braccia, le fasciava i fianchi e le faceva dietro come uno strascico. Scomparve chiudendo dietro di sé la porta, e, in questo gesto, l’asciugamani le scivolò di dosso, e io rividi per un attimo, tra l’uscio e il muro, il corpo che Balestrieri aveva dipinto tante volte e che sotto i vestiti non era possibile indovinare.
Strano a dirsi, appena fu scomparsa, presi a pensare proprio a Balestrieri. Ricordavo come il vecchio pittore l’avesse respinta ed evitata per mesi, con una specie di paura o presentimento quasi animalesco di ciò che ella era destinata ad essere per lui; e mi domandavo che cosa sarebbe avvenuto se, invece di cederle il giorno che lei s’era presentata al posto di Elisa, avesse continuato a resisterle. Con molta probabilità, Balestrieri sarebbe stato ancora vivo, poiché era fuori dubbio che la causa non troppo indiretta della sua morte era stato il suo amore per la ragazza. Ma perché allora non l’aveva respinta dal momento che aveva sentito fin da principio che avrebbe dovuto farlo? In altri termini, che cosa aveva portato Balestrieri ad accettare un destino, di cui, a quanto pareva, era stato, sia pure in maniera oscura, consapevole? E insomma: era possibile sottrarsi al proprio destino? E se no, a che cosa serviva sapere quello che si faceva? Possibile che non ci fosse alcuna differenza tra un destino accettato in stato di incoscienza e un altro vissuto con lucida consapevolezza?
Adesso, ripensando al primo suicidio di Balestrieri, suicidio causato dalla decisione di Cecilia di lasciarlo, mi pareva di capire che il vecchio pittore, portando poi avanti, fino alla fine, la sua relazione con Cecilia, aveva commesso con lucidità un altro e più riuscito suicidio. Così, in certo modo egli aveva tentato il primo suicidio perché, per un momento, gli era sembrato che Cecilia, lasciandolo, non gli permettesse di commettere il secondo.
Pur pensando queste cose, mi meravigliavo di pensarle; o meglio, di essere spinto a pensarle non già da oziosa curiosità bensì da uno sconcertante sentimento di affascinata attrazione, come se la storia di Balestrieri mi riguardasse e il destino del vecchio pittore fosse collegato col mio. Mi rendevo conto che se non fosse stato così, non avrei mosso tante domande a Cecilia. Magari avrei fatto l’amore con lei, una volta tanto, ma non l’avrei interrogata. Invece non avevo fatto l’amore ma l’avevo interrogata a lungo, con una curiosità insaziabile, che, in effetti, era rimasta insaziata. Come le avevo detto, l’avevo interrogata soprattutto per sapere perché l’interrogavo: sembrava un gioco di parole ma in realtà non lo era. Avevo così appreso molte cose; ma, dalla mia insoddisfazione, mi sembrava di capire che quella che mi premeva veramente, mi era sfuggita.
Ero così sprofondato in queste riflessioni, che non mi accorsi di Cecilia, la quale, intanto, era uscita dal bagno ed era venuta fino al divano. Trasalii alla sua voce che mi diceva: “Allora io la saluto.”
Mi alzai in piedi, a fatica, e le strinsi la mano balbettando meccanicamente: “Arrivederci.” Lei soggiunse a fior di labbra: “Non si disturbi ad accompagnarmi;” e per l’ultima volta ebbi la sensazione di quei suoi occhi grandi e oscuri che immobilmente mi contemplavano. La vidi prendere l’involto dalla tavola e avviarsi verso la porta, con una lentezza che non pareva calcolata, come se avesse sentito che era attaccata a me da un legame forte e tenace, e durasse fatica a muovere i passi nella direzione opposta. Mi colpì, soprattutto, l’ondeggiare leggero della gonna larga e corta e il conseguente dondolarsi grazioso del busto il quale sormontava la gonna come un cavaliere sormonta il cavallo. In questi due movimenti, quello rotante della gonna e quello sussultante del busto, c’era il richiamo d’una civetteria inconsapevole, e forse, per questo, tanto più potente e irresistibile. La seguii con lo sguardo finché non ebbe aperto la porta e fu scomparsa. Allora accesi una sigaretta e mi avvicinai al finestrone.
Il cortile era deserto, in una luce smorta e bassa che rivelava la giornata sciroccosa e l’ora crepuscolare. Si vedevano gli altri finestroni, di fronte, dei quali un paio già illuminati; i cespugli di acanto, di un verde quasi nero, torno torno le aiuole; il selciato, di una bianchezza opaca e calcinosa, Molti gatti, come il solito, erano sparsi su questo selciato, in un ordine misterioso che non pareva casuale: alcuni accoccolati, con le gambe ripiegate sotto il corpo, altri seduti con la coda avvolta intorno ai piedi, altri ancora lentamente e cautamente deambulanti, il naso a terra e la coda ritta; gatti pezzati di bianco e di nero, gatti grigi, gatti completamente bianchi o completamente neri, gatti striati, gatti fulvi. Presi a guardare i gatti con attenzione, lo facevo spesso, era una maniera come un’altra d’ingannare il tempo. Poi Cecilia comparve, col suo grosso involto sotto il braccio. Camminava piano e a testa bassa, tra i gatti che non si muovevano al suo passaggio. Come fu giunta sotto il mio finestrone, la vidi alzare gli occhi verso di me, ma senza sorridere questa volta. Levai una mano per togliermi la sigaretta dalla bocca, ma, invece, le feci un chiaro cenno di tornare indietro, indicando la direzione della porta per la quale si accedeva al corridoio. Accennò di sì con gli occhi e senza modificare il suo passo lento e trascinato, senza affrettarsi, come chi ha dimenticato qualche cosa ma sa che lo troverà senza fallo, tornò indietro. Tirai le tende della finestra e andai a sedermi sul divano.