Dopo quel giorno, Cecilia venne a trovarmi dapprima un paio di volte la settimana, poi un giorno sì e un giorno no, e, alla fine, dopo un mese che ci conoscevamo, quasi tutti i giorni. Le visite di Cecilia avevano luogo sempre alla stessa ora, duravano sempre lo stesso tempo e si svolgevano sempre allo stesso modo; così che descriverne una vorrà dire averle descritte tutte. Dunque Cecilia annunziava il suo arrivo con un solo colpo di campanello, così breve che mi lasciava spesso incerto di averlo udito davvero; ma era proprio questa incertezza che mi faceva capire che era lei. Andavo ad aprire e Cecilia mi gettava le braccia al collo e ci baciavamo. Vorrei dire a questo punto che Cecilia, così esperta nel rapporto sessuale, non sapeva baciare. Forse il bacio è un contatto, per così dire, simbolico, nel quale il piacere è più psicologico che sensuale e la psicologia, come si vedrà, non era il forte di Cecilia; o forse, più semplicemente, Cecilia non sapeva baciare me, cioè la nostra relazione non era di quelle che si esprimono col bacio. Certo che le labbra di Cecilia erano inerti, fredde e informi, come quelle di una bambina che abbia fatto una corsa, prendendo il vento in faccia, e abbracci in fretta suo padre. D’altra parte, proprio durante il bacio, si rivelava la doppia natura di Cecilia, insieme infantile e donnesca. Mentre, infatti, mi offriva la bocca priva così di slancio come di abbandono, che non sapeva aprirsi alla mia né penetrarci, al tempo stesso sentivo il suo corpo tendersi contro il mio, in arco convesso, e assestarmi con il pube un colpo duro e secco nel quale pareva annunziarsi la qualità esigente e inarticolata del suo amore. Questo primo bacio durava poco, perché io non ci provavo gusto e l’interrompevo quasi subito. Cecilia, allora, si svincolava da me, deponeva la borsa e i guanti sulla tavola, andava al finestrone, tirava i cordoni delle tende, e alla fine si svestiva, sempre nello stesso modo e nello stesso luogo, ossia tra il divano e una poltrona sulla quale disponeva i vestiti via via che se li toglieva.
Avevo conosciuto Cecilia in luglio, quando indossava la tenuta estiva che ho già descritto: una camicetta sbuffante e un’ampia e corta gonnella da ballerina; in seguito, con l’autunno, appena cominciò a far meno caldo, portò una maglia lunga e lenta di lana verde e una gonna nera, molto stretta, che le giungeva alle ginocchia. Per prima cosa, dunque, Cecilia si sfilava questa maglia per la testa, restando un momento con le braccia alzate e il capo nascosto e involtato, quindi, con gesto graduale ed energico, sempre lo stesso, si strappava la maglia e la gettava rovesciata sulla poltrona. Adesso era in gonnella, nuda fino alla cintola perché, noncurante del contatto ruvido della lana sulla pelle, non portava niente sotto. Diceva, quasi senza vanità, come constatando un fatto inoppugnabile, che il petto le stava su senza sostegni; ma io ho sempre pensato che lo facesse per un calcolo di civetteria, volendo apparire, o meglio esplodere, con il seno magnifico nel momento stesso in cui si sfilava la maglia. L’apparizione del seno non aboliva, del resto, il senso di immaturità che emanava da lei: pieno e fiorente, esso non sembrava appartenere al busto gracile dal quale si ergeva. Quest’impressione era soprattutto notevole allorché Cecilia si voltava: non vedevo allora che una schiena magra, bianca e ossuta di adolescente; e il seno che si affacciava tra il braccio e il costato, sotto l’ascella, pareva, così distaccato, fatto di una carne più calda, più bruna e più adulta del resto del corpo.
Dopo la maglia, Cecilia si girava un poco sul fianco, e riunendo le mani alla vita, sganciava e abbassava la chiusura lampo. La gonna cadeva e lei, con gesto impaziente, simile a quello con il quale si strappava la maglia dalla testa, la calpestava un paio di volte con i piedi prima di raccoglierla e deporla sulla poltrona. Adesso era completamente nuda; o meglio portava ancora indosso quelle che chiamerei le bardature più intime: il reggicalze sui fianchi, il velo triangolare dello slip sul ventre, le calze sulle gambe. Queste bardature, però, erano ormai tutte sconvolte e sbilenche, come se Cecilia, spogliandosi, avesse tolto loro qualsiasi funzionalità: il velo dello slip appariva gualcito e arrotolato, il reggicalze aveva due delle quattro giarrettiere staccate e pendeva da una parte, obliquo; delle calze una stava su e l’altra ciondolava sotto il ginocchio. Era un disordine donnesco e bellicoso; il quale discordava curiosamente con l’innocenza infantile e inespressiva del volto. Veramente, Cecilia pareva sempre duplice, ossia donna e bambina nello stesso tempo; e non soltanto nel corpo ma anche nell’espressione e nei gesti.
Questa duplicità trovava soprattutto espressione nel contrasto tra la parte superiore del suo corpo e quella inferiore. Ci sono differenze di peso che appaiono allo sguardo prima ancora di controllarle con le mani. Un oggetto di piombo, per esempio, appare senza dubbio, agli occhi di chi lo osserva, più pesante di altro oggetto di dimensioni uguali fatto di una materia più leggera. Ora, dalla cintola in giù, il corpo di Cecilia pareva avere appunto la consistenza delle cose che sono fatte di una materia molto densa e molto pesante. Come era forte, per esempio, l’attaccatura delle gambe all’inguine in confronto con quella delle braccia alle ascelle; quanto diverse dalla magrezza delicata del busto, l’insellatura vigorosa delle reni, la ridondanza muscolosa dei lombi, la compattezza massiccia delle cosce. Adolescente dalla vita in su, donna dalla vita in giù, Cecilia suggeriva un po’ l’idea di quei mostri decorativi che sono dipinti negli affreschi antichi: specie di sfingi o arpie, dal busto impubere innestato, con effetto grottesco, in un ventre e due gambe possenti.
La maniera con la quale Cecilia si comportava nell’amore rispecchiava anch’essa il contrasto fra le sue due nature, l’una infantile e l’altra donnesca. Più volte ho riflettuto su questa maniera; e ho concluso che Cecilia non aveva sentimento e, forse, neppure vera sensualità, ma soltanto un appetito del sesso di cui lei stessa non era del tutto consapevole pur subendone passivamente l’urgenza. Tra le mie braccia, lei si poneva nella posizione del bambino che apra, ubbidiente, la bocca al cucchiaio che la madre gli porge: soltanto che in lei la bocca era il sesso e l’imboccata le veniva dal suo amante. La poetica e infantile fragilità del volto pallido e rotondo era in costante contrasto con la durezza, esigenza e avidità con la quale lei travagliava se stessa e me, allo scopo, a quanto pareva, di farmi giungere all’orgasmo e di goderne a sua volta sino all’ultimo spasimo. I movimenti del ventre che, via via che l’amplesso acquistava ritmo e forza, si facevano sempre più frequenti, avevano la potenza e la regolarità d’un meccanismo ormai scatenato che non dipendesse né da me né da lei di fermare. In principio languidi, appena percettibili e come oziosi, alla fine sembravano davvero quelli di uno stantuffo che s’alzi e s’abbassi con forza automatica e infaticabile. Intanto, però, il volto giaceva inerte, disteso, calmo, senza curiosità e senza passione, più infantile che mai con le sue grandi palpebre abbassate e la sua piccola bocca semiaperta; e appena un leggero rossore al sommo delle guance stava a indicare che Cecilia non dormiva ma era desta e presente alle proprie sensazioni.
Questa specie di dissociazione dell’animo di Cecilia durante l’amore si notava soprattutto nei momenti in cui, scuotendosi improvvisamente, e, in apparenza, senza motivo, dalla passività avida e meccanica che ho or ora descritto, lei contraccambiava le mie carezze. L’amore, diciamo così, procreativo, è sempre casto; quasi mai caste sono invece le tecniche amatorie con le quali gli amanti procurano di eccitarsi a vicenda. Ma la maniera con la quale Cecilia si adoperava sul mio corpo era assolutamente casta appunto perché curiosamente automatica e inconsapevole. Cecilia, tutto ad un tratto, nel bel mezzo di un abbraccio, saltava su a sedere e si chinava con la bocca sul mio ventre come se brucasse; ma questo impulso improvviso aveva qualche cosa di sonnambulico, quasi che Cecilia vi si fosse abbandonata in sogno, cioè, appunto, in una condizione del tutto incosciente. Poi, dopo essersi sfogata, o meglio, dopo avere scrupolosamente esaurito tutte le possibilità della carezza, Cecilia si gettava di nuovo tra le mie braccia, con gli occhi chiusi e la bocca semiaperta, e allora, una volta di più, avevo la sensazione strana di aver veduto una dormiente fare nel sonno gesti privi di senso e quindi, sempre senza destarsi, rimettersi a dormire di nuovo.
Dopo l’orgasmo che le scuoteva più volte il corpo come una piccola crisi epilettica ma non turbava l’immobilità apatica del volto, Cecilia giaceva esausta sotto di me, un braccio ripiegato intorno alla testa e l’altro abbandonato sul divano, il volto reclinato verso la spalla e le gambe allargate, come erano rimaste dopo l’amplesso. Per un attimo, quasi immediatamente dopo che io ero uscito da lei, Cecilia mi sorrideva ed era forse questo il momento più bello del nostro amore. Il sorriso, assai dolce, nel quale pareva rifluire e spegnersi la dolcezza del desiderio appagato, non contraddiceva, però, l’infantile ambiguità che ho già notato: pur sorridendomi, Cecilia non mi guardava o meglio non pareva neppure vedermi; così che pareva sorridere non tanto a me quanto a se stessa; come se fosse stata piuttosto grata a se stessa per aver provato il piacere, che a me per averglielo fatto provare. Questo sorriso, per quanto impersonale e solitario, era, tuttavia, l’ultima fase dell’amplesso ossia della comunicazione e quasi fusione dei nostri due corpi. Subito dopo eravamo in due sul divano, l’uno separato dall’altro, e bisognava parlare.
A questo punto mi accorgevo, però, che all’appetito erotico, il quale, anche se non pareva riguardarmi direttamente, si serviva tuttavia di me per appagarsi, subentrava in lei l’indifferenza. Ma quando dico indifferenza non voglio già designare un atteggiamento di freddezza o di distacco. No, l’indifferenza di Cecilia verso di me, subito dopo l’amore, era semplicemente una mancanza completa di rapporti molto simile a quella che mi faceva tanto soffrire e che io chiamavo noia; soltanto che Cecilia, al contrario di me, non soltanto non ne soffriva affatto, ma anche non pareva neppure esserne consapevole. Era, insomma, come se lei fosse nata con quel distacco dalle cose che a me pareva l’intollerabile modificazione di una condizione originaria ben diversa; come se ciò che a me sembrava una specie di malattia, in lei fosse un fatto sano e normale.
Eppure, come ho detto, bisognava parlare. L’intimità recente dell’amore fisico mi ispirava il desiderio di un’altra e più vera intimità degli affetti la quale, come sapevo, non si poteva ottenere che attraverso la parola. Così cercavo di discorrere con lei; o meglio, poiché Cecilia non conduceva mai la conversazione e si limitava a rispondere alle domande, l’interrogavo su lei stessa e la sua vita. Venni così a sapere che era figlia unica, che abitava in un appartamento ai Prati insieme coi genitori, che il padre era commerciante, che era stata educata dalle suore, che aveva qualche amica, che non era fidanzata, e altre poche cose simili. Dette in questo modo, sembreranno informazioni sommarie, che si potrebbero fornire su qualsiasi ragazza dell’età e delle condizioni di Cecilia; ma furono realmente le sole che riuscii ad ottenere e ancora molto a fatica. Cecilia non pareva certo volermi nascondere nulla; semmai pareva ignorare gran parte delle cose che le chiedevo o per lo meno essere incapace di descriverle e definirle nei particolari. Si sarebbe detto che lei non s’era mai fermata a guardarsi intorno, a osservare se stessa e il proprio mondo, così che, rivolgendole le domande, io la mettevo un poco nella situazione di chi sia interrogata su cose e persone sulle quali non ha mai fermato l’attenzione. C’è un gioco che consiste nel mostrare a qualcuno, per la durata di un minuto, una illustrazione; e quindi chiedergli di nominare tutti gli oggetti che vi sono rappresentati. In questo gioco che mette alla prova la facoltà di osservazione, Cecilia certamente avrebbe riportato il punto più basso; perché non pareva mai aver visto né osservato niente, pur essendo vissuta non già un minuto, ma anni, di fronte all’illustrazione della propria vita. Le sue informazioni, d’altro canto, non erano soltanto schematiche ma anche imprecise; quasi che quelle poche cose, figlia unica, i genitori, il padre commerciante, l’educazione dalle suore, le amiche, fossero per lei non del tutto sicure, come non lo è tutto ciò che non ha mai destato la nostra curiosità pur essendo a portata di mano e facilmente osservabile. E anche quando le avveniva di dare una risposta esatta, mi lasciava egualmente nel dubbio con il suo linguaggio freddo, generico e scolorito che sembrava essere il frutto di una disattenzione invincibile.
Così, alla fine, poiché la famiglia e l’ambiente di Cecilia non mi interessavano troppo, ricadevo per forza su Balestrieri, che, come ho già notato, sentivo collegato in una maniera oscura a me e ai miei rapporti con Cecilia. Del resto, anche parlando di Balestrieri, non si modificava il laconismo di Cecilia; ma questo non mi scoraggiava, al contrario; la sua reticenza sul vecchio pittore, mi ispirava un appassionato desiderio di saperne di più, sempre di più. In realtà, interrogandola sul suo passato e su Balestrieri, mi pareva, come mi accorsi ben presto, di interrogarla sul suo futuro e su di me.
Erano intanto già passati due mesi dal giorno che Cecilia era entrata per la prima volta nel mio studio, e adesso cominciavo a meravigliarmi che Balestrieri avesse potuto nutrire per lei una passione così violenta; e che, insomma. Cecilia avesse potuto rappresentare con lui la parte della donna fatale, dando a queste due parole tutto il senso di funesta predestinazione che dovrebbero avere e normalmente non hanno. Stentavo a crederlo, perché, a parte le sue notevoli capacità amatorie, che, però, aveva in comune con tante altre ragazze della sua età, Cecilia mi sembrava insignificante in sommo grado e perciò incapace di suscitare una passione così distruttiva come quella di Balestrieri. La spia a questo suo carattere privo di interesse e di appigli per provarne, la faceva, come ho già accennato, il suo linguaggio scolorito e sommario. Più volte ho riflettuto sulla qualità spirituale che traspariva da questo linguaggio e sono venuto alla conclusione che esso rivelava una grande semplicità. Ma non la semplicità del senso comune che ha sempre qualche cosa di schietto; bensì la semplicità torbida, enigmatica e insufficiente di quella specie di amputazione psicologica che è la reticenza, sia pure essa inconsapevole e involontaria. Cecilia dava continuamente l’impressione non tanto di mentire quanto di non essere capace di dire la verità; e questo non perché fosse bugiarda ma perché dire la verità sarebbe stato già avere un rapporto con qualche cosa e lei non pareva aver rapporti con niente. A tal punto che, quando mentiva davvero (e si vedrà che era capacissima di farlo), si riportava quasi l’impressione che, sia pure in maniera negativa, Cecilia dicesse qualche cosa di vero, appunto a causa di quel tanto di partecipazione, ossia di verità che comporta qualsiasi menzogna.
Come aveva fatto, dunque, Balestrieri a innamorarsi così perdutamente di lei? O meglio, che cosa era avvenuto tra di loro perché questo carattere così insignificante di Cecilia diventasse, forse appunto perché tale, un motivo di passione? Io sapevo che non è possibile dare un giudizio sugli amori altrui; ma, infine, io avevo sostituito Balestrieri nella vita di Cecilia; avevo, cioè, preso anch’io la droga di cui parlava Balestrieri riferendosi a Cecilia; e non potevo fare a meno di meravigliarmi continuamente, con un senso di superstite diffidenza, come per un pericolo annunciato e che tardi a manifestarsi, del fatto che la droga stessa non mi facesse alcun effetto.
Così interrogavo Cecilia a lungo e, per così dire, a tastoni; senza sapere io stesso esattamente quello che avrei voluto apprendere da lei. Ecco un esempio di queste conversazioni: “Dimmi, Balestrieri non ti disse mai perché ti amava?”
“Uffa, ecco la solita domanda. Sempre Balestrieri.”
“Scusami, ma debbo assolutamente sapere...”
“Che cosa?”
“Non lo so che cosa. Qualche cosa che riguarda Balestrieri e te. Dimmi, allora: ti disse mai perché ti amava?”
“No, mi amava e basta.”
“Non mi sono spiegato bene. L’amore non ha motivo, è vero, si ama e basta; ma la qualità dell’amore, sì che lo ha. Si ama senza motivo; ma se si ama con tristezza o con gioia, con tranquillità o con inquietudine, con gelosia o con fiducia, c’è sempre dietro qualche motivo. Balestrieri, lui ti amava con un sentimento, come dire? maniaco. Tu stessa me l’hai fatto capire. Per lui tu eri un vizio, una droga, qualche cosa di cui non si può fare a meno, sono le sue stesse parole. Dunque perché questa mania?”
“Non lo so.”
“Tu non sei una donna che possa ispirare una passione di questo genere, almeno così mi sembra.”
“Sembra anche a me.” Questo detto senza ombra di dispetto o d’ironia, con umiltà e sincerità.
“Se debbo dirti tutto quello che penso, adesso che ti conosco meglio, proprio non riesco a capire Balestrieri e la sua passione. Se non proprio deluso, sono sorpreso. Dopo quello che mi avevi detto dei tuoi rapporti con Balestrieri, immaginavo che tu fossi una donna terribile, di quelle che possono rovinare un uomo. Invece mi sembri una ragazza molto normale. Saresti, ne sono sicuro, un’ottima moglie.”
“Ti pare?”
“Sì, dai questa impressione.”
“Anch’io lo penso, in fondo.”
“Allora a che cosa attribuisci la passione, o meglio il genere di passione di Balestrieri per te?”
“Non lo so.”
“Cerca di pensarci su un momento.”
“Non lo so veramente. Si vede che lui era fatto in quel modo.”
“E cioè?”
“Che non poteva amare che in quella maniera.”
“Non è vero. Per anni ho visto Balestrieri cambiare continuamente di donne. Soltanto con te è successo quello che è successo.”
Lungo silenzio, quindi con sincerità e buona volontà: “Tu fammi una domanda precisa, e io ti risponderò.”
“Che cosa intendi per una domanda precisa?”
“Su una cosa fisica, una cosa materiale. Tu mi fai sempre delle domande sui sentimenti, su quello che la gente pensa e non pensa, e io non so che cosa rispondere.”
“Una cosa materiale? Ebbene, dimmi: Balestrieri sapeva, secondo te, che i suoi rapporti con te gli facevano male alla salute?”
“Sì, lo sapeva.”
“Che diceva?”
“Diceva: una volta o l’altra ci lascio la pelle. Io gli dicevo allora che doveva fare attenzione, ma lui rispondeva che non gli importava.”
“Non gli importava?”
“No.” Quindi, con aria vaga e come ricordando con sforzo: “Anzi, adesso che ci penso, ricordo un giorno che facevamo l’amore e mi disse: continua, continua, continua, vorrei che tu continuassi senza tenere conto di me, anche se protesto, anche se mi sento male, e mi facessi morire, ma davvero morire.”
“E tu?”
“Allora non diedi peso a queste parole. Ne diceva tante. Ma tu mi ci hai fatto pensare.”
“Così credi che ti amasse perché lo facevi morire, ossia perché eri per lui un mezzo di cui si serviva per uccidersi?”
“Non lo so. Non ci ho mai pensato.”
Così io mi avvicinavo continuamente alla verità, o almeno mi pareva di avvicinarmi. Ma tuttavia restavo sempre scontento. L’idea che Cecilia fosse una ragazza qualsiasi come ce ne sono tante e che Balestrieri avesse visto in lei quello che non c’era e ne fosse morto, questa idea riduttiva era abbastanza tentante; oltre tutto spiegava anche perché io, al contrario di Balestrieri, non riuscissi a provare per Cecilia che una semplice attrazione fisica. Tuttavia, non sapevo neppure io perché, questa spiegazione mi lasciava insoddisfatto. Come se spiegando tutto, non spiegasse niente; e comunque lasciasse insoluta la questione di Cecilia, ossia del contrasto tra la sua effettiva semplicità e mancanza di interesse e la passione che aveva saputo ispirare.
Intanto, però, mi accorgevo che cominciavo ad annoiarmi con Cecilia, ossia a sentirmi di nuovo nella condizione di estraneità e di distacco in cui mi trovavo alla vigilia di conoscerla. Dire che mi annoiavo con Cecilia potrebbe forse indurre a pensare che Cecilia non mi divertisse, cioè fosse noiosa. Ma come ho già detto altrove, non si trattava di noia nel senso attribuito normalmente a questa parola. In realtà non era Cecilia che era noiosa, ero io che mi annoiavo, pur riconoscendo in cuor mio che avrei potuto benissimo non annoiarmi se, per qualche miracolo, fossi riuscito a rendere più reale il mio rapporto con lei che sentivo, invece, allentarsi e vanificarsi ogni giorno di più.
Mi accorgevo di questa modificazione del nostro rapporto soprattutto per il modo diverso con il quale avevo considerato in principio e adesso consideravo l’amore fisico che era, pure, il solo possibile tra me e Cecilia. In principio, dunque, esso era stato qualche cosa di molto naturale, in quanto mi era sembrato che in esso la natura superasse se stessa e diventasse umana e anche più che umana; adesso, invece, esso mi colpiva soprattutto per la sua mancanza di naturalezza, come un atto in certo modo contro natura, cioè artificioso e assurdo. Camminare, sedere, stare distesi, salire e scendere e insomma tutti i modi di azione del corpo mi parevano, adesso, avere una loro necessità, e dunque naturalezza; ma accoppiarsi mi sembrava, invece, una sforzatura stravagante per la quale il corpo umano non era fatto e alla quale non poteva adattarsi senza sforzo e fatica. Tutto, pensavo, si poteva fare agevolmente, con grazia e armonia, tutto fuorché accoppiarsi. La conformazione stessa dei due sessi, di difficile accesso quello femminile, incapace quello maschile di dirigersi verso il suo scopo in maniera autonoma come il braccio o la gamba e bisognoso, invece, di essere aiutato da tutto il corpo, mi pareva indicativa dell’assurdità del connubio. Da questa sensazione dell’assurdità del rapporto fisico, a quella dell’assurdità di Cecilia medesima, non c’era che un passo. Così la noia, al solito, distruggeva dapprima il mio rapporto con le cose e poi le cose stesse, vanificandole e rendendole incomprensibili. Ma il fatto nuovo, questa volta, era che di fronte a Cecilia ridotta ad oggetto assurdo, la noia, forse a causa dell’abitudine sessuale che avevo contratto e che non ritenevo, almeno per ora, di dovere interrompere, non si limitava a ispirarmi freddezza e indifferenza bensì oltrepassava questi sentimenti o meglio questa mancanza di sentimenti e si trasformava in crudeltà.
Cecilia, però, non era un bicchiere bensì una persona; o meglio, benché nel momento in cui mi annoiavo con lei essa cessasse di esistere come qualsiasi altro oggetto, pur tuttavia io sapevo con la mente che era una persona. Ora, come il bicchiere, allorché la noia me lo faceva apparire incomprensibile e assurdo, mi ispirava talvolta un violento desiderio di afferrarlo, sbatterlo e ridurlo in frantumi al fine di ottenere una conferma della sua effettiva esistenza attraverso la sua distruzione, così, a maggior ragione, quando mi annoiavo con Cecilia, mi veniva l’impulso se non proprio di distruggerla, per lo meno di tormentarla e farla soffrire. Tormentandola e facendola soffrire, infatti, mi pareva che sarei arrivato a ristabilire i rapporti interrotti dalla noia; e poco importava che ci fossi riuscito attraverso la crudeltà invece che attraverso l’amore. Ricordo benissimo come si manifestò per la prima volta questa crudeltà. Un pomeriggio, Cecilia, dopo essersi spogliata, si stava avvicinando al divano dove io l’aspettavo, disteso e anch’io spogliato, gli occhi rivolti verso di lei. Cecilia, che camminava in punta di piedi portando in avanti il petto e tenendo un po’ indietro il busto e i fianchi, aveva sul volto l’espressione sospesa, impacciata e solenne di chi si accinga ad un’azione ben nota, compiuta male e molte volte e tuttavia, forse appunto per questo, sempre nuova, come quella di un rito. Io la guardavo venire e pensavo che non soltanto non la desideravo (benché poi sapessi che, sia pure in maniera meccanica, sarei arrivato ad un grado di eccitazione sufficiente per congiungermi con lei) ma anche non riuscivo a sentirla come qualche cosa che fosse in un rapporto qualsiasi con me. Ora, mentre pensavo queste cose e lei era ormai giunta presso il divano e stava appoggiandovi un ginocchio per salirvi, notai ad un tratto che il finestrone era rimasto con le tende socchiuse. La luce bianca della giornata sciroccale mi dava fastidio; inoltre, dall’altra parte del cortile, c’erano delle finestre dalle quali, se si voleva, si poteva guardare nello studio. Dissi, così, casualmente: “Guarda, ti prego, va’ a chiudere le tende.”
“Ah, le tende,” disse lei; ubbidiente, al solito, mi voltò la schiena e sempre camminando in punta di piedi, andò alla finestra. Allora, mentre la guardavo che portava attraverso lo studio la strana e significativa conformazione del suo corpo per metà adolescente e per metà donnesco, mi venne ad un tratto, per la prima volta da quando la conoscevo, un impulso di crudeltà. Era un impulso che mi riportava indietro nel tempo, agli anni dell’infanzia, alla sola occasione della mia vita in cui ero stato consapevolmente crudele. In quegli anni possedevo un grosso gatto soriano a cui ero molto affezionato ma col quale, spesso, mi avveniva di annoiarmi, soprattutto quando avevo esaurito quei pochi giochi e prove di intelligenza di cui la bestiola era capace. La noia, alla fine, mi ispirò un senso di crudeltà e questo, a sua volta, il gioco seguente. Mettevo in un piatto una piccola quantità di pesciolini crudi di cui sapevo che il gatto era molto ghiotto e collocavo il piatto in un angolo della stanza. Poi andavo a prendere il gatto e, dopo avergli fatto odorare il pesce, lo portavo nell’angolo opposto e lo lasciavo andare. Il gatto si slanciava subito in direzione del piatto, con un’espressione di gioia e di avidità per tutto il corpo, dalla punta della coda alla punta del naso; ma, appena nella sua corsa egli aveva raggiunto il centro della stanza, io ero pronto ad afferrarlo fulmineamente per il collo e a riportarlo al punto di partenza. Ripetei questo gioco, se così posso chiamarlo, più e più volte, e ogni volta il gatto si accorgeva un po’ di più di essere vittima di una misteriosa disdetta e modificava di conseguenza il suo atteggiamento. Nei primi balzi era stato violento, avido, sicuro di sé; poi si fece più guardingo, quasi sperando con lo schiacciare il corpo a terra e muovere con cautela le zampe di sfuggire alla mia sorveglianza e, forse, addirittura, di rendersi invisibile; alla fine, il povero micio si limitò ad accennare un leggero movimento in avanti in direzione del piatto: un tentativo insieme furbo e triste di accertarsi senza troppa fatica della persistenza della mia crudele volontà. Quindi, improvvisamente tutto cambiò: il gatto parlò. Voglio dire che, volgendo indietro il capo e guardandomi negli occhi, emise un lungo e molto espressivo miagolio, al tempo stesso patetico e ragionevole, che pareva dire: “Perché fai questo? Perché mi fai questo?” Il miagolio, così esplicito e così eloquente, ebbe il potere di farmi istantaneamente vergognare. Mi pare di ricordare che persino arrossii. Presi il micio in braccio, lo portai io stesso al piatto e ce lo lasciai a mangiare in pace i suoi pesciolini.
Ora, vedendo Cecilia avviarsi docilmente, in punta di piedi, verso il finestrone, mi venne in mente di rifare con lei il gioco crudele che avevo fatto col gatto. Anche lei si era avvicinata al divano per soddisfare il suo appetito; anche lei, come il gatto, aveva espresso in quel momento, con tutta la sua persona, dalla testa ai piedi, quest’appetito così naturale e così legittimo. Ora io avrei giocato con lei come avevo giocato col gatto; ma questa volta sarei stato del tutto consapevole del vero movente del gioco, che era la volontà di ristabilire, attraverso la crudeltà, il rapporto con le cose interrotto dalla noia.
Intanto Cecilia era andata al finestrone, aveva tirato le tende e ora tornava di nuovo verso il divano. Sul suo viso che, per un momento, aveva avuto l’espressione diligente della servetta, sia pure nuda, che esegua un ordine del padrone, adesso era tornata la primitiva aria di rituale, compunta, sospesa preparazione all’amore. Sempre camminando sulle punte dei piedi, girò intorno al cavalletto, attraversò lo studio, giunse al divano e fece per salirvi. Ma la fermai dicendo: “Scusami, non sopporto di fare l’amore davanti una porta aperta. Ti prego, va’ a chiudere la porta del bagno.”
“Come sei difficile,” mormorò. Tuttavia, docile come sempre, ripartì di nuovo attraverso lo studio. La vidi allontanarsi nell’ombra, leggiadro fantasma, con la sua capigliatura gonfia, crespa e bruna, il suo dorso gracile e ossuto e, sotto la vita snella, le due convessità pallide e oblunghe delle natiche. Chiuse la porta, con diligenza, e tornò indietro, fantomatica una volta di più, nell’ombra che rendeva più grandi e più oscuri i suoi occhi, più pesanti e più brune le sue mammelle, più profondo e più nero il suo grembo. Questa volta non la fermai quando metteva il ginocchio sul divano, bensì nel momento in cui si stendeva, un po’ ansimante, accanto a me:
“Scusami ancora, ma devi farmi il piacere di andare a staccare il telefono. Ieri ha squillato proprio nel momento più bello. Non ci sono andato, è vero, ma lo stesso quello squillo mi ha rotto i nervi.”
La vidi guardarmi un istante e poi, dicendo: “E tre,” sottovoce e quasi senza rimprovero, alzarsi e andare a staccare il telefono, sulla tavola, nel centro dello studio, restando un momento di profilo contro luce. Quindi si avviò di nuovo verso il divano, il volto atteggiato per la terza volta alla compunzione e all’attesa. Aspettai che mi fosse giunta vicina, ed esclamai con finta ingenuità: “Che distratto sono. Cecilia, amore mio, fammi ancora un piacere: va’ a prendere sul davanzale l’astuccio delle sigarette... lo sai che dopo l’amore mi piace fumare, te ne prego.”
Non disse niente e mi lanciò una lunga occhiata stupita; però ubbidì per la quarta volta: eccola, così, andare al finestrone, prendere le sigarette e tornarmi incontro, tuttora preparata e pronta a darsi.
“Ecco le tue sigarette,” disse con gioiosa impazienza, gettandomele in faccia e nello stesso tempo facendo il gesto di slanciarsi sopra di me. Ma la fermai a volo: “E i fiammiferi?”
“Auffa.” Nuova passeggiata verso lo studio, sempre in punta di piedi; tuttavia come tornò indietro, l’espressione rituale pareva adesso leggermente insidiata da un’ombra di dubbio e di mortificazione. Mi lanciò in faccia i fiammiferi come mi aveva lanciato le sigarette, ma invece di salire sul divano, si fermò a qualche distanza e domandò: “Dimmi subito se ti serve ancora qualche cosa, finché sono in piedi.”
“Sì,” mentii, “mi serve che tu vada in cucina e chiuda la chiavetta del gas, ho l’impressione di averla lasciata aperta.”
“E poi?”
“E poi, sì, c’è ancora qualche cosa che volevo chiederti: va’ nell’ingresso e stacca il campanello della porta. Qualcuno potrebbe venire a disturbarci.”
Mi aspettavo che ubbidisse; invece la vidi sedersi deliberatamente su una sedia, prendendosi una gamba tra le braccia; e, così rannicchiata, in un atteggiamento afflitto e dubbioso, guardarmi in silenzio. Le domandai sorpreso: “Che ti prende, perché non vai a fare le cose che ti ho chiesto?”
Non rispose subito. Alla fine domandò con precauzione: “Queste due cose o altre?”
“Queste due sole.”
Si scosse, con quello che pareva un leggero sospiro, e una volta di più peregrinò attraverso lo studio andando prima in cucina e poi all’ingresso. Quando tornò indietro, notando che sul suo volto persisteva l’espressione dell’attesa e del desiderio, mi domandai se l’avrei mai più riveduta nel caso avessi prolungato il mio gioco crudele. Questo era l’amore, pensai, quel solo amore di cui lei era capace, e io stavo per ucciderlo. Ma come si fu distesa accanto a me, non potei trattenermi dal dire: “Mi dispiace, ma dovresti alzarti ancora una volta. Vorrei un portacenere, non mi piace di gettare la cenere in terra.”
Questa volta, fece il contrario giusto di quello che aveva fatto il gatto, negli anni lontani della mia infanzia. Lui aveva parlato, umanamente, ragionevolmente, quasi direi cristianamente; il dolore che gli avevo inflitto, l’aveva innalzato fino all’umanità. Cecilia, di fronte alla stessa crudeltà, ebbe un gesto di umiltà bestiale, insieme muto e patetico. Invece di levarsi come le ordinavo, si rannicchiò ancor più strettamente contro di me, nascondendo il volto tra la mia spalla e l’orecchio, intrecciandosi a me con le gambe e le braccia e come pregandomi, in silenzio, alla maniera appunto degli animali che non possono parlare, di non tormentarla più, quale che ne fosse il motivo e la soddisfazione che ne ritraevo. Quest’abbraccio umiliato, triste e supplichevole, altrettanto istintivamente bestiale che il miagolio del gatto tanti anni prima era stato ragionevolmente umano, produsse lo stesso effetto. Mi vergognai ad un tratto della mia crudeltà che cercava nella sofferenza altrui la riprova della realtà; e senza più insistere nelle mie assurde richieste, le resi l’abbraccio. Subito sentii il suo corpo, il quale pareva avere aspettato soltanto quel segnale, stringersi al mio in una maniera diversa, non più implorante, ora, ma avida, assestandomi con il pube il solito colpo duro e impaziente, come per avvertirmi che lei era pronta. Così, pensai con più divertimento che noia, il pasto incominciava.
Ma mi restarono da quel giorno il disgusto della crudeltà, quale sintomo significativo della mia mancanza di rapporti con Cecilia, e al tempo stesso la paura di ricadere in futuro in crudeltà maggiori, più irreparabili e più vergognose. Quella non era stata che una prima avvisaglia; capivo, che perdurando nella mia relazione con Cecilia la noia e i suoi effetti, io avrei potuto davvero scivolare nel sadismo, poiché era proprio a questo che mi spingeva il bisogno di stabilire con lei un rapporto purchessia. Il fatto che il patetico e bestiale abbraccio di Cecilia mi avesse fatto interrompere la crudeltà, non doveva illudermi. In realtà avevo cessato di tormentarla non tanto perché avessi provato pietà di lei e vergogna di me, quanto perché, con quell’abbraccio, lei aveva riconosciuto di soffrire, e io avevo appunto voluto portarla a questo riconoscimento, e così, attraverso lo spettacolo della sua sofferenza, scacciare la noia. Ma su questa strada, indurendosi sempre più la mia sensibilità, avrei potuto, come ho già detto, arrivare al sadismo, ossia alla trasformazione della noia in meccanismo vizioso. La noia mi ispirava spavento ma non ribrezzo, perché aveva qualche cosa di netto e di essenziale. Invece il sadismo mi ripugnava soprattutto per la sua ipocrisia (il sadico pretende sempre di punire la sua vittima mentre in realtà cerca il godimento attraverso le sofferenze che le infligge con il pretesto della punizione) e poi per l’eccitazione che mi procurava, tanto più impura quanto più era casta o, almeno, pretendeva di esserlo, fino al momento in cui, messa da parte ogni ipocrisia, si sfogava nel rapporto amoroso, rivelandosi in tal modo come nient’altro che una specie di droga.
Per fortuna, però, non sono crudele; quel primo episodio di crudeltà fu anche l’ultimo. Pensai, invece, che prima che fosse troppo tardi, mi conveniva separarmi da Cecilia. Mi dispiaceva farlo, non tanto per me, perché mi illudevo di non amarla, quanto per lei che immaginavo innamorata, sia pure alla sua maniera silenziosa e inespressiva. Perché poi fossi così sicuro di non amare Cecilia e di esserne amato, sarebbe difficile dire. Per quanto riguardava me, il fatto di poter disporre di Cecilia, ossia del suo corpo, quanto volevo, ogni volta che volevo, e in tutti i modi che volevo, dandomi l’illusione di possederla a fondo, ossia di avere con lei un rapporto tanto completo da renderne ormai inutile la continuazione, mi aveva convinto di non amarla. Analogamente ero convinto che Cecilia mi amasse perché la trovavo sempre così compiacente, così arrendevole, così docile. Per una vanità maschile molto comune, attribuivo questa compiacenza all’amore; mentre avrei dovuto essere messo almeno in sospetto dalla qualità inarticolata e quasi automatica di questo amore. Pensavo, così, che mentre avrei provato sollievo a staccarmi da lei, Cecilia invece ne avrebbe sofferto; e rimandavo, per questo, di giorno in giorno la separazione, perché volevo trovare un pretesto che gliela rendesse meno offensiva e dolorosa che fosse possibile.